E ci fermiamo di nuovo e abbiamo la sensazione improvvisa che il fronte, quell’inferno di orrori, quel lembo di terra sforacchiata e dilaniata, ci sta nel cuore; il diavolo se la porti! Se non fossero tutte balle, roba da muovere il vomito, si direbbe quasi che quel lembo di terra ci sia divenuto familiare come una patria terribile e tormentosa, e che questo sia il nostro posto.
Erich Maria Remarque, La via del ritorno.
In questo saggio [1] ho voluto analizzare i modi in cui vengono rappresentati i reduci del primo conflitto mondiale nel cinema italiano e francese tra il 1915 ed il 1925.
Prima di addentrarmi in questa analisi sono necessarie due giustificazioni. Una di tipo terminologico, l’altra di natura temporale.
Reduce deriva etimologicamente da ducĕre, cioè condurre. Re-ducere significa ritornare, condurre indietro. Nell’accezione più elementare, il reduce è colui che ritorna. Volendo dare maggiore spessore a questa analisi è doveroso chiedersi cosa ritorni insieme a coloro che hanno combattuto la guerra. Non solo un corpo diverso, ferito e martoriato, ma anche un insieme di esperienze uniche (tra cui il forzoso contatto con la violenza bellica) che, solo se assoggettate, permetteranno un reale ritorno alla normalità e insieme a chi è rimasto a casa. Questo topos godette di grande fortuna in ambito letterario [2], meno tematizzata è invece la sua declinazione in ambito cinematografico.
L’arco cronologico prescelto, 1915-1925, non è un omaggio alla “sorella latina”, né è dovuto a elementi sciovinistici, dipende invece dalle fonti: i pochissimi film francesi editi nel 1914 relativi al conflitto in corso non mostrano il ritorno a casa del soldato. Il 1925 è un anno di importanza capitale sia a livello politico (in Italia vengono promulgate le leggi fascistissime, mentre i francesi riconoscono la frontiera franco-tedesca con il trattato di Locarno) che cinematografico (in questa data viene distribuito in Europa The Big Parade di King Vidor, un film che modificherà radicalmente il modo di vedere la guerra e i reduci).
La scelta comparativa tra questi due Paesi permette di leggere con maggior chiarezza gli elementi comuni e quelli peculiari dei due differenti contesti.
La maggiore profondità della ricerca sui titoli italiani è dovuta al maggiore sviluppo di alcuni strumenti che la storiografia cinematografica sul caso italiano ha prodotto nel corso degli anni (penso in particolare ai lavori di Martinelli e Bernardini [3]) e che invece, a oggi, mancano nell’Esagono. Per il caso italiano sono inoltre disponibili alcuni dati censori [4] che, al momento, mancano Oltralpe.
Prima di proseguire nell’analisi, devo fare mia una considerazione espressa da Davide Turconi a Livio Jacob. Per lo storico del cinema muto:
Chi può dire di conoscere a fondo il cinema muto italiano? Nemmeno la Prolo lo conosceva tanto bene. Alla domanda: “Conosci il cinema muto italiano tanto da poterlo giudicare a paragone delle altre cinematografie?” La risposta è negativa. Nessuno al mondo potrebbe rispondere di sì, perché ne conosciamo solo una minima parte [5]».
La lettura va orientata conseguentemente a questa premessa: considerazioni di ordine generale non sono realmente sostenibili su fonti dirette ed è doveroso circoscrivere la profondità delle proprie conclusioni a quanto si è potuto esaminare, un campione che, pur essendo discretamente ampio, non è necessariamente rappresentativo del cinema di quest’epoca.
Il settore cinematografico in entrambi gli Stati subì un importante ridimensionamento in questi anni. Il cinema francese soffrì pesantemente gli anni di guerra (tanto che Sadoul definirà questo periodo come il declino della produzione francese [6]), arrivando a sospendere in toto la produzione nei primi mesi del conflitto. Questa situazione permetterà a diversi produttori stranieri, in particolare statunitensi, di insinuarsi in un mercato fino a quel momento loro precluso.
L’immediato dopoguerra mette in luce tutte le difficoltà di questo settore: Abel stima un rapporto di circa 5 film stranieri per ogni film francese. I motivi sono molteplici, ma decisivo risulta essere il costo di esportazione: «Whereas one meter of film exported to the United States or England costs the French the equivalent of .18 to .35 centimes in customs duties, one meter of film imported into France cost only .02 centimes [7]».
