Francesco Benigno, “Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica”, Torino, Einaudi, 2018, XXI-364 pp.
È un lavoro ambizioso quello di Francesco Benigno, perché si propone di ripercorrere la storia bisecolare di un fenomeno ampiamente dibattuto, il terrorismo, e, tuttavia, tutt’altro che chiaro nei suoi contorni e connotati. Tre assi interpretativi attraversano, più o meno sotterraneamente, il libro. Il primo è relativo al rapporto tra fatti e parole, cioè tra, da un lato, azioni e pratiche del terrorismo e, dall’altro, strettamente intrecciati, discorsi dei terroristi e sul terrorismo. Che la storia del terrorismo sia il risultato non solo di una successione di eventi ma, non meno rilevanti, di teorie, analisi e riflessioni volte a definire innanzitutto chi e cosa inserire in quella storia è l’assunto foucaultiano su cui si fonda il libro. A muovere l’indagine di Benigno è infatti un obiettivo polemico chiaramente individuato, costituito da quell’immensa massa di studi che, da diverse prospettive disciplinari (dalla politologia alla sociologia, dalla psicologia al diritto e alla storia), dai primi anni Ottanta hanno dato luogo a un processo di reificazione ed essenzializzazione del terrorismo, cioè di «produzione di discorsi finalizzati alla costruzione di un oggetto a sé stante, ridotto a essenza, dotato di una propria peculiare autonomia dalla politica e dalla guerra» (p. 258). Il terrorista, infatti, non è un individuo identificabile come tale, né è possibile definire terroristica una certa pratica o azione prescindendo dal contesto storico e politico in cui essa si inserisce. In altre parole, «”terrorismo” non è un termine neutro, puramente descrittivo, ma è invece una locuzione valutativa, di tipo politico-normativo, un’etichetta dispregiativa adottata dai governi e dalle forze politiche per screditare gruppi avversari denunciandone i comportamenti come illegittimi» (p. VIII). L’etichetta di «terrorista» viene assegnata a seconda delle circostanze e degli interessi in campo e, generalmente, è rifiutata da chi viene qualificato come tale: il suo impiego, in altre parole, definisce chi la usa non meno di chi ne viene fatto oggetto. Basti pensare ai casi di tre premi Nobel per la pace come Menachen Beghin, Yasser ‘Arafāt e Nelson Mandela, in precedenza denunciati e combattuti a lungo come terroristi.
Per parlare di terrorismo Benigno sceglie di farne la storia, inserendo azioni e parole nel loro tempo: partendo da Robespierre e il giacobinismo, il libro passa per Babeuf, Buonarroti, Mazzini e Carlo Bianco di Saint-Jorioz, Blanqui, Pisacane, i populisti russi, l’indipendentismo irlandese, la «propaganda del fatto» degli anarchici, il rapporto tra terrorismo e bolscevichi, i riflessi nel mondo coloniale, le lotte per l’indipendenza dell’Algeria, gli «anni di piombo» in Europa e in America latina, gli attentati palestinesi, l’11 settembre, per arrivare agli anni recenti e alla proiezione tendenzialmente globale del terrorismo islamico. Gli eventi generalmente qualificati come terrorismo si saldano strettamente, e a volte si confondono, con altri fenomeni come la guerra civile o la guerriglia.
