Ben pochi secoli sono stati crudeli come il ventesimo: basti solo pensare agli orrori indicibili cagionati dai governi autoritari e totalitari, i quali, in nome di principi infondati quanto alieni
da ogni diritto, hanno calpestato e annichilito la dignità e l’esistenza di un novero immane di persone innocenti.
Qualche tempo fa, Ernest Gombrich, rimeditando il contenuto di un suo fortunato libro, riteneva, non senza amarezza e sdegno, che la “vera nuova epoca” iniziò quando i pensieri dell’uomo si
staccarono dalla brutalità dei tempi precedenti e le idee e gli ideali dell’illuminismo settecentesco divennero così comuni che, da allora in poi, si ritennero una cosa naturale. “Quando lo scrissi
– sostiene Gombrich – mi sembrava davvero impensabile che qualcuno si sarebbe mai potuto abbassare a perseguitare persone di fede diversa, a ottenere confessioni con la tortura o con il ricatto e a
negare i diritti umani. Ma ciò che allora mi sembrava impensabile è accaduto”.
Anche nel Novecento italiano spiccano le due terribili guerre mondiali che ci fanno ritornare nella mente le affilate e artiglianti parole di Céline, il quale così dipingeva la guerra e certi
soldati apparentemente irrefrenabili nella loro foga devastante: “Con elmetti, senza elmetti, con cavalli, senza cavalli, su moto, in auto, urlanti, fischianti, sparacchianti, cospiranti, volanti,
scavanti, defilanti, caracollanti, spetazzanti, schiacciati pancia a terra, per distruggere tutto, tutto quel che respira, più arrabbiati dei cani, in adorazione della loro rabbia”.
In questo quadro educare ai diritti umani vuol dire favorire lo sviluppo armonico della personalità degli individui, conoscere i diritti umani vuol dire innanzitutto rispettare noi stessi, vivere
con dignità e autostima, diffondere nella società un’assoluta considerazione per gli altri. Un modo per difendere i diritti umani è alzarsi e parlare, è alzarsi e combattere perché vengano
rispettati, senza attendere che sia sempre qualche altro a fare qualcosa.
Il diffondersi dei diritti umani, dapprima lento e circoscritto alle élites emergenti di pochi stati, è diventato sempre più veloce e ricopre oggi, almeno formalmente, quasi tutti gli stati della
terra. L’intuizione basilare su cui si fondano è che ogni persona ha in quanto tale una intrinseca ed autonoma dignità che gli conferisce dei diritti e dei doveri nella relazione con gli altri,
perché ogni giorno ognuno di noi tesse e disfa la tela della sua dignità.
La cultura umanistica è quella che più di altre stimola la funzione educativa fra gli uomini: seicento anni fa Coluccio Salutati scriveva che, nel concetto latino di humanitas, si somma tutto ciò
che è degno dell’uomo e lo rende civile, innalzandolo al di sopra della barbarie e alimentando di continuo il terreno dove trovano spazio le domande più profonde che agitano l’animo umano.
L’etica della comprensione costituisce un’esigenza chiave dei nostri tempi che si caratterizzano per una sorta di incomprensione generalizzata: viviamo in un mondo d’incomprensione tra stranieri,
ma anche fra membri di una stessa società, di una stessa famiglia, tra genitori e figli. C’è comprensione umana quando sentiamo e concepiamo gli uomini come soggetti; essa ci rende aperti alle loro
sofferenze e alle loro gioie. E’ a partire dalla comprensione che si può lottare contro l’odio e l’esclusione. Non casualmente – sosteneva Lamennais – il grido degli esclusi, dei poveri arriva sino
a Dio, ma spesso non arriva sino all’orecchio dell’uomo.
I diritti umani vengono qui assunti non come dato assoluto, ma come prodotto storico e ciò significa cercarne le origini e i fondamenti nelle condizioni sociali e culturali della loro affermazione.
Prima di diventare norme giuridiche i diritti si sono manifestati come espressione di bisogni socialmente organizzati, che il diritto ha recepito ma ha anche contribuito a rendere consapevoli. Gli
sviluppi storici dei diritti, sia sul piano istituzionale, sia su quello teorico, sono inestricabilmente legati ai cambiamenti politici, economici, culturali, all’affermazione di nuovi soggetti
sociali. Ancora un altro punto è quello relativo ai diritti delle donne, tant’è che, come è scritto nella Dichiarazione delle Nazioni Unite di Pechino del 1995 “i diritti delle donne sono diritti
umani”. Questa frase condensa un percorso di secoli, che va dall’esclusione delle donne dai diritti dell’uomo alla loro estensione formale, dall’impegno contro la discriminazione all’affermazione
dei diritti specifici delle donne. Diritti in senso morale e diritti in senso giuridico sono dunque concetti distinti ma correlati: in generale un diritto giuridico incorpora un diritto
morale che ne costituisce l’origine e il fondamento. L’aspirazione di chi sostiene un diritto morale è solitamente quella di trasformarlo in un diritto giuridico.
