La memoria pubblica è l’insieme delle immagini del passato che circolano nella sfera pubblica. Non si tratta solo dei discorsi prodotti dalle istituzioni, ma anche di quelli attraverso cui sono i cittadini a interagire. Comprende libri, film, programmi televisivi e via dicendo: testi accessibili pubblicamente che vengono ripresi, commentati, formano nel complesso i quadri entro cui il passato viene compreso. Questa memoria svolge diverse funzioni: la più importante è quella di definire mano a mano la rilevanza di certi aspetti del passato o certi altri.
Per quello che riguarda il passato coloniale, la memoria pubblica in Italia è stata a lungo assente: come se questo passato fosse irrilevante.
È vero che, rispetto all’esperienza di altri imperi, quella italiana è stata più breve e circoscritta. Ma è stata ampia, e non ininfluente. Rispetto ad altri paesi, la differenza è soprattutto che l’Italia ha perso i suoi possedimenti al termine della Seconda guerra mondiale: non ha attraversato così i conflitti ed i dibattiti che hanno accompagnato altrove le lotte per l’indipendenza dei colonizzati.
La presenza coloniale italiana in Africa ha avuto inizio negli anni ottanta del XIX e si è protratta fino agli anni quaranta del XX secolo. Nel periodo di massima espansione comprendeva i territori oggi corrispondenti a Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia. Si costruirono strade e altre infrastrutture moderne. Ma, nonostante il mito della “missione civilizzatrice” che legittimava l’aggressione, la civiltà che portammo finisce qui. I comportamenti furono predatori; ruberie e corruzione erano consuete; la giustizia era esercitata a dir poco sommariamente. Nella guerra di conquista dell’Etiopia gli italiani usarono contro gli avversari l’iprite, bandita dalla Convenzione di Ginevra; durante l’occupazione dettero ampie prove di brutalità. In Libia repressero la resistenza ferocemente. Quelli cui si mise capo furono regimi di apartheid. Fu in questi paesi che si misero a punto i presupposti delle leggi razziali fasciste.
Dal dopoguerra fino ad anni recentissimi, tutto ciò è sprofondato nell’oblio (o, come hanno detto alcuni, in una sorta di “inconscio” nazionale). Non che non ci sia stata del tutto una memoria dell'Italia coloniale. Esiste ed ha una storia articolabile in più fasi. Vi è stata una certa produzione memorialistica di reduci; certe associazioni e certe gerarchie militari hanno coltivato un ricordo nostalgico dell’impero coloniale italiano. Si tratta però di una produzione di discorsi rimasta a lungo confinata in cerchie ristrette. Il ruolo più importante, nel tentare di far vivere il ricordo del colonialismo e di denunciarne i misfatti, è stato svolto dagli storici, specialmente a partire dagli anni ottanta. Ma ai loro risultati la maggioranza degli italiani è rimasta estranea; la sfera pubblica è stata toccata solo marginalmente.
Della assenza di una memoria pubblica del passato coloniale il cinema è testimone. Negli anni del fascismo i territori delle colonie comparivano nei film (di norma si trattava di avventure i cui eroici protagonisti erano i bianchi: i locali erano confinati al rango di comparse). A partire dalla fine della seconda guerra mondiale questi territori scompaiono. L’unico film sul colonialismo che nel dopoguerra ha affrontato la memoria coloniale è Tempo di uccidere di Giuliano Montaldo, tratto dall’omonimo romanzo di Ennio Flaiano e realizzato nel 1989. Certo, va citato La battaglia di Algeri di Pontecorvo (del ‘66): ma parlava del colonialismo dei francesi. Quando è stata la cinematografia altrui a raccontare i crimini del colonialismo italiano, il film è stato nascosto: The Lion of the Desert, un film internazionale del 1979 a grosso budget, con attori famosi come Anthony Quinn, Rod Steiger e Irene Papas, che narrava le vicende della resistenza libica e del suo anziano leader, Omar al‑Mukhtar, impiccato dagli italiani, è stato visto in tutto il mondo, ma in Italia non ha girato nei cinematografi.
La censura ha riguardato anche i documentari. Fascist Legacy, un documentario della BBC del 1989 sui crimini fascisti, provocò proteste a Londra da parte dell’ambasciata italiana; la R.A.I. ne ha acquistato i diritti per impedire di trasmetterlo. In altri casi la censura non conta, ma conta il disinteresse. Adwa: An African Victory, un documentario del 1998 di Hailé Gerima sulla battaglia di Adua vista dal punto di vista degli africani, in Italia ha ricevuto premi ma non ha circolato nelle sale ed è stato trasmesso in TV solo a tarda notte. Teza, dello stesso autore, un film del 2008 che rivisita la storia dell’Etiopia, è stato bensì premiato a Venezia nel 2009, ma le recensioni che in Italia se ne sono occupate, pur elogiative, quasi non hanno segnalato i punti del film in cui sono presenti riferimenti all’occupazione italiana.
Negli ultimi anni sono apparsi El Alamein. La linea del fuoco di Enzo Monteleone (2002) e Le rose del deserto di Mario Monicelli (2006): entrambi mettono in scena storie di soldati italiani in Africa settentrionale durante la seconda guerra mondiale; è stato osservato che questi film non riescono a de‑colonizzare la rappresentazione del passato coloniale italiano: ma, a dire il vero, il tema del colonialismo (che cosa ci fanno gli italiani in Africa?) è semplicemente assente.
