Premessa
Novembre 2016: l’esercito ugandese, l’UPDF (Ugandan People Defence Force), dà l’assalto al palazzo reale di Kasese, una villa con un ampio giardino recintato dove il re del Rwenzururu, Charles Wesley Mumbere, si è asserragliato con le sue guardie reali. L’attacco è brutale, oltre 150 persone vengono uccise e il re viene arrestato e rinchiuso nella prigione di Lusira, nella capitale Kampala, con l’accusa di terrorismo.
Questo evento non è che l’ultimo di una lunga serie di scontri e violenze che, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, hanno coinvolto la regione del Rwenzori nell’Uganda occidentale. Si tratta di un’area montagnosa [1], che segna il confine fra Uganda e Repubblica Democratica del Congo (ex-Zaire). In particolare, mi riferirò qui ai distretti di Kasese e Bundibugyo, dove vivono diversi gruppi etnici [Pennacini 2008]. Il gruppo maggioritario sono i Bakonzo, perlopiù agricoltori, che popolano entrambi i versanti del massiccio montuoso, quello ugandese e quello congolese [2]. I Bakonzo sono insediati soprattutto nel distretto di Kasese, mentre più a nord, nel distretto di Bundibugyo, prevalgono i Bamba. Oltre a queste due popolazioni, nella regione vivono altri gruppi minoritari, fra cui i Basongora, tradizionalmente allevatori, e i Banyabindi. Si aggiungono, infine, numerosi soggetti provenienti da altre zone dell’Uganda, migrati nella regione in cerca di lavoro o per altre ragioni.
Negli ultimi cinquanta anni, il massiccio del Rwenzori è stato il terreno d’azione di numerosi gruppi ribelli. In parte essi hanno dato voce alle istanze autonomiste locali volte alla creazione di un regno indipendente, il regno del Rwenzururu (Obusinga wa Rwenzururu). Al contempo, però, il conflitto nella regione è stato alimentato dalla rivalità fra Uganda, Sudan e Repubblica Democratica del Congo (ex-Zaire). Come vedremo, la competizione fra questi tre Stati si è concretizzata nel sostegno reciproco ai diversi movimenti ribelli: il Sudan ha sostenuto le ribellioni nel nord e nell’ovest dell’Uganda, il Congo si è intromesso nel conflitto nel versante ugandese del Rwenzori, mentre l’Uganda ha sostenuto l’indipendenza del Sud Sudan e ha avuto un ruolo centrale nelle due guerre congolesi (1996, 1998). L’area del Rwenzori è dunque al centro di una serie di tensioni che si sviluppano a più livelli: locale, nazionale e regionale.
Dopo un conflitto discontinuo, durato comunque oltre cinquant’anni, nel 2009 il governo ugandese ha riconosciuto il regno del Rwenzururu nel tentativo di placare le rivendicazioni locali e al contempo di recuperare consenso in vista delle elezioni tenutesi nel 2011. Tuttavia, questo nuovo corso ha finito con l’esasperare le tensioni identitarie fra i diversi gruppi etnici della regione, causando una serie di scontri sanguinosi in occasione delle due ultime tornate elettorali (2011, 2016). Inoltre, il re (Omusinga) e alcuni ministri del neo-regno del Rwenzururu hanno segretamente portato avanti un’agenda indipendentista, mobilitando i giovani e inquadrandoli in formazioni paramilitari che nel 2014 e nel 2016 hanno attaccato alcuni posti di polizia e un accampamento dell’esercito. La reazione ultima del governo centrale è quella che ho riportato sopra: l’irruzione dell’UPDF nel palazzo reale di Kasese ha provocato la morte di numerose guardie reali e probabilmente anche di numerosi civili; dal canto suo il re Mumbere, dopo un periodo trascorso in prigione, si trova ora a Kampala agli arresti domiciliari in attesa di processo. Su di lui pendono l’accusa di terrorismo e altri capi d’imputazione.