Oggi i diritti umani vengono considerati come un tutt’uno, ma la loro affermazione storica ha compiuto un cammino che viene da molto lontano, partendo dalle richieste di libertà di coloro che
intendevano combattere il dogmatismo delle chiese e l’autoritarismo degli stati.
Dell’antichità va ricordato il ruolo degli Stoici che insistevano sulla comune natura di tutti gli uomini in quanto esseri dotati di ragione ed elaborarono principi finalizzati alla prassi diretta,
fortificando uno stretto rapporto fra filosofia e dottrina politica. Nel suo De clementia Seneca, rivolgendosi all’imperatore, sosteneva che la vera grandezza non risiedeva nell’uso
sfrenato del potere, ma nella cura del bene della comunità basandosi sull’intima convinzione dell’affinità di tutti gli uomini. Importante anche il ruolo degli Esseni che furono i primi a
condannare la schiavitù: i Manoscritti del Mar Morto, redatti in greco, aramaico, ebraico, siriano, arabo racchiudono prodigiosi tesori di etica.
Aristotele considerò il “diritto conforme a natura” come parte del diritto valido per la società politica greca, un diritto figlio degli usi, dei costumi e delle consuetudini.
Le prime manifestazioni per la libertà religiosa, per la libertà di coscienza sono riconducibili alle eresie medievali, formatesi all’interno di gruppi minoritari, fortemente repressi dalla Chiesa
cattolica che non accettava nulla che potesse mettere in discussione il suo potere spirituale e politico e i dogmi del papato. Dobbiamo alla Riforma protestante la capacità di spezzare quel dominio
con l’affermazione di quei valori di libertà individuale che confluiranno poi nei diritti dell’uomo.
La lotta contro l’autoritarismo dei sovrani invece si tradusse nella capacità di conquistare spazi di libertà personale, proprio nella fase in cui si va alla costruzione dello stato moderno con
l’indebolimento delle classi aristocratiche.
In quel contesto taluni documenti molto significativi appartengono alla storia dell’Inghilterra, figli della secolare contrapposizione fra monarchia ed aristocrazia, cattolicesimo e
protestantesimo, chiesa anglicana e movimenti puritani, aristocratici e ceti produttivi sino ad arrivare alla piena affermazione della borghesia.
Nel 1258 proprio qui a Bologna viene redatto l’atto di affrancazione dei servi della gleba del comune di Bologna, detto Liber Paradisus che restituì la libertà a circa seimila persone: testo non casualmente donato in questa circostanza.
Il diritto naturale ha una storia antica, da Aristotele nell’Etica Nicomachea al Tractatus de tirannia di Bartolo da Sassoferrato che ampliò il catalogo delle richieste
civili, criticando l’atteggiamento dei tiranni e rivendicando le libertà di coscienza e d’associazione. Poi all’interno della dottrina teologico-politica cristiana Tommaso d’Aquino distingue fra la
legge divina e la legge naturale, mentre Ugo Grozio, considerato il padre del moderno diritto naturale, nel suo De iure belli ac pacis attribuisce alla ragione dell’uomo la nascita delle
nuove norme. Per Hobbes gli uomini nello stato di natura sono portatori di illimitata libertà, avendo accesso ad ogni diritto, mentre per Locke i diritti appartengono all’uomo per natura, sono di
ogni singolo individuo per il solo fatto di essere uomini ed in quanto naturali non sono cedibili a nessuno e sostanzialmente inalienabili. Dal seicento all’ottocento i rapporti internazionali
erano sostanzialmente fra entità di governo, per dirla con Cassese, “ognuna sovrana su un territorio e sulla popolazione stanziata in quel territorio”.
Nel 1731 Giambattista Vico nel suo Sul diritto naturale delle genti sosteneva che il sistema giuridico internazionale è un diritto utilizzato dai vincitori che così “regolano il cieco
furore delle armi e la sfrenata insolenza delle vittorie”.