Lo stesso avvenne in Italia, con una lieve differenza temporale. Se il periodo bellico fu segnato da una sostanziale tenuta del consumo interno e di dati positivi anche per l’esportazione (verso alcuni dei paesi alleati o su mercati di paesi rimasti neutrali), nel dopoguerra si manifestò in maniera drammatica la crisi del settore. Il crollo della Banca Italiana di Sconto (1921), aprì la crisi verticale dell’UCI e, conseguentemente, di tutto il sistema industriale cinematografico e del suo indotto. I primi anni di governo Mussolini furono un periodo di estrema debolezza del cinema nazionale, ridotto a produrre pochi titoli all’anno.
Il tema analizzato non è tra quelli più frequentati dalle industrie cinematografiche di entrambi i Paesi: ho reperito quattordici pellicole italiane, cinque delle quali prodotte durante il periodo bellico, e sette francesi, di cui tre distribuite prima del termine del conflitto.
L’analisi delle vicende dei singoli film, effettuabile grazie a fonti dirette e indirette, ci permette di far emergere alcuni elementi caratterizzanti.
Il cinema italiano propone un graduale peggiornamento del contesto del rientro dei reduci: nel 1915, i soldati protagonisti di Bandiera bianca e Befana di guerra, tornano a casa al termine di una guerra vittoriosa, ristabilendo la pace in famiglia e godendosi il meritato riposo. Nel 1916, Amore di barbaro, mostra invece come la vittoria italiana non coincida con la pace o con un facile reinserimento sociale. Il matrimonio riparatore che avrebbe dovuto pacificare la donna italiana con un soldato austriaco non ha successo. Il militare italiano, dopo aver eliminato lo straniero, non sceglie una soluzione accomodante, ma riparte, per un altrove non meglio definito.
Per il 1917 non ho reperito nessun film su questo tema. La crisi colpisce l’intero settore cinematografico e i pochi titoli relativi al conflitto non mostrano nessun reduce.
Nel 1918 vengono distribuite due pellicole profondamente differenti. Da un lato Mariute, un film di propaganda, che testimonia l’inversione di rotta presa dai metteur en scène italiani dopo Caporetto: una diva, la Bertini, interpreta se stessa. Dopo aver ascoltato una storia relativa ad uno stupro di guerra, si immedesima nei panni della donna che ha subito violenza e modifica il proprio stile di vita per dare il proprio contributo alla Patria. Il reduce, in questo caso, è colui che arriva sul set come comparsa e viene ascoltato con interesse e rispetto dall’intera troupe, compresa la protagonista.
Radicalmente opposto è il caso de Il canto della fede.
Il film viene portato in censura il 2 settembre ma approvato solo a guerra terminata, il 19 novembre 1918. Questa elevata attesa è anomala per un film di fiction. Ritengo che una così lunga sosta sia dipesa dai contenuti dell’opera.
Il protagonista infatti è un alpino che si è guadagnato una medaglia (e una lunga convalescenza) a causa di una ferita subita in azione. Viene accolto a casa di una crocerossina conosciuta in ospedale, sposata a un ricco avvocato. I due coniugi, Mary e l’avvocato Sori, si prodigano come possono per aiutare la popolazione a superare il lungo conflitto. Luciano, il soldato ferito, è innamorato di Mary e dichiara alla padrona di casa i propri sentimenti. Lei è combattuta, ma resiste al militare, preferendogli il marito. Luciano non desiste, ma capita l’assoluta fedeltà della moglie all’avvocato, decide di ritornare al fronte.
Il film mostra alcuni elementi rivelatori della situazione socio-politica dell’ultimo anno di guerra. L’entusiasmo popolare (se mai vi fu) è sicuramente esaurito, tanto che nemmeno al cinema è possibile mostrarlo. La manifestazione patriottica fatta al circolo nazionale in onore del militare vede la partecipazione esclusiva delle classi più agiate, mentre sono assenti quelle popolari. Inoltre, se non vi sono espliciti momenti di palese condanna della guerra, nel film manca una vera propaganda a favore di questa o delle sue ragioni.