Il quadro abbozzato sopra, che intendo ora sviluppare, rende l’idea della complessità della storia politica della regione in questione. L’obiettivo di questo articolo è dunque quello di ripercorrere questa storia per gettare luce su alcune fondamentali dinamiche politiche ugandesi e, più in generale, dell’Africa subsahariana. Innanzitutto, il caso del Rwenzori può fornire un contributo all’analisi delle traiettorie storiche dello Stato africano là dove in molti contesti, a partire dagli anni Novanta, si è assistito alla riemersione di organizzazioni politiche “tradizionali”, fra cui per l’appunto i regni [Perrot et al. 2003]. Si tratta perlopiù di processi di re-invenzione della tradizione, che hanno coinvolto numerosi Paesi africani. Gli Stati centrali hanno qui giocato un ruolo ambiguo: spesso hanno favorito la creazione di nuovi regni per affievolire le tensioni e recuperare consenso in regioni conflittuali; al contempo le difficoltà nella gestione di questi delicati processi hanno talvolta portato a una loro reazione violenta di fronte all’inevitabile perdita di sovranità. Nel caso ugandese, questo processo si è compiuto parallelamente all’apertura al multipartitismo (2005), cosa che ha permesso ai nuovi regni di giocare un ruolo centrale nella competizione politica elettorale. Altro punto di grande interesse, strettamente connesso al precedente, è il rapporto che intercorre fra l’istituzione dei regni e l’etnicizzazione della politica: non è un caso, infatti, che nei distretti del Rwenzori le elezioni abbiano puntualmente scatenato scontri fra formazioni paramilitari (vigilantes, milizie, guardie reali, ecc.) composte da giovani reclutati su base etnica. Come vedremo, l’esasperazione delle identità etniche è anche connessa alla forte competizione per la terra che caratterizza la regione. Infine, nel corso dell’articolo verrà considerato il rapporto fra conflitti locali e crisi regionale, dal momento che la regione del Rwenzori, in particolare il versante occidentale, è al cuore della guerra che attanaglia la Repubblica Democratica del Congo da oltre due decenni.
Alle radici del conflitto: la nascita del Rwenzururu Movement
Il conflitto nella regione esplose per la prima volta nel periodo coloniale a causa soprattutto del sistema di indirect rule britannico. Nel periodo pre-coloniale l’area che oggi chiamiamo Uganda presentava una varietà di sistemi politici fra cui spiccavano quattro regni principali: Buganda, Ankole, Bunyoro e Toro. In generale, la colonizzazione si basò sulla cooptazione del regno del Buganda, il più potente all’epoca, e di conseguenza all’élite baganda vennero concessi posti nell’amministrazione coloniale. Dagli anni Trenta del XIX secolo, la regione del Rwenzori era sotto il controllo del regno Toro che nel 1876, alla viglia della penetrazione britannica, venne conquistato dal regno del Bunyoro. Quest’ultimo, però, si opponeva alla colonizzazione e per questa regione l’amministrazione britannica sostenne la restaurazione del regno Toro (1891), che riprese il controllo delle aree abitate dai Bakonzo e dai Bamba. In sostanza, la strategia britannica finì col penalizzare pesantemente queste due popolazioni che dovettero subire l’egemonia dei Batoro i quali, a loro volta, beneficiavano del sostegno del governo centrale.
In particolare i Bakonzo, il gruppo maggioritario del Rwenzori, avevano un ruolo del tutto marginale e subalterno nel regno Toro: erano considerati inferiori, venivano sottoposti al lavoro forzato e dovevano pagare tributi ai capi batoro che gestivano le loro terre. Inoltre, l’amministrazione coloniale favorì nettamente il regno Toro, che aveva la sua capitale nell’attuale Fort Portal: in questa cittadina vennero costruite scuole e un ospedale, mentre l’area di Kasese, sebbene fosse un importante centro minerario, venne trascurata. Questa situazione generò inevitabilmente un forte risentimento fra i Bakonzo che già nel 1919 insorsero contro l’egemonia dei Batoro, andando incontro alla brutale repressione dell’esercito coloniale [Stacey 2003, 44-50].
Le rivendicazioni autonomiste ripresero vigore negli anni Cinquanta. Il clima politico di quegli anni incoraggiava le rivendicazioni dei gruppi subalterni che, alla viglia dell’indipendenza (1962), intravedevano l’opportunità di rinegoziare la propria posizione. I leader bakonzo e bamba si associarono e iniziarono a reclamare una partecipazione più forte ed equa nel governo del regno Toro. Quest’ultimo, però, non fece alcuna concessione e il 13 marzo 1962 i rappresentanti dei Bakonzo e dei Bamba abbandonarono definitivamente il palazzo reale di Fort Portal a seguito del rifiuto della loro richiesta di essere riconosciuti come gruppi etnici autonomi nella Costituzione del regno. Questa data sancisce la nascita ufficiale del Rwenzururu Movement. Alcuni leader della prima ora, fra cui Isaya Mukirine, furono prontamente arrestati. Uscito di galera l’anno successivo, Isaya fece immediatamente ritorno nelle sue montagne dove, il 30 giugno del 1963, si autoproclamò re del Rwenzururu [Syahuka-Muhindo, Titeca 2016, 8]. Fu una svolta radicale: il movimento non si limitava più a richiedere un maggior peso nel governo del regno Toro, ma addirittura veniva proclamata la nascita di un nuovo regno, che ambiva a emanciparsi dallo stesso governo centrale e che in prospettiva avrebbe dovuto includere anche i Banande del Congo.
