Il volume è una brillante sintesi storiografica su uno dei problemi più controversi della contemporanea storia politica. L'opera rivisita, con nuovi paradigmi concettuali e molteplici sguardi prospettici, la questione complessa e spinosa dell'attività dei "patrioti", dal 1796 e nelle diverse realtà della penisola. I saggi di Ricuperati, Rao, Viola e Diaz, costituiscono la I parte, che si segnala per la rinnovata capacità di osservazione del fenomeno, finalmente affrancato dalle vulgate del passato e dalle letture (interessate e depistanti) di Cuoco, Croce o Gramsci. Considerato nel suo insieme, fatto anche di reticenze morali e teoriche, il giacobinismo italiano è restituito al lettore in una nuova veste, grazie a una chiave interpretativa che opportunamente sposta il cuore della questione, offrendo aggiornati spunti di analisi. Gli autori sembrano infatti convenire in una rilettura 'moderata'. La 'colpa' storica del giacobinismo italiano non fu tanto quella di essere stato violento, rivoluzionario e utopico (e come tale alieno alle masse popolari), quanto piuttosto di non esserlo stato abbastanza. Meglio, come si legge nel testo, «non c'è stata solamente una scelta moderata, classista, da rivoluzione passiva», ma «un pensiero astratto, apolitico, più che antipolitico: cioè non tanto contrario, quanto estraneo alla drammatica concretezza della politica» (Viola, p. 87). Gli approfondimenti su personalità come Giorgio Denina e Vincenzio Russo sembrano confermare questa tesi. Ne risulta una fotografia complessa in cui, ad es., grave risulta essere stato il condizionamento di un'epoca segnata dalla tensione Direttorio/Napoleone, e dove l'esperienza francese ha pesantemente influenzato l'elaborazione teorica quasi sempre accompagnata da disincanto e da remore, a tre anni da Termidoro. Tuttavia nel volume non c'è 'solo' rivisitazione di aspetti teorici, ma ben anche la capacità di affrontare problematiche dal forte contenuto politico. Ecco allora che, recuperando un tema a lungo dimenticato, non si riscontra contraddizione tra universalismo e patriottismo nell'idea di nazione: universalismo e nazione sono «termini che sembrano alla nostra coscienza di post-romantici come dicotomici, [ma che] non lo furono» nella mente dei principali esponenti del giacobinismo. Sarà infatti il Romanticismo a «cancella[re] - non senza conseguenze - il cosmopolitismo settecentesco, obbligando, peraltro, il Novecento a dover reinventare [il significato del termine] di fronte alla minaccia dei totalitarismi» (Ricuperati, p. 23). Nella II parte (saggi di Criscuolo, Battaglini, Assereto, Formica, Del Negro, Mattone, Sanna, Turi e L. Rossi), ci si sofferma su diverse realtà regionali: le repubbliche Cisalpina, Napoletana, Genovese, Romana, e il significativo caso della Sardegna. Anche qui si evince come, da una parte, per i giacobini italiani (come già per gli illuministi) alcuni problemi sociali non abbiano rappresentato il fine principale della loro azione; dall'altra, che la manifesta egemonia nobiliare di alcuni settori dello stesso giacobinismo non abbia comportato di per sé un'adesione meno entusiasta (significativo in tal senso il giacobinismo militare della Cisalpina). Insomma, per non spezzare il fronte indipendentista, l'iniziativa politica non puntò su questioni ardite, e tacque l'istanza egualitaria, intesa come pericoloso richiamo a una 'tradizione' rivoluzionaria sconfitta in Francia (Criscuolo, p. 95). Questo scenario rinnova un panorama storiografico fatto anche di ipostatizzazioni e contrapposizioni strumentalizzate per tattica o per mera prudenza. Merito di questo 'nuovo corso', che rende particolarmente avvincente il fare storia oggi, è l'aver contribuito a meglio delineare la fisionomia dei protagonisti, svelandone quasi una nuova identità: Russo non è pertanto un utopista, ma un intellettuale il cui pensiero ha una chiara pregnanza storica; e anche il piacentino Leonardo Loschi - noto per il suo radicale egualitarismo - risulta, alla fine, mirare non tanto all'allargamento della base sociale, quanto al consolidamento degli istituti democratici. Quello giacobino risulta allora un fenomeno contraddittorio, dove i progetti furono subordinati al corso degli eventi (il caso romano è in questo senso esemplare, mostrandosi il Direttorio titubante ad aprire una nuova pagina sul destino dello Stato della Chiesa; Formica, p. 154). Lo stesso periodo impropriamente definito "Triennio giacobino", a cui è dedicata la III parte del volume, si configura come una fase contraddistinta da irriducibilità e autonomia. «Tale autonomia - come chiariscono i contributi di Guerci, L. Pepe, De Francesco e Santato - bisogna essere pronti ad individuare e riconoscere, pur evitando di costruire un'artificiosa monade storiografica» (Guerci, p. 315). Nel Triennio è visibile una marcata impronta dei Lumi, ma è pure evidente che quell'esperienza si riverbera nella pratica politica dei successivi anni e nel nuovo ordine bonapartista. In questo senso Giovanni Antonio Ranza e Melchiorre Gioia propongono un'elaborazione teorica in cui l'una stagione tende la mano all'altra. Tale rinnovamento degli studi appare infine dalle analisi di storia religiosa, cui è dedicata la IV parte (saggi di Caffiero e Armando). Non soltanto si valorizza l'articolata varietà delle reazioni nelle chiese locali e il dibattito acceso nel mondo cattolico dall'impatto con la Rivoluzione; ma lo stesso arcaismo della proposta politico-culturale dei repubblicani appare in tutta evidenza quando si nota in che misura la nuova religione laica abbia utilizzato forme e linguaggi della tradizione religiosa (Caffiero, p. 386).
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