I recenti processi di immigrazione hanno sollecitato una ricca filmografia. Sono film prodotti da registi spesso tesi a contrastare il crescente razzismo che permea la società italiana. Ma, di nuovo, quasi nessuno avverte il bisogno di parlare del passato coloniale. D’altra parte, è vero che gli immigrati provengono da molti paesi, e solo in piccola parte da ex‑colonie dell’Italia. Anche Vittorio De Seta nel suo Lettere dal Sahara, del 2004, uno dei pochi che sente il bisogno di girare parte della storia in Africa, non ha modo di tematizzare il colonialismo italiano, poiché segue la vicenda di un senegalese. E non è un caso che l’unico film a toccare il punto sia Come un uomo sulla terra di Segre, Yimer e Biadene, del 2008, dove la storia è quella di profughi etiopi (in ogni caso, il film circola solo in sale d’essai, nelle università e su YouTube).
Non che in altri paesi europei la situazione sia diversissima. In Francia i film di Rachid Bouchareb (Indigènes del 2006 e Hors la loi del 2010), che documentano le disillusioni a ridosso degli anni in cui soldati algerini combatterono nell’esercito francese contro il nazi‑fascismo ed il mancato riconoscimento davanti a cui vennero successivamente a trovarsi, hanno suscitato reazioni molto ostili. Persino in Gran Bretagna, dove il tema delle migrazioni dalle ex‑colonie è trattato estesamente, un’autocritica esplicita del passato coloniale mi pare sia assente. A meno di ricordare Passaggio in India di David Lean, del 1984, ispirato al romanzo di Forster, la cui autorevolezza letteraria consente di osservare come, nelle colonie, gli inglesi abbiano disatteso regole e principi a cui in patria dichiaravano di ispirarsi.
In Italia la narrativa scritta non ha offerto suggestioni analoghe. A proposito dei pochi romanzi che hanno trattato il passato coloniale italiano, si è parlato di una letteratura del “tentato rimorso”. In questa categoria rientra lo stesso Tempo di uccidere, scritto nel 1947. Flaiano si basava sulla propria esperienza durante la guerra di occupazione d’Etiopia da parte dell’Italia del ’35‑‘36. Nel romanzo, un ufficiale italiano incontra a una fonte una giovane indigena, la stupra e, seppure inintenzionalmente, la uccide. Cerca poi di far perdere le proprie tracce. Ma in verità non è perseguito da nessuno, se non - oscuramente - da qualche parte della sua coscienza.
La situazione sta cambiando negli ultimissimi anni. Uno dei più affascinanti tratti della letteratura italiana di oggi è la presenza di scrittori che provengono da altrove e innervano la lingua ospite di nuove prospettive. Si parla in proposito di “letteratura migrante”, anche se l’espressione è fuorviante: si tratta di autori che vivono in Italia da decenni, spesso che ci sono nati, a volte figli o figlie di matrimoni misti. Fra questi, ve ne sono alcuni la cui origine rimanda a paesi che l’Italia, per un certo periodo, ha occupato. E’ il caso delle italiane di origine somala Cristina Ali Farah e Igiaba Scego, o dell’italiana di origine etiope Gabriella Ghermandi (i cui romanzi si affiancano alle traduzioni dall’inglese di altri autori provenienti da ex‑colonie italiane come Nuruddin Farah o Dinaw Mengestu). In questi romanzi le storie di somali o etiopi, di migranti, di italiani nelle colonie e di italiani oggi si sommano, si intrecciano: la storia è innegabilmente una storia in comune. La memoria, si suggerisce, dovrebbe esserlo altrettanto.
Circolando nella sfera pubblica, questi testi invitano a costruire una memoria pubblica in cui il passato coloniale sia tematizzato. Da parte degli italiani, ciò potrebbe comportare lo sviluppo di una certa dose di vergogna (è un italiano in un libro di Ghermandi a provarla, spiegando così perché non torna ad Asmara, nonostante l’abbia amata); potrebbe suscitare un certo desiderio di conoscenza dell’altro; forse avvierebbe qualcosa di simile ad un’elaborazione autocritica. Dopo tutto, i razzismi contemporanei non sono lontani da quelli che legittimarono l’aggressione coloniale (in un certo senso, anzi, ne sono figli, poiché ciò che non si elabora permane in forma latente): rivisitare criticamente i presupposti culturali di quell’aggressione potrebbe essere utile a contrastarli.
Nella memoria pubblica odierna emergono però anche altre sollecitazioni. Nel 2004 a Roma, ad esempio, fu allestita una mostra fotografica dal titolo “L’Epopea degli Ascari Eritrei”: come hanno notato alcuni storici, parlava dell’esperienza coloniale in modi non lontani da quelli della propaganda dell’Impero. Si magnificava la fedeltà degli Ascari all’Italia; nulla si diceva dei motivi per cui si arruolavano, della disciplina a cui erano asserviti, delle discriminazioni di cui erano fatti oggetto.
Si tratta di un esempio di quella che potrebbe essere chiamata una ripresa del passato coloniale in chiave auto‑assolutoria. Questo passato è infine messo a tema, ma in questa versione ciò avviene tutt’altro che criticamente. Non si tratta solo della riaffermazione mito degli italiani “brava gente” (riguardo al colonialismo, ampiamente smentito dalla storia): è una polarizzazione potenziale fra due modi di rivisitare il passato nazionale.