Il Rwenzururu Movement non era un movimento propriamente etnico, poiché in esso erano convogliati esponenti dei diversi gruppi soggetti all’egemonia dei Batoro, quantunque la maggior parte fosse di etnia bakonzo e, in misura minore, bamba. Gli anni che seguirono furono caratterizzati da scontri violenti che portarono all’epurazione dei Batoro dall’area di Kasese e a loro volta i Bakonzo, che vivevano nella zona di Fort Portal, furono costretti ad abbandonare le proprie terre. Nel 1966 Isaya morì e suo figlio, Charles Mumbere, all’epoca ancora adolescente, fu proclamato re. Il movimento ribelle, nonostante l’opposizione armata dell’esercito nazionale ugandese, riuscì a mantenere il controllo di una parte importante del massiccio del Rwenzori, specialmente le aree di montagna meno accessibili, e a organizzare un sistema di tassazione che gli permise di creare alcune scuole e altri servizi per la popolazione locale.
Le ostilità cessarono solo nel 1982 dopoché, per la seconda volta, nel 1980 Milton Obote era divenuto presidente dell’Uganda. Dopo una fase di negoziazione, si giunse a un accordo: alcuni leader del Rwenzururu furono cooptati nell’amministrazione del distretto di Kasese; a sua volta Charles Mumbere rinunciò al titolo di re e partì per un periodo di formazione negli USA grazie a un finanziamento del governo ugandese.
L’ascesa al potere di Museveni e la ripresa del conflitto
Nel 1986 Yoweri Museveni, dopo anni di guerriglia alla guida della National Resistance Army (NRA) [Ngoga 1998], riuscì a conquistare il potere e a imporre un regime a partito unico dominato dal National Resistance Movement (NRM). Negli anni precedenti alcuni ex-combattenti del Rwenzururu si erano arruolati nel movimento armato di Museveni [Jourdan 2008], ma una volta al potere l’NRM non accolse le loro istanze autonomiste. Di conseguenza alcuni di loro si riorganizzarono militarmente nel versante congolese del Rwenzori. Le ostilità ripresero nel 1988 quando Amon Bazira, un ex-ministro del governo Obote originario del distretto di Kasese e finito agli arresti dopo l’ascesa al potere di Museveni, uscì di prigione. Prontamente si recò in Congo, nelle aeree a ridosso del confine ugandese, dove fondò un nuovo movimento armato, la National Army for the Liberation of Uganda (NALU), a cui si unirono i veterani del Rwenzururu presenti nella regione. In questa fase il conflitto assunse una nuova connotazione rispetto al passato. Bazira, infatti, ricevette il sostegno del Congo (all’epoca Zaire) e del Kenya, i cui regimi erano all’epoca ostili al nuovo governo ugandese di Museveni. I NALU erano perlopiù mercenari reclutati nei villaggi poveri del Rwenzori e il loro scarso orientamento ideologico precludeva al movimento il consenso popolare di cui aveva beneficiato la ribellione precedente. La reazione di Kampala fu piuttosto efficace e nel 1992 Bazira venne ucciso a Nairobi da alcuni agenti ugandesi [Prunier 2004]. Tuttavia il conflitto non cessò.
Nella metà degli anni Novanta un nuovo movimento di ribellione, l’Allied Defence Forces (ADF), si installò nelle regioni congolesi del massiccio del Rwenzori. Il leader di questa nuova forza era Jamir Mukulu, un esponete del movimento islamico Tabligh, una corrente radicale di origine indiana [Simba Kayunga 1993], che aveva fatto proseliti fra alcune fazioni della comunità musulmana ugandese. Per quanto poco chiaro, l’obiettivo politico sbandierato dal movimento era di cacciare Museveni e fondare uno Stato islamico. La fondazione dell’ADF venne sostenuta dal Sudan, che sospettava il governo di Museveni di supportare la Sudan People Liberation Army, il movimento armato che nel 2011 avrebbe portato all’indipendenza del Sud Sudan. L’obiettivo era quello di riunire i combattenti NALU e i veterani del Rwenzururu Movement per creare un movimento armato maggiormente radicato fra la popolazione rurale [Prunier 2004].
