Valeria Galimi, Sotto gli occhi di tutti. La società italiana e le persecuzioni contro gli ebrei, Firenze, Le Monnier, 2018, 189 pp.
Il titolo particolarmente ben scelto del nuovo libro di Valeria Galimi si ispira a un volume di fotografie pubblicato in Germania nel 2002, che interrogava le responsabilità della società tedesca di fronte alle persecuzioni antiebraiche commesse dal regime nazista. In modo simile, Sotto gli occhi di tutti indaga gli atteggiamenti della società italiana di fronte alla propaganda e alle persecuzioni antisemite del regime fascista. L’autrice affronta l’argomento con un taglio innovativo e originale. I sei capitoli del volume costituiscono altrettanti contributi diversi su questo tema, quasi come dei “carotaggi” che servono ad inquadrare le problematiche dell’indagine, ma senza ovviamente esaurire questo vasto campo di ricerca. Come ben sottolineato nell’ultimo capitolo – che ripercorre il percorso della storiografia – sono necessarie ricerche più approfondite sui rapporti tra società italiana e regime fascista. Contrariamente a studi precedenti sullo “spirito pubblico”, che fondati sulle carte della polizia fascista tendono a restituire un’immagine tendenzialmente omogenea, Galimi insiste sull’importanza di scomporre le reazioni della società, prestando più attenzione alla sua diversità geografica, sociale e professionale. Al centro di un quadro più sfaccettato, l’autrice pone la questione delle relazioni all’interno delle società italiana, e più specificamente quelle tra ebrei e non ebrei. La focalizzazione sulle interazioni permette di superare i precedenti quadri interpretativi troppo generali della storiografia che difficilmente potevano cogliere la pluralità delle reazioni degli italiani e colmare la tensione tra individualità e collettività nell’analisi dello spirito pubblico.
Seguendo due scelte metodologiche innovative, il libro offre un contributo significativo e decisivo per la storiografia ormai vasta sulla Shoah in Italia. In primo luogo, Galimi evidenza la necessità di riconnettere la storia delle leggi razziali del 1938 con quella della Shoah. Troppo spesso le ricerche sull’antisemitismo fascista si fermano all’entrata in guerra, mentre gli studi sull’Olocausto in Italia non prendono abbastanza in conto i rapporti sociali tra ebrei e non ebrei formatosi nel contesto del ventennio fascista. Il libro dimostra invece un legame stretto tra queste relazioni prima della guerra e le traiettorie dei singoli casi di persecuzione e salvataggio durante la Shoah: «la società maggioritaria di ogni Paese europeo reagisce davanti alle persecuzioni della minoranza ebraica secondo il carattere delle relazioni instaurate in precedenza; ne consegue che, ove sia possibile osservare una maggiore integrazione della comunità ebraica nel tessuto nazionale, è dato verificare il moltiplicarsi di aiuti e di soccorsi nel momento delle deportazioni». Qui si potrebbe anche pensare all’analisi di Marion Kaplan sugli effetti delle leggi antisemite nella Germania nazista come “morte sociale” per gli ebrei, un isolamento che costituiva il preludio necessario a politiche di annientamento. In secondo luogo, Galimi fa ricorso sia agli strumenti delle scienze sociali nel campo degli Holocaust Studies e dei Genocide Studies, sia, in modo molto convincente, alla microstoria, approfondendo così l’analisi dei “microcosmi della Shoah” attraverso giochi di scala e un’attenzione particolare alla dimensione geografica.
I primi due capitoli dimostrano l’assenza di una posizione uniforma degli italiani nei confronti della campagna antisemita del fascismo. Nella prima fase delle persecuzioni (1938-40), gli individui reagiscono soprattutto se sono coinvolti da vicino, per ragioni professionali ed economiche. La propaganda cominciò a far veramente presa sulla società italiana solo dopo l’entrata in guerra con il martellamento sul tema della “guerra ebraica” e la stigmatizzazione di tutti gli ebrei come nemici interni. Il secondo capitolo offre spunti illuminanti sulla persecuzione degli ebrei stranieri e sulla loro “criminalizzazione” sia nella propaganda che nelle pratiche giuridiche. Un aspetto che spiega meglio perché gli ebrei stranieri sono stati le prime e più numerose vittime dello sterminio in Italia, come viene evidenziato nel terzo capitolo, nel quale l’autrice discute la nota tripartizione di Raul Hilberg sull’atteggiamento degli attori della Shoah divisi tra vittime, carnefici, e spettatori (bystanders). Mettendo in opera una ricca documentazione, Galimi dimostra come queste grandi categorizzazioni sono in realtà più porose quando vengono contestualizzate, ovvero quando sono analizzate in un quadro micro e su una lunga durata: «per poter dar conto delle molteplici reazioni e comportamenti della società italiana, è pertanto utile, attraverso un jeu d’echelle, partire dall’analisi di “microcosmi” in cui si consuma la Shoah, prestando attenzione alle interazioni fra ebrei e non ebrei già in atto nel periodo precedente la guerra, uscendo cosi da una tripartizione che mostra tutti i suoi limiti applicati ai casi concreti». L’autrice si sofferma sulla «folla di spettatori», per poter uscire da quella ripartizione un po’ troppo rigida: in effetti gli spettatori non sono stati passivi e la loro partecipazione fu caratterizzata da una certa fluidità e da un’ambivalenza nei confronti degli ebrei. Questo capitolo, il più convincente del libro, riesce a presentare con molte sfumature uno spettro di comportamenti variegati e cangianti che risultano da fattori molteplici, quali il livello di vulnerabilità e le risorse locali degli ebrei, lo zelo dei delatori, il margine di discrezione delle autorità locali ecc..
Con risultati persuasivi, i tre primi capitoli smentiscono il mito del “bravo italiano”. Tuttavia, come dimostrano i tre capitoli seguenti sull’eredità delle persecuzioni antisemite dopo la guerra, l’idealizzazione degli Italiani “brava gente” e salvatori di ebrei ha prevalso sia nella memoria pubblica (si vedano i capitoli 4 e 5 sulla ricezione del processo Eichmann e sulle politiche di memorie fino agli anni 1990-2000) che nella storiografia (capitolo 6). Un atteggiamento autoassolutorio ha caratterizzato infatti ampi settori della cultura italiana nel dopoguerra, fino a tempi recenti. A tale riguardo, questa vicenda storica sollecita nuove domande e il libro suggerisce alcuni percorsi per ulteriori approfondimenti. Sarebbe opportuno, per esempio, affrontare in modo più approfondito e sistematico il ruolo della Chiesa e della cultura cattolica sia durante il periodo fascista e la Shoah che nel dopoguerra, un aspetto che purtroppo l’autrice ha scelto di non trattare in modo sistematico benché compaia diverse volte nella narrazione. Ci si può augurare allora che con la prossima apertura degli archivi di Pio XII si instauri un dialogo più fruttuoso tra specialisti di storia ecclesiastica e storici del fascismo.