Pur contestando la possibilità di elaborare una definizione precisa e univoca di che cosa può essere classificato come terrorismo, valida per tutte le epoche e i contesti, nelle pagine conclusive, tuttavia, vengono delineate alcune «caratteristiche costanti» (pp. 303-304): «la natura cospirativa, segreta e nascosta del gruppo che la promuove»; l’imprevedibilità; la presenza di una «Causa» mobilitante; una visione della società costruita intorno a «un’immagine polarizzata sull’asse noi/loro»; la natura prevalentemente simbolica del gesto terroristico, il suo indirizzarsi innanzitutto al condizionamento degli orientamenti dell’opinione pubblica; e, di conseguenza, la prevalenza degli effetti psicologici su quelli fisici o militari, consistenti soprattutto nell’attivazione di processi di costruzione identitaria. A questo proposito, scrive Benigno, il terrorismo «si rivolge non tanto alla popolazione della nazione da colpire quanto soprattutto a un proprio popolo, a una propria comunità. Gente che va richiamata alla lotta e a cui occorre dimostrare che vincere è possibile, che il debole può sconfiggere il forte. Che la Causa trionferà […]. L’atto “terroristico” non è dunque messo in atto con il fine primario di terrorizzare, ma con quello di conquistare i cuori e le menti di un popolo considerato oppresso» (p. 301). Sono, nell’insieme, precisazioni categoriali utili e nel contempo, come si vede, larghe e ampiamente «interpretabili», che dunque ci lasciano ben distanti dalla ricerca di una definizione inequivoca e onnicomprensiva promossa dalle scienze sociali, soprattutto dai filoni più «ortodossi» dei cosiddetti terrorism studies.
Da questo punto di vista, il terrorismo odierno – pur nel variare dei contesti, delle tecnologie disponibili e dei sistemi ideologici che lo ispirano – riproduce in larga parte prassi e discorsi peculiari della lunga tradizione del «terrorismo rivoluzionario»: è il secondo asse interpretativo, che inerisce la questione del rapporto tra continuità e discontinuità, e che, ancora una volta, è sviluppato prendendo apertamente le distanze dalla gran parte della recente letteratura scientifica e dal dibattito pubblico, che vedono nel terrorismo degli ultimi anni un fenomeno sostanzialmente nuovo.
Alle diadi parole-fatti e continuità-discontinuità il libro ne affianca una terza, composta da terrorismo e antiterrorismo (o «controterrorismo»), che si salda a quella più ampia di terrore e terrorismo, richiamata nel titolo. La storia del primo elemento è anche, inestricabilmente, la storia del secondo, non solo perché reazioni e relazioni ridefiniscono obiettivi, percezioni e pratiche dei diversi attori coinvolti, ma anche perché, pur con obiettivi inconciliabili, terrorismo e controterrorismo si sono trovati in numerose occasioni a utilizzare le stesse tecniche e gli stessi metodi. Il terrorismo, infatti, è sia una cultura politica rivoluzionaria, sia una tecnica militare, un repertorio di pratiche d’azione, e in questa seconda accezione si offre come spazio di possibilità per una pluralità di attori, sia non statali (o che si autorappresentano come un anti Stato), sia riconducibili ai poteri costituiti, anche se quasi sempre in forme coperte; quella tecnica militare, infatti, può essere impiegata dalle autorità statali, o da singole componenti, per difendersi dalle minacce poste all’ordine costituito o per colpire un nemico e indurlo a fare determinate scelte, anche attraverso la manipolazione. Già negli ultimi decenni dell’Ottocento le polizie europee avevano messo a punto tecniche sofisticate, che prevedevano l’infiltrazione di agenti segreti, l’uso di agenti provocatori e l’eterodirezione di gruppi sovversivi, spinti anche a compiere attentati per sfruttarne gli effetti sull’opinione pubblica.
Per tentare di orientare, o manipolare, l’opinione pubblica – obiettivo fondamentale non solo del controterrorismo ma anche del terrorismo – decisivo è stato il ruolo assunto dal sistema mediatico. La fotografia e la stampa di massa prima, dalla fine dell’Ottocento, e poi il cinema, la televisione fino ai social network abilmente utilizzati dai gruppi jahdisti hanno alimentato la spettacolarizzazione del conflitto politico. Le pratiche terroristiche se ne sono giovate, trovando spesso nei media un alleato inconsapevole. Si tratta di un tema laterale nel libro, e che però ne rafforza un fondamentale presupposto interpretativo, e cioè che il terrorismo non costituisce un’alterità radicale ma fa parte delle dinamiche conflittuali della società contemporanea: di conseguenza, non solo esso non è separabile con nettezza dalle altre forme di violenza politica, ma le sue azioni e i loro effetti si intrecciano con l’agire di una pluralità di attori istituzionali e sociali.