Il comportamento di Luciano, il protagonista, è sintomatico e ci obbliga a classificarlo fuori dalla morale borghese tradizionale. Lo vediamo violare le regole dell’ospitalità, insidiando, due volte, la moglie del padrone di casa. Il personaggio può essere visto come l’incarnazione di quell’egoismo, sacro o profano, che animò l’interventismo italiano.
Il suo rivale in amore, con cui rimane in ottimi rapporti e con cui discute di «alti ideali» (i propri racconti di guerra), è una figura a lui antitetica. Sori, il marito, non è partito per il fronte e non ha combattuto, ha una bella moglie e una splendida casa. Esalta al circolo patriottico le imprese belliche, ma non può che ascoltarle o dalla voce di chi effettivamente le ha compiute o dai giornali. Si crea così un contrasto latente tra l’ufficiale, che ha effettivamente fatto la guerra, e quella figura così ostile ai soldati di linea, del patriota imboscato, che esalta il conflitto pur non avendovi mai partecipato. Il loro scontro ha al centro una donna che diventa giudice dei due protagonisti. Lei sceglie il marito-avvocato, obbligando il militare a «sposarsi con la bandiera» che lei ha cucito.
La guerra è ancora in corso, ma la pellicola anticipa alcuni problemi che si manifesteranno nel dopoguerra: come arginare le pretese di quella parte della nazione che si considera sana, cioè coloro che hanno combattuto? Come spiegare che la guerra, le sofferenze e il cameratismo non sono contati nulla?
Nel dopoguerra vi è una serie di film in cui si vedono i combattenti rientrare in Patria dopo una pace vittoriosa, ma senza ottenere gli onori attesi al termine di un conflitto così sanguinoso. Amici, mogli e fidanzate spesso non hanno atteso chi è stato al fronte e non celano il proprio malcontento in caso di un loro stupefacente ritorno.
Quando questo non avviene (e assistiamo a una riappacificazione tra due rivali in amore o con l’amata), il prezzo da pagare è un’importante menomazione.
Il reduce diventa colui che deve misurarsi con la perdita. Oltre a quella dei commilitoni, anche o di una persona cara o di una parte del proprio corpo (tutti temi ignorati dal cinema italiano tra il 1915 ed il 1918).
Le mutilazioni, divenute già evidenti col ritorno degli inabili durante il conflitto, approdano sullo schermo solo a guerra terminata. Probabilmente in questa apertura giocò un ruolo importante anche il governo Nitti [8], il primo a essere guidato da un radicale, attento alle esigenze dei combattenti e dei reduci e più aperto in materia censoria [9].
Se alcuni titoli tentano di irridere la presunta scaltrezza degli ex imboscati utilizzando il registro della commedia (Occupati d’Amelia), il dramma risulta di gran lunga il genere più frequentato. Particolarmente indicativo sembra essere un film a oggi perduto: L’uomo che vide la morte.
In questa pellicola, passata in censura nel dicembre del 1919, si riflettono gli avvenimenti accaduti quell’anno (ivi comprese le riflessioni sul difficile reinserimento dei reduci da parte del regista, soggettista e sceneggiatore Luigi Romano Borgnetto [10]). Il film fu applaudito dalla critica [11], ma purtroppo non disponiamo dei dati relativi al suo esito commerciale.
Protagonista della pellicola è il dottor Mario Berti, soldato durante la prima guerra mondiale. Mentre rientra verso la propria casa, pensa alle sofferenze patite in quegli anni e sogna di ritornare in un mondo felice, dopo aver vissuto a lungo a contatto con gli orrori del conflitto.
Giunto a destinazione scopre che i suoi fratelli sono riusciti a imboscarsi, ma ora si odiano tra loro; la sua fidanzata l’ha tradito col suo miglior amico e lui non riece a riottenere il lavoro da medico che svolgeva prima del 1915. Berti continua a pensare ai suoi compagni di guerra che, nonostante la vicinanza continua con la morte, rimanevano generosi e puri. Il dottore ha orrore del mondo uscito dal conflitto, incurante dei sacrifici degli uomini che l’hanno vissuto. La sua unica certezza è la madre, capace di infondergli fiducia verso l’avvenire. Berti si dedica all’educazione dei giovani e si impegna a renderli uomini migliori di quelli che vede attorno a lui.
