Maurizio Isabella and Konstantina Zanou (eds.), “Mediterranean Diasporas. Politics and Ideas in the Long 19th Century”, London, New Delhi, New York, Sydney, Bloomsbury, 2016, 217 pp.
È dedicato alla memoria di Christopher Bayly, scomparso lo scorso anno, questo bel libro che raccoglie una serie di saggi sul tema del formarsi del pensiero politico nel lungo Ottocento in situazioni di diaspora attorno al Mediterraneo. La lezione di Bayly sottende l’orientamento di fondo della ricerca, come è evidente in particolare dagli interventi dei due curatori, Maurizio Isabella, già autore di importanti contributi sul tema dell’esilio nel Risorgimento, e Konstantina Zanou, che ha appena terminato uno studio su Transnational Patriotism in the Mediterranean, 1800-1830: Stammering the Nation, in uscita per Oxford University Press. Gli stessi curatori, e quasi tutti gli autori (Puto e Simal, Kirchner Reill e Paquette, Kechriotis e Gallant, Arsan, Bron e Coller) hanno fatto esperienza se non di diaspore almeno di un mondo intellettuale e accademico aperto e transnazionale dentro l’Europa e fuori di essa, in consolidati o più recenti centri di ricerca e di eccellenza che negli ultimi decenni hanno incrementato i contatti e i dialoghi in modo marcato. Bayly a parte, senza tali esperienze e tale capacità di parlarsi a partire da vari paesi, un volume come questo non avrebbe potuto essere pensato.
L’introduzione dei due curatori, solida, assai ben costruita e caratterizzata da una scrittura brillante e intensa, testimonia di una notevole capacità di riflessione metodologica e di sintesi su un quadro assai ampio in termini di spazi geografici e di ambiti disciplinari, ed attesta il sapiente controllo di una letteratura davvero molto ampia che va ben oltre il Mediterraneo. Il Mediterraneo studiato da Braudel e da lui proposto come elemento unificante – notano Isabella e Zanou – ha ormai lasciato il campo a una frammentata topografia di microregioni e all’intersecarsi fitto di linee che ne segnano le connessioni da nord a sud, da oriente a occidente. E’ un mare ‘pluralizzato’, che appare ormai soprattutto come uno spazio malleabile di incontri e di contatti: non per caso vengono chiamate in causa le ‘contact zones ‘ di Pratt. Studi recenti hanno messo in luce come il senso stesso della frontiera nel periodo considerato fosse assai meno rigido di quello a noi consueto, mentre i confini mutavano e la presenza residuale di principati semi-indipendenti, città stato, e soprattutto il peso forte di molteplici periferie (si pensi soltanto a quelle – di per sé assai variegate – dell’Impero Ottomano) incoraggiavano il persistere di appartenenze molteplici tipiche dell’età moderna. I soggetti qui studiati – essenzialmente uomini appartenenti a élites intellettuali o politiche – sono allora spesso transnazionali, transimperiali, diasporici. E le diaspore richiamate nel titolo non sono espressioni di una patria abbandonata, ma situazioni di per sé capaci di creare luoghi compositi a geometria variabile nei quali prendono forma esperienze e consapevolezze (più che identità) individuali e collettive. E questi personaggi tornano eventualmente a guardare la nazione proprio da questi spazi che nazionali non sono. Quasi paradossalmente, sostengono i curatori, è lo spazio mobile della diaspora a produrre nuove nozioni di nazioni o di imperi, ma soprattutto nuove proposte politiche e costituzionali, o di riforma, secondo le linee di liberalismi di volta in volta nazionali o imperiali.
Il Mediterraneo è al centro del titolo, e viene più volte consapevolmente ed esplicitamente posto al cuore del discorso. Eppure le piste di queste storia di vite e di esili conducono anche lontano da questo mare; e portano verso le capitali europee, e soprattutto verso una Gran Bretagna pur attenta a occupare un ruolo chiave nel Mediterraneo (il ‘British Lake richiamato dal saggio di Isabella), e verso la Parigi ineliminabile da queste rotte, vera capitale del 19 secolo dove i giovani liberali ottomani come Zita Bey incontrano i leaders polacchi o Valacchi, e idealmente queste linee si proiettano verso il cuore della Mitteleuopa delle riforme austriache o del Reich (p. 156).
Agli studiosi di Risorgimento non sono ignote alcune delle figure qui richiamate – Pecchio, Mustoxidi, Tommaseo, Pepe – né loro riflessioni sull’esperimento della costituzione di Cadice e sui suoi esiti legati allo scarso sviluppo della società spagnola. La novità sta piuttosto nel proiettare queste riflessioni al di fuori di un ambito nazionale.
Meno noti sono personaggi come Grassi, che ammira l’Impero ottomano per la sua tolleranza religiosa e per la mancanza di una aristocrazia, o Giorgio Libri, musulmano egli stesso, e critico del ruolo civilizzatore dei paesi europei. E ancor meno noti sono gli squarci su realtà composite come quella del liberalismo ottomano, ma soprattutto albanese, o dell’illuminismo ortodosso. Spostando l’osservatorio dalla nazione come punto di partenza e telos al luogo diasporico insomma è possibile tra l’altro rileggere meglio anche lo stesso liberalismo imperiale britannico dai margini, a luce radente.
Gli individui oggetto dei singoli contributi sono pochi, e sarà importante arricchire di altre figure l’analisi di questi percorsi e di queste reti. Magari dando consapevolmente spazio, come suggerisce Osterhammel, anche alla dimensione verticale e gerarchica dei networks.