Levi Roach, Forgery and Memory at the End of the First Millennium. Princeton-Oxford: Princeton University Press, 2021. 326 pp.
In questo libro Levi Roach, Associate Professor dell’università di Exeter (UK), affronta il tema dei falsi (forgeries) nella documentazione europea dei decenni a cavallo del Mille, proponendone una rivalutazione complessiva. Considerati a lungo come testimonianze da scartare perché poco utili alla “verità” della ricerca storica, nel corso del Novecento i falsi sono stati per così dire recuperati dal punto di vista epistemologico, fino a diventare essi stessi una nuova e inedita fonte: se dicono poco o nulla sui contesti “inventati” nei quali intendono proiettarsi, rivelano invece moltissimo dei contesti nei quali sono stati prodotti. Quei contesti, le persone che vi agiscono, le loro aspirazioni e le loro preoccupazioni sono precisamente l’oggetto del volume di Roach. Nello specifico, esso offre al lettore un’analisi critica di cinque differenti dossier documentari, composti perlopiù di falsi, tenendo conto di due importanti linee interpretative. Una guarda alla diplomatica e coincide con una più elastica visione dei documenti pubblici, oggi considerati non più come meri atti sovrani calati dall’alto, bensì come frutto di un dialogo più o meno intenso tra mittenti, destinatari e compositori. Come ben afferma l’autore, “cancelleria” e “destinatario” non sono protagonisti alternativi, ma piuttosto punti estremi di una medesima scala che nella pratica si manifesta in posizioni intermedie tra l’una e l’altro (p. 8). L’altra, invece, guarda alla storia culturale e all’antropologia e coincide con il concetto di “memoria culturale” elaborato da Jan Assmann. Come “memorie culturali”, le falsificazioni del Mille costituirebbero nuclei narrativi complessi e stratificati in grado di plasmare, consolidare e rafforzare le identità e gli elementi costitutivi di determinati gruppi sociali o istituzionali.
Il volume è costituito di un’introduzione, cinque capitoli e una conclusione. Nell’introduzione (Forgery and Memory in an Age of Iron) l’autore si occupa di aspetti metodologici e storiografici. Per quanto riguarda la metodologia, Roach esplicita prima cosa debba intendersi per falso – un documento «che dichiara di essere qualcosa che non è» (p. 13) – e poi quale sia il metodo migliore per individuarlo – la presenza di anacronismi stilistici o formali, come ad esempio una formula diffusa nel X secolo in un documento esplicitamente datato al IX. Riconosce inoltre i suoi debiti interpretativi nei confronti di storici della “memoria” quali Eric Hobswbawm, Terence Ranger e, appunto, i coniugi Jan e Aleida Assmann. Per quanto riguarda la storiografia, l’autore propone un quadro esaustivo di metodi e risultati di coloro che, da Jean Mabillon in poi, hanno affrontato il problema dei falsi fino ai tempi odierni, illustrando preliminarmente alcuni elementi tipologici dei documenti che vengono analizzati nei capitoli successivi: si tratta perlopiù di documenti pubblici che, fra X e XI secolo, sono emanati da sovrani come re, papi e imperatori per concedere a vescovi e monasteri alcuni diritti specifici: l’immunità (immunitas) o indipendenza giudiziaria dalle corti laiche locali; l’esenzione (exemptio) o indipendenza da interferenze di poteri ecclesiastici superiori; la libertà (libertas) o capacità di amministrare i propri beni ed eleggere il proprio rappresentante senza ingerenze esterne.
I cinque capitoli trattano, come anticipato, ciascuno di uno specifico dossier documentario, analizzato come prodotto di un più ampio contesto locale a sua volta inserito in più ampie reti politiche e culturali dell’Europa di epoca ottoniana.
Il primo capitolo (Forgery in the Chancery? Bishop Anno at Worms) è ambientato nella Worms degli anni 960. È lì che il vescovo Annone, collaborando con un anonimo compositore di carte, produsse una lunga serie di falsi diplomi regi e imperiali che, spaziando dal primo VII secolo fino al X e passando per il IX, riconoscevano alla diocesi di Worms numerosi diritti fiscali nonché l’immunità nei confronti di altre autorità nel territorio. Lo fece per porre un freno alla crescita di autorità dei conti locali.
Il secondo capitolo (Forging Episcopal Identity: Pilgrim at Passau) sposta invece lo scenario nella diocesi di Passau degli anni 970, quando uno dei suoi vescovi, Pellegrino, ambizioso di conquistare un primato regionale nella Baviera e di cavalcare l’onda delle nuove espansioni del ducato bavarese verso l’Ungheria, fece elaborare una nutrita serie di privilegi papali datati tra il VI e il X secolo, nonché di diplomi imperiali dei secoli VIII-X. In questi documenti Passau, rappresentata come erede diretta della ben più antica diocesi di Lorch, aveva ben meritato l’ottenimento del pallio (pallium), elemento associato alla dignità arcivescovile e alla conferma di numerose terre che si trovavano, appunto, nei pressi della frontiera ungara.
