Roma e Gerusalemme costituisce una magistrale sintesi delle competenze di Martin Goodman, formatosi come storico romano alla scuola di Fergus Millar e poi passato a occuparsi di temi legati più specificamente alla storia del giudaismo in età romana e tardo antica. Se la mole del volume potrà forse scoraggiare il lettore non specializzato – per il quale, pure, il testo è pensato –, la lettura ricompenserà ampiamente chi non si lascerà intimorire dalle oltre 700 pagine che il testo conta nella traduzione italiana.
Lo studio è suddiviso in tre parti, (Un mondo mediterraneo; Romani e Giudei; Conflitto), corredate di tavole e di vario materiale iconografico (riproduzioni fotografiche di monumenti, monete, rappresentazioni musive e scultoree provenienti per la più parte da Roma e dalla Giudea). L’ambizioso obiettivo che Goodman si prefigge è di capire, non solo tramite un’attenta disamina degli eventi storici, ma anche attraverso una puntuale considerazione delle differenze culturali che traspaiono dalle fonti a nostra disposizione (letterarie, ma non solo), se la «battaglia titanica» (così nella seconda di copertina) tra Roma e Gerusalemme fosse inevitabile.
All’inizio dell’era volgare entrambe le città si trovavano, seppur per ragioni diverse, all’apice della loro prosperità: Roma come fulcro di un nascente impero, ricca di monumenti e di genti; Gerusalemme come centro religioso, la cui fama e la cui esistenza gravitavano attorno al tempio, splendidamente ricostruito da Erode. Goodman opera un confronto sistematico tra i mondi che le due città rappresentavano, guidando il lettore in un affascinante viaggio che è, al contempo, culturale e antropologico, e che spazia dalla percezione della propria identità (fosse essa romana e/o giudaica) all’organizzazione della comunità e alla riflessione filosofica, etica e cosmologica, dagli stili di vita alle tipologie di governo e di amministrazione della giustizia (capp. 1-10). Sebbene la liceità e la validità di un tale confronto siano state messe in discussione, e con buoni argomenti ([cfr. Seth Schwartz, Sunt Lacrymae Rerum, «The Jewish Quarterly Review», 99.1 (2009), 56-64], mette conto notare che la conoscenza dei rapporti tra Roma e altre comunità o stati sottoposti è resa ostica dalle limitate testimonianze a nostra disposizione: sarebbe dunque oltremodo difficile tentare un confronto tra la risposta giudaica alla dominazione romana e quella data da altre entità politiche e sociali. Da questo punto di vista, la documentazione relativa al giudaismo brilla per eccezionalità e si lega in maniera tutta particolare alla figura e all’opera di Flavio Giuseppe: si deve soprattutto alle pagine del suo Bellum Judaicum, pubblicato negli anni immediatamente successivi alla distruzione del tempio, se il ricordo della guerra tra romani e giudei resta tutt’oggi tanto vivido e foriero di suggestioni.
I prodromi e le conseguenze del conflitto – scoppiato nel 66 d.C. per le malversazioni e una violenta rappresaglia perpetrate dal governatore Gessio Floro e conclusosi con la presa di Masada nel 73/74 d.C. – sono ampiamente trattati da Goodman negli ultimi quattro capitoli del volume, che ne costituiscono forse anche la sezione più interessante, là dove la storia dei rapporti tra Roma e i giudei si complica per l’entrata in scena del cristianesimo.
Secondo Goodman, l’esacerbarsi dell’attitudine romana verso i giudei non sarebbe frutto di un particolare odio nei confronti di costoro, quanto piuttosto prodotto di necessità tutte interne ai giochi di potere nell’Urbe, che in certo modo imposero prima a Vespasiano e poi a chi gli succedette di sfruttare il successo militare per stabilire più saldamente il proprio regime. Ciò spiegherebbe la decisione, affatto estranea alla politica romana nei confronti dei territori conquistati, di non ricostruire né Gerusalemme né tantomeno il tempio, che della città era cuore e simbolo. Di più: la ben nota dicitura Judaea capta, incisa sulle monete di nuovo conio, e, in misura maggiore, l’imposizione del fiscus iudaicus starebbero a testimoniare una vittoria che veniva intesa – o quanto meno propagandata – non solo come successo riportato contro un’entità politica, la Giudea appunto, ma sul giudaismo stesso. Non sembra, tuttavia, che i giudei ne fossero consapevoli, giacché la speranza – vuoi concreta, vuoi escatologica – della ricostruzione del tempio in un prossimo futuro non si estinse: non è certo un caso che Giuseppe, parlando del santuario distrutto venticinque anni prima, utilizzi il presente e il futuro, e che nelle sue opere non vi sia cenno alla nascita di un nuovo giudaismo. In questo senso sembra deporre anche la Mishna, che a Yohanan ben Zakkai attribuisce innovazioni per lo più relative alla sfera liturgica e contiene ancora puntuali prescrizioni per i sacrifici. Furono molto probabilmente gli avvenimenti verificatisi sotto Traiano e ancor più sotto Adriano a far scemare le speranze dei giudei, allorché Gerusalemme venne trasformata in colonia romana con il nome di Aelia Capitolina e l’intera provincia fu chiamata Syria Palaestina, quasi che il ricordo dei giudei dovesse svanire persino nel nome del territorio che essi avevano abitato.
È su questo sfondo che il cristianesimo crebbe e si diffuse: e, tra le ragioni che più favorirono l’imporsi della nuova religione, va annoverato proprio, secondo Goodman, il sistematico allontanamento dal giudaismo – allontanamento che trovò consapevole espressione nell’apologetica cristiana e che dovette essere accettato, in varia misura, anche dallo stato romano, ove si pensi che i cristiani venivano puniti in quanto colpevoli non già di associazione al giudaismo, bensì di ateismo. La tesi di Goodman è certo affascinante e, come l’autore stesso non manca di rilevare, innovativa (cfr. p. 605): a complicarla restano tuttavia l’esiguità e la complessità delle fonti in nostro possesso per il periodo compreso tra il II e il IV secolo d.C. Allo studioso britannico va il merito, indubbio, di aver reso disponibile, in un unico volume, uno strumento prezioso per lo studio e la conoscenza non solo della cultura romana e di quella giudaica – così come della loro interazione –, ma anche di aver suggerito una lettura degli eventi che non mancherà di stimolare ulteriori e proficue discussioni.