Il film ebbe, prima della sua uscita, una lungo iter censorio. Nel giugno 1919 venne infatti vietato. Per ottenere il visto, sei mesi dopo, i produttori dovettero acconsentire a tre tagli: «a) Il quadro in cui si vede il cadavere di un soldato caduto in guerra esposto in posa macabra e circondato da topi. b) La scena delle violenze carnali che si compiono in persona di una signorina ad opera di soldati nemici. c) Il quadro in cui si vede un bambino steso al suolo con le mani mozzate [12]». Dal visto censura si evince che il problema dell’opera non fu il modo in cui venne trattato il reducismo, ma la rappresentazione della violenza.
La differenza dalle opere che lo precedono è totale: il film di Borgnetto anticipa alcune tematiche che emergono dalla letteratura sulla guerra di pochi anni successiva e che troveranno grande diffusione negli anni Trenta grazie al cinema pacifista. Inoltre il protagonista, il dottor Berti, non si impegna nella vita politica, né cerca di mutare l’atteggiamento dei propri concittadini. Il suo è un rientro che lo conduce verso una chiusura nel privato, a causa del mondo che lo circonda.
Il tradimento del fronte interno verso chi ha combattuto si ritrova in molti titoli (Colonnello Chabert, Il grido dell’aquila, Occupati d’Amelia, Via del peccato) insieme alla morte di uno dei protagonisti, primo timido accenno agli alti costi umani della guerra, fino a quel momento taciuti (Passione di popolo, Il grido dell’aquila, Fenesta cà lucive, Napoli è sempre Napoli).
Molti dei temi emersi dalla ricerca storica non trovano nessun’eco in campo cinematografico: non compaiono sugli schermi, ad esempio, il forte radicamento dei circoli dei combattenti nel sud del Paese o il loro ardito programma politico; nemmeno la questione fiumana arriverà nelle sale.
Altri temi invece arrivano sugli schermi, prima tra tutti l’estraneità e la diffidenza sia nei confronti del socialismo che dei popolari (cinematograficamente infatti i reduci sembrano critici verso i due partiti che si affermano nelle elezioni del 1919) [13], sia il loro desiderio di pace e le critiche ai firmatari della pace di Versailles.
In sintesi, il caso italiano si caratterizza per il progressivo peggioramento delle condizioni dei reduci: se nei primi mesi di guerra si prevede un rientro a casa capace di portare serenità nel nucleo familiare, indebolitosi in assenza del pater familias, già dal 1916 non è più possibile immaginare un ritorno senza problemi alla vita ordinaria. Il 1918 mostra la difficoltà di conciliare i desideri di chi combatte, con quelli di chi è rimasto casa.
Nel dopoguerra sparisce ogni possibile forma di “happy end” e i combattenti sembrano, nonostante la presa di potere di Mussolini, incapaci di un ritorno alla normalità.
Unica significativa eccezione è la drammatica epopea squadrista de Il grido dell’aquila. Il film diretto da Volpe narra le vicende di un gruppo di uomini coinvolti nella prima guerra mondiale. Il disordine del dopoguerra è sedato dai gruppi di reduci organizzati dal fascismo. La morte di alcuni protagonisti è dolorosa, ma permette il raggiungimento di un obiettivo collettivo, capace di dar senso alle perdite individuali.
Il confronto con la Francia mi pare particolarmente interessante perché Oltralpe la situazione è diametralmente opposta.
I pochi titoli che ho individuato relativamente a questo tema, prodotti a guerra in corso, sono differenti. Moulin Tragique è un classico war movie con finale consolatorio.
La guerra ha un costo (il fratello della protagonista viene ucciso, il mulino di famiglia distrutto), ma i benefici pareggiano i danni subiti (la donna trova marito, il mulino viene ricostruito).
L’immagine trasmessa da altre pellicole è invece decisamente meno ottimistica, anzi vengono problematizzati, all’interno della cultura di guerra, due temi fondamentali come il nazionalismo e il nuovo assetto sociale che scaturirà dalla guerra.
L’empreinte de la Patrie ruota attorno a un matrimonio tra un francese e una donna tedesca.