Nel Settecento il lessico dei diritti era ormai consolidato e i filosofi illuministi, sotto l’ombrello della ragione, divennero interpreti e divulgatori di un nuovo corso della storia dell’umanità
contro le ingiustizie e le storture dell’Ancien Régime. Sono le teorie su cui si fonda principalmente la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che è espressione di una
visione dell’uomo e della politica, idea di tolleranza compresa testimoniata ad altissimo livello da Voltaire. La Dichiarazione sanciva l’uguaglianza di tutti davanti alla legge, la libertà di
stampa, di pensiero, di religione, il diritto alla proprietà privata, la partecipazione, attraverso rappresentanti scelti, nella creazione delle leggi. Senza dimenticare Rousseau che, fra l’altro,
vede la proprietà privata come un istituto legato alla società e alle leggi civili. Per quanto concerne l’illuminismo italiano è noto il grande rilievo dell’opera di Cesare Beccarla, ma anche di
quella di Pietro Verri Osservazioni sulla tortura con argomenti tutt’ora insuperabili contro la pena di morte e la tortura.
Negli ultimi decenni del Settecento l’Indipendenza americana rappresentò un’ulteriore svolta decisiva. Le carte nordamericane infatti rappresentano le prime manifestazioni storiche del
costituzionalismo moderno con la prima Costituzione che venne emanata nel 1776 in Virginia, che costituirà il modello per le Dichiarazioni successive, seguita a ruota da altri stati sino alla
Costituzione degli Stati Uniti del 1787 che si fondava sul godimento della vita, della libertà, mediante l’acquisto e il possesso della proprietà per perseguire felicità e sicurezza.
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, esaltata da Kant come evidente manifestazione del progresso, segna invece per l’intera nazione francese la rottura con il vecchio
ordine e l’inizio di uno nuovo, determinando un cambiamento radicale nei rapporti fra stato e cittadino, avendo alla base di tutto l’universalismo, il razionalismo e l’individualismo espressi in
modo particolare dalla classe borghese che si andava affermando sempre di più dal punto di vista sociale ed economico.
Inoltre Kant considerava immorale e disonorevole punire il reo con pene disumane perché caino va rispettato nella sua dignità, malgrado egli stesso l’abbia calpestata. Lo stilema kantiano fa venire
in mente le memorabili parole pronunciate da Nelson Mandela nella sua Autobiografia: “l’oppressore deve essere liberato come l’oppresso”. Un uomo che sottrae ad un altro la sua libertà è
prigioniero dell’odio, è serrato dietro le sbarre del pregiudizio e della pochezza mentale. Sia l’oppresso che l’oppressore sono privati della loro umanità”.
Nel corso del diciottesimo secolo cominciano ad apparire anche i diritti delle donne sino ad allora, sinanco nei casi meno infelici, obnubilati per la “naturale” diversità e il portatore di diritti
era per eccellenza l’individuo di sesso maschile. Nel pensiero degli illuministi erano affiorate istanze di uguaglianza dei sessi, come nel caso di Condorcet che intendeva garantire l’accesso alla
vita pubblica, l’istruzione, la parità giuridica in famiglia. Ma fu in particolare nella Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina che la de Gourges, madre del femminismo europeo,
denuncia la falsa universalità della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, auspicando una società senza patriarcato, anticipando le rivendicazioni femminili otto-novecentesche.
Ricordo che quando morì la straordinaria Mary Wollstonecraft, scrittrice anticonformista, critica contro il sistema educativo dell’epoca, il reverendo Polwhele accolse la sua morte per parto, nel
1797, come “un meritato castigo divino”. Desidero non dimenticare altresì l’esemplare storia dedicata da Dacia Maraini alla “Lunga vita di Marianna Ucrìa”, siciliana del settecento, sordomuta per
un terribile trauma infantile, che impara a leggere e scrivere e attraverso la scrittura riesce a rompere il proprio silenzio, non solo quello fisico, ma quello forse più duro a cui le donne per
secoli sono state assoggettate, quello dei sentimenti, quello dell’anima. Successivamente sia Taylor che Mill sostengono che non è sufficiente l’uguaglianza nominale – perché il più forte è
sempre in grado di risollevarsi – ma invocano la scelta libera di maternità, di divorzio, e soprattutto la necessità di non dipendere più materialmente dagli uomini. Nel nostro paese solo nel 1919
le donne italiane ottennero l’emancipazione giuridica, con l’abolizione dell’obbligo dell’autorizzazione maritale sulla gestione dei propri beni. Da allora passi giganteschi sono stati compiuti, ma
ancora nell’attualità permangono profonde discriminazioni nei confronti delle donne, fra i tanti, sia nelle gerarchie della chiesa di Roma che nella più importante comunione latomistica
internazionale.