Per anni l’ADF seminò il terrore nella regione del Rwenzori: attacchi indiscriminati, rapimenti, massacri e saccheggi obbligarono centinaia di migliaia di persone a lasciare le proprie terre per trovare rifugio nei campi profughi. Il governo ugandese accusò i realisti bakonzo di sostenere l’ADF e lo stesso Charles Mumbere, all’epoca ancora negli Stati Uniti, venne sospettato di istigare la ribellione [3]. Dopo numerosi insuccessi, l’UPDF, sotto il comando del generale James Kazini, riuscì ad arginare l’ADF che venne definitivamente sconfitta soltanto nel 2008. Il movimento ribelle si ritirò in Congo, dove è ancora oggi attivo ed è ritenuto responsabile di numerosi massacri compiuti nell’arera di Beni e Butembo nel Nord Kivu [Titeca, Vlassenroot 2012] [4].
La competizione per la terra
L’alta densità demografica nella regione del Rwenzori e l’economia prevalentemente rurale hanno generato, nel tempo, una forte competizione per la terra che ha finito con l’esasperare le divisioni etniche, portando negli ultimi anni a scontri cruenti. In particolare, nel 2007 un gruppo di pastori basongora, che nei decenni precedenti si era installato nel parco congolese del Virunga [5], venne espulso dal governo di Kinshasa e dovette rientrare in Uganda. Non avendo terre a disposizione, i pastori basongora si trasferirono con i loro armenti nel Queen Elizabeth park, non lontano da Kasese, dove inevitabilmente iniziarono a sterminare la fauna locale. Il governo di Kampala decise, allora, di concedere loro alcune terre di proprietà statale. Una parte di queste fu assegnata anche ai Bakonzo, ma dal momento che i criteri distributivi favorivano i Basongora, le tensioni fra i due gruppi si acuirono e degenerarono in incidenti sporadici. Nel 2008, a seguito di un’ennesima disputa sulla terra, una banda di giovani bakonzo massacrò alcune famiglie basongora, numerose case furono bruciate e il bestiame abbattuto [Musinguzi et al. 2014]. Immancabilmente, qualche politico locale cavalcò la situazione: in particolare alcuni leader bakonzo ne approfittarono per fomentare una campagna antigovernativa, sostenendo che il governo di Kampala avesse l’intenzione di favorire i Basongora per via della continuità etnica fra questo gruppo e quello del presidente Museveni [6]. In questo modo riprendeva vigore il discorso sulla marginalità dei Bakonzo che, come abbiamo visto, affonda le sue radici nell’epoca coloniale, ma che ancora oggi rappresenta un potente fattore di mobilitazione etnica.
In sostanza, la competizione per la terra, una volta politicizzata, ha prodotto una cristallizzazione ed una esacerbazione delle diverse identità etniche. Il risultato è un clima di violenta paranoia in cui ogni gruppo tende a percepire l’altro come un nemico. Si tratta, però, di una paranoia che induce all’azione: la paura dell’esclusione sociale, oppure di diventare vittima della violenza altrui, spinge infatti ad un’azione violenta preventiva che alimenta e per certi versi invera il clima paranoico.
La proclamazione del regno
Nel 2009 il regno del Rwenzururru venne finalmente riconosciuto dal governo centrale. Prima di addentrarmi nei delicati passaggi che hanno portato al suo riconoscimento e alle conseguenze di tale atto, è opportuno aprire una breve parentesi sul rapporto fra governo centrale e regni tradizionali e sul passaggio dell’Uganda al multipartitismo.
I regni tradizionali in Uganda vennero aboliti dal presidente Obote, nel 1967, a cinque anni dall’indipendenza. Con l’ascesa al potere di Museveni (1986), la questione dei regni si ripropose con forza. Nel tentativo di contenere le pressioni autonomiste, in particolare nella regione di Kampala (ex-regno del Buganda), nel 1993, dopo un lungo dibattito interno, l’NRM optò per la restaurazione dei regni tradizionali [Doornbos 1993]. Nel 1995 il riconoscimento dei leader culturali venne sancito nella nuova Costituzione che riconosceva la possibilità ai diversi gruppi etnici di dotarsi di un’istituzione culturale, ivi compreso un regno (questo al di là del fatto che il gruppo in questione fosse o meno in passato organizzato in regno). Per i realisti bakonzo si apriva così la possibilità di riprendere la battaglia politica per instaurare il regno del Rwenzururu. A questo si aggiunge che nel 2005, a seguito delle pressioni internazionali, il regime di Museveni si aprì al multipartitismo. Con la nascita dell’FDC (Forum for Democratic Change), il principale partito di opposizione, l’agone politico diventò più competitivo. Il problema dei regni, lungi dal rimanere una questione meramente culturale come proclamato nella Costituzione, si intrecciò inevitabilmente con la competizione elettorale fra i due partiti.