Il ragazzo, dopo le insistenze del genero, accetta di prendere la cittadinanza tedesca. Suo padre non riesce ad accettare la sua scelta e, trovandolo morente in un ospedale, non lo perdona fino a quando non rivela che è stato colpito da un ufficiale tedesco perché non ha voluto sparare contro i soldati francesi. Anche qui si assiste a una sorta di compensazione (al fratello morente si sostituisce il valoroso fidanzato della sorella) e, senza che venga chiarito l’esito del conflitto, assistiamo a un idilliaco quadro familiare dove i nonni accudiscono i nipotini, probabilmente al termine di una guerra vittoriosa.
Il più maturo dei film prodotti in questo periodo è sicuramente Meres françaises. Il film, distribuito anche in Italia con grande successo critico [14], fu, secondo le dichiarazioni di uno dei registi, Mercanton, un’opera di propaganda pensata per conquistare consenso all’estero, specialmente nei paesi ancora neutrali [15]. La Bernard accettò di partecipare al progetto per vedere le prime linee, dove sarebbero state girate parti delle riprese. Nonostante l’opinione contraria dei militari, alcune scene (quelle girate con la cattedrale di Reims sullo sfondo e una sequenza di combattimento in trincea) vennero riprese al fronte.
Nella pellicola sono raccontati i cambiamenti avvenuti in un villaggio dove padri e figli partono per il fronte. Dopo la gioia iniziale (il film è da considerarsi come uno dei responsabili del mito delle “giornate di luglio” al cinema), gli uomini si dirigono al fronte mentre le donne rimangono, con maggior protagonismo, nelle retrovie. Qui, i congiunti delle vittime, ricevono le notizie dei primi morti e incitano i futuri soldati a vendicare gli amici e i parenti caduti. L’atteggiamento femminile nel film cambia: successivamente, infatti, il sacrificio dei morti viene letto come un tributo per la gloria della madre comune, la Francia.
Al termine della pellicola, la protagonista si pone come modello per le donne di Francia, adottando, dopo la morte del figlio, un soldato rimasto cieco.
L’analisi di questa pellicola mi ha permesso di mostrare come, nonostante la drammaticità degli eventi bellici, il cinema francese continui a marciare compatto fino alla vittoria. L’armistizio e poi la pace non modificano sensibilmente il quadro.
Il racconto cinematografico transalpino degli anni Venti è fortemente influenzato da due pellicole: J’accuse e Vendemiaire. Gance e Feuillade godono di mezzi imponenti e di una libertà creativa unica, rinvigorita dall’armistizio appena siglato.
J’accuse, considerato a torto un film pacifista, venne realizzato con l’aiuto dell’esercito che ne supervisionò la realizzazione e fornì uomini e mezzi [16]. Non mi soffermerò tanto sulla parte del film legata al conflitto, ma sulla III epoca, e in particolare sulla sequenza della cosidetta “marcia dei morti”. Il reduce, in questo caso, è colui che convoca il paese e mostra loro le sue visioni, accusa gli imboscati, i disonesti e i profittatori. Il compito del protagonista, Jean, è quello di controllare la tenuta morale del Paese e di verificare se i civili sono stati degni del sacrificio dei combattenti. Le accuse che Jean rivolge ai suoi concittadini li fanno fuggire, ma sono poi costretti a tornare quando vedono all’esterno l’esercito dei morti. Nel film di Gance il reduce è colui che sorveglia la moralità di chi è sopravvissuto. L’orrore della guerra ha dato ai sopravvissuti saggezza e rettitudine con cui giudicare e fustigare chi non ha combattuto.
Vendemiaire è invece diretto dal maestro del serial cinematografico, Feuillade. Nel film è raccontata la vicenda di una famiglia di profughi dalle terre occupate, in cui sia uno degli aiutanti dei protagonisti, sia gli antagonisti sono reduci. L’ex combattente francese è un uomo divenuto cieco, costretto ad abbandonare la guerra a causa della sua infermità, mentre i due tedeschi sono fuggiti da un campo di prigionia e sono diretti in Spagna, dove sperano di non dover più combattere. A questi ex soldati di campi opposti si aggiungono altri personaggi venuti a contatto con la guerra. Tra questi c’è il marito di una delle protagoniste, tornato fugacemente a casa durante il conflitto e fuggito dopo aver messo incinta la moglie. Nessuno crede alla donna, vista da tutti come una collaborazionista fino al ritorno del marito che la scagiona, confermando la sua storia.