Nell’Ottocento va sottolineata l’importanza della Dichiarazione dei diritti fondamentali del 1848 che sancisce in Germania i diritti di libertà e di cittadinanza per tutti i tedeschi, così come
merita di essere segnalato lo Statuto albertino, sempre del 1848, che dispone l’uguaglianza di fronte alla legge di tutti i “regnicoli”.
Negli stati europei ottocenteschi la formazione dei diritti è connessa ai bisogni delle masse operaie e contadine ed in particolare per le donne avviene quasi prima il riconoscimento dei diritti
sociali rispetto a quelli politici e civili.
Di gran rilievo, nella prima parte del Novecento, i Quattordici punti di Wilson (1918) e i quattro pilastri delle libertà enunciati dalla Carta atlantica di Roosvelt e Churchill del 1941.
Un dissidio molto forte si registrò poi, dopo la prima guerra mondiale, fra la Germania e il resto della comunità internazionale perché la Germania sosteneva che la sovranità nazionale non
tollerava alcuna ingerenza internazionale sugli affari interni dei singoli paesi. La rottura su questo e altri nodi problematici, farà da sottofondo allo scoppio della guerra.
E’ in questo contesto che s’inserisce con tutto il suo altissimo valore la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, adottata da 48 stati nel 1948 presso l’assemblea generale delle Nazioni
Unite e che approfondiremo nella relazione seguente.
La Dichiarazione universale è un documento storico prodotto sull’onda dell’indignazione per le atrocità commesse nella seconda guerra mondiale e fa parte dei documenti di base delle Nazioni Unite
insieme al suo Statuto steso nel 1945. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo è un codice etico di importanza storica fondamentale: è il primo documento a sancire universalmente i diritti che
spettano all’essere umano.
La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 è senza dubbio uno dei documenti fondamentali nell’affermazione dei diritti umani e costituisce l’orizzonte ideale della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, confluita poi nel 2004 nella Costituzione europea. E dal 1 gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione italiana di cui magistralmente ci ha parlato il presidente
Baldassarre.
“I diritti umani sono davvero universali?”, si chiede acutamente Sabino Cassese. Certo che no, l’universalità è ancora mille miglia lontana, uscendo da pochi anni dal secolo, il novecento,
considerato il secolo dei genocidi per eccellenza. Per la Cina popolare, per esempio, i diritti umani esistono solo nella società e nello stato, essi non preesistono allo stato, ma così come
possono essere dallo stato accordati, per motivi particolari, lo stato può limitarli o sopprimerli.
Nella concezione buddista la libertà consiste nella capacità di armonizzare l’agire dell’individuo con quello del leader che ha i poteri e l’autorità del pater familias, mentre nel sistema
etico-religioso indiano ogni membro della comunità deve avere la capacità di saper accettare senza ribellione la condizione della sua casta.
Nel sistema confuciano, nello scenario giapponese ad esempio, il ruolo fondamentale è quello del capofamiglia al quale va rispetto assoluto e pari pari lo stesso metro è utilizzato nei confronti
delle autorità istituzionali con spazio contenuto per i diritti umani.
Nella tradizione islamica la persona è libera se conduce la propria vita in ottemperanza alla sharia, la legge islamica, senza dire dei rapporti uomo donna posti su piani profondamente
diversi. E oggi proprio a causa del terrorismo islamico che calpesta ogni tipo di diritto umano, l’Occidente trema perché il timore non è più rivolto verso un nemico lontano che può arrivare, verso
i barbari, verso i longobardi, verso i saraceni, verso i turchi, verso un avversario che si può monitorare vigilando un confine, presidiando un torrione o stando di vedetta su una torre costiera,
agendo come il tenente Drogo che difende la fortezza Bastiani dall’arrivo dei tartari, perché forse, come in quel caso, i tartari non arriveranno mai, perché sono già arrivati, sono fra noi e noi
non sappiamo ancora chi sono e quando agiranno. E queste persone si celano fra diversi milioni di uomini: due milioni di cittadini musulmani in Gran Bretagna, uno in Italia, tre in Germania, sei in
Francia, dove a fronte della stragrande maggioranza di famiglie perbene, che ne pagheranno duramente le conseguenze, si occultano centinaia di persone-canaglia: mai come oggi le persone che hanno
la capacità di agire hanno anche la responsabilità di agire.