Il terzo capitolo (Forging Liberty: Abingdon and Aethelred) propone invece una storia inglese, quella del monastero di Abingdon e del suo abate Wulfgar che, nei primi anni 990, respirando una nuova aria di riforme monastiche, dopo aver ottenuto da re Aethelred una concessione di libertas – definita dall’autore «un piacere per gli occhi» dal punto di vista diplomatistico (p. 114) – si lanciò in una campagna di falsificazioni con le quali consolidare una narrazione che proiettava quella libertas in un passato lontano, risalente fino ai re di Mercia di fine VIII secolo. La serie è nota agli studiosi come Orthodoxorum ed è costituita da sei diplomi regi datati agli anni centrali del X secolo, tutti volti a riempire i vuoti narrativi che nel privilegio di Aethelred riguardavano la storia dell’istituzione.
Il quarto capitolo (Forging Exemption: Fleury from Abbo to William) giunge nel monastero francese di Fleury, sulla Loira, a pochi chilometri da Orléans. Poiché con il cambio dinastico della monarchia francese dai Carolingi ai Capetingi, compiuto nel 987, era venuta meno la rete di appoggi regi nei confronti del monastero, l’abate Abbone, temendo nuove ingerenze da parte del vescovo di Orléans, decise di riorientare il cenobio verso le reti papali, riuscendo a ottenere dal pontefice Gregorio V un privilegio di libertà ed esenzione nei confronti di quel vescovo. Similmente alla storia di Abingdon, così anche a Fleury la concessione autentica – o presunta tale, cfr. pp. 175-177 – stimolò nel corso dell’XI secolo un nuovo dossier di falsi privilegi papali che proiettavano i diritti ottenuti nel più ampio arco cronologico dei secoli IX e X.
Il quinto capitolo (True Lies: Leo of Vercelli and the Struggle for Piedemont) scende in Italia, nella Vercelli della fine degli anni 990. Lì il vescovo della città, Leone, partecipava a una nuova competizione che, stimolata da intermittenze e vuoti di potere nella marca di Ivrea, opponeva il vescovo tanto agli antichi rappresentanti della marca, i marchesi, quanto ai sempre più importanti canonici della cattedrale. Sentendo minacciati i propri diritti e le proprie terre, o più probabilmente aspirando a vincere la competizione, Leone non si limitò a produrre falsi: molto vicino alla corte di Ottone III, costui riuscì a partecipare in prima persona alla redazione di diversi diplomi imperiali autentici, tutti volti a conferire al vescovato terre e diritti pubblici nella diocesi a scapito degli altri contendenti. Nella narrazione di quei diplomi, l’ottenimento di terre e diritti venne addirittura fatto risalire all’VIII secolo dei re longobardi, cosa non vera ma tanto più interessante nella misura in cui, Roach ne è ben consapevole (p. 255), sfuma il confine tra verità e menzogna nella sua associazione con l’antitesi autentico-falso. Si tratta infatti di diplomi autentici dai contenuti falsi.
Nella conclusione l’autore porta la riflessione su un piano più generale, facendo anzitutto notare, dati alla mano, come i cinque casi analizzati siano parte di un movimento più ampio: un po’ dovunque, in Europa, il tardo X secolo assiste alla proliferazione di falsificazioni che proiettano diritti – o semplici ambizioni – di vescovi e abati in passati più lontani. Lo scopo di tali falsi, aggiunge, non è sempre quello di vincere contese giudiziarie, perché più spesso si tratta di plasmare e consolidare l’identità dell’istituzione con il fine di meglio competere con gli attori rivali nella regione di riferimento. Da qui arriva a una seconda, importante considerazione: se ci spogliamo dei giudizi morali a lungo prevalenti nella storiografia, l’attitudine alla falsificazione diviene per lo storico la spia di una nuova sensibilità nei confronti del passato. Ed ecco allora che la fine del primo millennio, pullulante di falsi, si configura come un antecedente diretto della riscoperta del “passato” dei secoli XV-XVI, quella umanistico-rinascimentale. Tra i due periodi, in effetti, c’è una linea di continuità che l’autore vede benissimo intrecciata anche con XII secolo e che altri storici, penso a Ronald Witt, hanno già collegato al XIII e al XIV. Ma ci sono naturalmente anche differenze, due in particolare: il passato al quale si guarda nel libro di Roach è quello dei momenti “fondativi” per le istituzioni ecclesiastiche, e cioè dei secoli VII, VIII e IX, mentre gli umanisti guarderanno all’antichità precristiana; così i protagonisti di questa nuova sensibilità sono attorno al 1000 vescovi e abati, mentre gli umanisti saranno anche e soprattutto giuristi laici. Ciò detto, l’importanza storiografica del libro risiede probabilmente in questa rivalutazione complessiva del X secolo. «Notoriamente bollato come un’epoca di ferro, di piombo e oscura (...) questo periodo appare ora come un epoca entusiasmante e dinamica» (pp. 15-16).