Il reduce, in questa fase, continua a farsi portatore dei caratteri nazionali. I due tedeschi in fuga sono dipinti negativamente: non tornano a servire il paese, sono crudeli, sadici e, almeno uno dei due, non presenta nessun comportamento umano.
I soldati rientrati dal fronte sono ancora influenzati da schemi nazionalistici e manichei: i francesi perseguono il bene, i tedeschi il male. I primi lavorano nei campi per produrre il vino e il pane, i secondi rovinano le messi e usano per primi armi distruttive come l’iprite (collaudata da uno degli antagonisti).
Dopo queste pellicole, immediatamente successive al termine del conflitto, la figura del reduce, come anche i film bellici, sembra essere passata di moda. Daniel sostiene che, fino al 1925, saranno i film d’ambientazione coloniale a sostituirsi a quelli girati nelle trincee [17].
In questi anni si affermò, secondo la nota lettura di Mosse [18], una banalizzazione del conflitto, che permise di neutralizzare la memoria solenne e terribile della guerra. Anche il cinema francese si adeguò a questa temperie culturale, eliminando il lato più tragico della violenza bellica.
I film di questo periodo (Mon village e Koenigsmark), infatti, non mostrano la guerra, ma solo la vita prima e dopo il conflitto. Nel film di Pinchion i francesi rientrano pacificamente nelle ex province tedesche e l’unico nucleo familiare a fuggire, per altro volontariamente, è quello guidato dal capo della polizia locale. Al termine dello scontro l’amore trionfa e una coppia di fidanzati può unirsi in matrimonio, riappacificando due famiglie rivali.
In Koenigsmark la trama ha la stessa struttura: la maggior parte dell’intreccio si svolge prima del conflitto. Anche qui la guerra è quasi elusa (vengono mostrate poche immagini di repertorio) e il doppio finale [19] permetteva agli esercenti di scegliere se far visitare alla donna tedesca il cenotafio del milite ignoto presso l’arco di trionfo o far partire il soldato francese verso il proprio amore.
L’esame di questi titoli mi consente di estrapolare alcuni elementi di continuità che si delineano lungo tutto il decennio: la visione manichea del nemico permane, il conflitto, le sue cause e i trattati di pace non vengono mai messi in discussione e si assiste all’occultamento degli alti costi umani della guerra moderna.
Vi sono però alcune differenze nei rispettivi ambiti nazionali. Il cinema italiano rifiuta, durante la guerra, a causa della censura e della cultura di guerra [20], un contatto con la realtà, ma, lentamente, nel dopoguerra, è costretto a rimuovere quella serie di limitazioni che si è autoimposto e che permettono una prima, lieve, critica, non alla guerra, ma alla scarsa considerazione di cui hanno goduto i reduci, anche a causa degli esigui risultati ottenuti dall’Associazione Nazionale Combattenti.
In Francia il cinema sembra aver dato meno peso a questa figura durante il conflitto, ma gli ha conferito maggior spessore nel dopoguerra. Rapidamente la figura del reduce scompare dalle sale a causa della marginalità in cui il cinema francese relega il conflitto ’14-18, dando piuttosto ampio spazio alle pellicole d’ambientazione coloniale.
Col 1925 si chiude, cinematograficamente, un’epoca. La memoria del conflitto, dopo l’uscita di The Big Parade, vedrà un completo ripensamento del ruolo del reduce. In Francia i sopravvisuti al primo conflitto mondiale vigileranno affinché la memoria della guerra sia raccontata in maniera attendibile, senza nascondere i costi umani e il valore del nemico.
In Italia la fascistizzazione del cinema porterà all’equazione tra reduce e fascista antemarcia, proponendo una rilettura della prima guerra mondiale come culla delle camicie nere.
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- — 2008, La grande guerre au cinéma. De la gloire à la mémoire, Paris: Ramsay.
Filmografia
L’anno è stato desunto, se possibile, dal visto censura definitivo, altrimenti dalle date delle fonti d’epoca.
Film francesi
- 1916
- L’Empreinte de la Patrie regia di Perret Leonce
- Moulin Tragique regia di Lainé Gaston
- 1917
- Mères françaises regia di Mercanton Louis e Hervil René
- 1918 (post armistizio)
- J’accuse regia di Gance Abel
- Vendemiaire regia di Feuillade Louis
- 1920
- Mon village regia di Pinchon Joseph-Porphyre
- 1923
- Koenigsmark regia di Perret Léonce
Italia
- 1915
- Bandiera bianca regia di Vidali Enrico
- Befana di guerra regia di D’Angelo E.