Gli storici non han da essere professori di morale, ma devono esprimere la condizione umana con una speciale attenzione però alla distinzione fra bene e maleoperando all’interno dell’officina delle
emozioni. Mettere in fila i fatti, le cifre, le date, gli eventi, i dati è importante, ma sono le emozioni che fanno la storia. Ecco perché noi dobbiamo recuperare i particolari, i dettagli,
sinanco le piccole cose vere che restituiscono il senso delle grandi tragedie”. Sono così persuaso che in tal modo si possa incidere anche sull’educazione alla legalità, sull’autoformazione delle
coscienze, contribuendo a farle meno disattente ai mali e alle sventure che abitano e percorrono il tetro incipit del terzo millennio. Un percorso necessario perché, finché i leoni
non avranno i loro storici, le storie di caccia continueranno altrimenti a magnificare il cacciatore.
Ancora nell’attualità, in varie parti del mondo, numerosi fondamentalismi palesi od occulti propongono pacchetti chiusi di sopravvivenza, kit preconfezionati di verità inamovibili, in nome dei
quali negare addirittura dignità a chi appare diverso. Contestualmente, da secoli, esistono realtà come quella latomistica che mettono insieme uomini differenti non solo per censo e per religione,
ma soprattutto per idee e formazione pur tuttavia tutti uniti dal comune desiderio di cercare proprio tale diversità nell’altro come occasione indispensabile di crescita, di confronto, di
superamento delle distanze.
Per quanto concerne l’Italia, la politica culturale della nostra società non marca, di norma, il raggiungimento di mete ideali: è amministrazione, è pratica quotidiana, tutto sembra tendere a
divenir negoziato fra le varie componenti e troppo spesso mancano idealità, tensioni e passioni autentiche.
In un paese che è al punto di una evidente putrefazione morale, la vera casta è la nostra indifferenza.
Di frequente le istituzioni sono state capaci di presidiare il nulla: in ogni paese che si rispetti c’è una cultura che definisce una politica, che determina un’economia, e questo raramente è
accaduto nel nostro paese. Una politica culturale spesso senza dignità, senza intelligenza, senza radici culturali, ridotta a pura tecnica del potere. Si è giunti al punto che molti non rispondono
più di niente, la responsabilità personale, a volte, sembra abolita, i furbi, gli accomodanti, gli opportunisti, i reticenti, gli indecisi rendono la vita più difficile a chi fa il proprio dovere e
la gente avverte sempre di più la necessità di riconoscersi nei simboli e nei valori essenziali della storia degli uomini e delle donne. Tanti italiani si giudicano assai accattivanti ma per certi
versi estranei ai valori e ai ritmi moderni. Questo convincimento tanto diffuso da essere diventato uno stereotipo deve cadere: noi italiani infatti non siamo solo un’armata brancaleone, un popolo
di cialtroni, i guitti del calcio milionario, ma pure persone fatte di fil di ferro che, in nome degli interessi culturali e politici della nazione, a volte si rigenerano, a volte rinascono. Gli
ideali sono un po’ come le stelle, forse irraggiungibili, ma capaci di determinare una rotta.
Così, in una fase politica in cui taluni danno la sensazione di essere lì per preservare la democrazia, non per praticarla, forse si è ancora alla ricerca di una nuova Betsy Ross – la sartina che
cucì la bandiera americana con tredici stelle per il generale Washington – per realizzare la “nostra” bandiera.
Bisogna tentare di ridare respiro a nuove e più forti ed autentiche tensioni morali, ora sostanzialmente addormentate da una sorta di edonismo di massa e rese inoffensive da potenti ammortizzatori
sociali sapientemente progettati. Il senso più alto della riflessione sui diritti umani credo risieda soprattutto nel fatto che non si tratta solo di conservare il passato, ma principalmente di
realizzarne le sue speranze. E l’unico modo di valorizzare il passato è quello di saper essere innovatori, cercando d’immettere il ricordo e le immagini dell’antico entro un circuito di stimoli e
di pensieri rinnovato.
Alle volte l’antica pittura su tela, invecchiando, si fa trasparente. Quando questo accade è possibile vedere le linee originali di certi quadri: sotto un vestito di donna trapelerà un albero, una
barca non naviga più in mare aperto. Ora la pittura è invecchiata e noi volevamo vedere che cosa c’era per noi una volta, che cosa c’è per noi adesso.
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