- 1916
- Amore di barbaro regia di Palermi Amleto
- 1918
- Il canto della fede regia di Butera Filippo
- Mariute regia di Bencivenga Eduardo
- 1919
- L’uomo che vide la morte regia di Borgnetto Luigi Romano
- 1920
- Colonnello Chabert regia di Gallone Carmine
- 1921
- Il cielo regia di Habay André
- Passione di popolo regia di Sterni Giuseppe
- 1923
- Il grido dell’aquila regia di Volpe Mario
- 1925
- Fenesta cà lucive regia di Volpe Mario a cui subentra Fizzarotti Armando
- Napoli è sempre Napoli regia di Negri Mario
- Occupati d’Amelia regia di Ruggeri Telemaco
Note
1. Gli elementi di questo saggio provengono dalle ricerche intraprese per la mia tesi di dottorato, Gaudenzi E. 2014, Il cinema italiano e francese sulla prima guerra mondiale. Una filmografia documentata (1914-2013) / Le cinéma italien et français sur la première guerre mondiale. Une filmographie documentée (1914-2013), Università degli studi di Siena in cotutela con Université Paris Ouest Nanterre La Défence.
2. Tra i vari contributi che analizzano la letteratura di guerra rimando a: Sherry 2005, e, per il caso italiano: Isnenghi 2014.
3. I due storici italiani hanno curato per «Bianco & Nero» un’accurata indagine su tutta la produzione cinematografica muta italiana: Martinelli 1991a,1991b, 1992a, 1992b, 1992c, 1992d, 1995a, 1995b, 1995c, 1996a, 1996b; Bernardini 1991.
4. Presso l’archivio della revisione cinematografica sono presenti i registri della censura cinematografica. Questi comprono per intero il periodo del conflitto. Grazie al progetto Italiataglia i dati censori sono disponibile on line sul sito www.italiataglia.it/
5. Jacob, 2011, 19.
6. Sadoul 1967.
7. Abel 1984, 12. L’autore riprende questi dati da «Cinématographie française» del 19 aprile 1919.
8. A Nitti si deve anche un importante provvedimento per i reduci, varato già nel dicembre 1917, col quale veniva istituita l’Opera Nazionale Combattenti per l’assistenza dei reduci e il loro reinserimento nel mercato del lavoro grazie alla colonizzazione e la trasformazione fondiaria dei fondi incolti.
9. Durante il governo Nitti la legge sulla revisione cinematografica definitiva non viene modificata, viene regolamentata la pratica della censura preventiva (già in atto durante la guerra, ma non ancora ufficilizzata). Col governo Mussolini le norme sulla censura verranno inasprite (RD n. 3287 del 24 settembre 1923). Già precedentemente si modifica la sensibilità censoria se alcuni titoli, tra cui J’accuse di Gance, vedono ritirarsi l’autorizzazione alla proiezione ottenuta l’8 novembre 1919. Visto censura (d’ora in poi vc) n. 14504, n. 14505 e n. 14506, con un provvedimento datato 18 aprile 1923.
10. Regista della Itala films e dietro la mdp per gran parte dei film con Bartolomeo Pagano, tra cui Maciste Alpino.
11. Critiche particolarmente positive appaiono su «La vita cinematografica», 35-36 (7-15 novembre 1919), 75-76 e 17-18 (22-30 marzo 1920), 88.
12. MiBac, Archivio della revisione cinematografica, vc n. 14703 del 31 dicembre 1919.
13. Sabbatucci 1974, 48-50.
14. Tra le altre «La vita cinematografica», 35-36 (22-30 settembre 1918), 83.
15. La dichiarazione è riportata su «La Cinémarographie française» del 7 aprile 1923
16. Véray 2008, 77-83. Per questo film rimando anche a Véray 1996, 2000 e Horne 2005.
17. Daniel 1972, 81.
18. Mosse 1990.
19. Presente nella copia della pellicola custodita presso la Cinémathèque française.
20. Si utilizza il termine nella stessa accezione proposta in Audoin-Rouzeau, Becker 1994, 5-8.