Come ho riportato sopra, dopo numerosi fallimenti, l’UPDF riuscì finalmente a liberare la regione del Rwenzori dall’ADF. È interessante soffermarsi sulla strategia adottata dal governo ugandese per raggiungere questo obiettivo. Nel 1998 Charles Mumbere, il re in pectore, rientrò dagli Stati Uniti per una breve visita e nel 2009 fece definitivamente ritorno in Uganda. Come mi è stato riferito da George Micheal Mukula, ex ministro di Museveni e capitano dell’UPDF con l’incarico di mediare il conflitto nel Rwenzori, tale svolta era il frutto di un accordo: il governo concedeva a Mumbere di rimpatriare e in cambio richiedeva il suo sostegno nello sforzo di eliminare l’ADF [7]. In effetti, nonostante fosse da tempo negli Stati Uniti, Mumbere era ancora molto popolare nel Rwenzori. Fra la popolazione rurale era diffusa l’idea che il suo rientro e la sua incoronazione avrebbero portato sviluppo e ricchezza per via delle sue presunte connessioni con il mondo politico-economico statunitense. Il governo ugandese voleva quindi utilizzare la sua popolarità per contrastare l’ADF. Mumbere avrebbe dovuto smarcarsi e condannare pubblicamente il movimento ribelle con un messaggio rivolto soprattutto ai giovani per disincentivarli ad arruolarsi. Come mi disse lo stesso Mukula, «dovevamo rimuovere l’acqua in cui i pesci nuotavano, era questa la nostra priorità». In effetti la strategia ebbe successo, l’ADF venne sconfitta e dal canto suo Mumbere acquistò un credito politico da spendere nella sua rincorsa alla corona.
La strada era in discesa: nel 2009 il governo riconobbe il regno del Rwenzururu e nel 2010, in una cerimonia pubblica alla presenza del presidente Museveni, Charles Mumbere fu proclamato re. Come previsto dalla legge ugandese, il neo-re poté beneficiare di un salario statale e di altri benefits (automobili, una casa per la madre, guardie del corpo, ecc.). Ovviamente la strategia del governo era di cooptare il regno ed eventualmente di utilizzarlo per garantirsi il consenso popolare durante le elezioni in una regione tradizionalmente ostile. Tuttavia le cose andarono diversamente.
Nelle elezioni politiche del 2011 il partito di opposizione, l’FDC, ottenne la maggioranza dei voti. Data la sua grande popolarità, era evidente che il re aveva orientato il voto a favore dell’FDC riaprendo così la decennale frattura fra il regno e il governo centrale. A questo si aggiunge che il regno del Rwenzururu aveva assunto, ormai da tempo, una connotazione marcatamente etnica dai confini incerti: di fatto si trattava di un’istituzione monopolizzata dai Bakonzo e per questa ragione era inviso agli altri gruppi. In generale, in un clima di forte tensione identitaria, il timore era che i Bakonzo potessero pesantemente penalizzare, se non addirittura epurare, gli altri gruppi della regione. Questa situazione scatenò una corsa ai regni: dapprima i Bamba, in seguito i Basongora e infine anche i Banyabindi iniziarono ad avviare l’iter per richiedere al governo centrale di poter istituire un proprio regno e sottrarsi così all’egemonia dei Bakonzo [8]. Anche in questo caso non mancarono incidenti fra i giovani delle varie fazioni: nel 2012, per esempio, il re Mumbere si recò in visita nella contea di Bwamba nel distretto di Bundibujo, un’area a maggioranza bamba, dove innalzò provocatoriamente la bandiera del regno, un gesto che inevitabilmente scatenò una serie di violenti scontri [Reuss, Titeca 2016, 4].
In sostanza, sebbene la Costituzione riconosca ai regni soltanto lo status di istituzione culturale, nella realtà essi hanno sempre svolto un ruolo politico, con l’ambizione di esercitare la propria sovranità su di un territorio i cui confini, però, sono divenuti immancabilmente oggetto di violente contese fra i diversi gruppi, in un quadro in cui l’etnia rappresenta di fatto il fondamento ontologico dei regni.
Il progetto di uno Stato etnico
Il governo e in generale gli oppositori della monarchia hanno sempre sospettato il re e i vari ministri del regno di perseguire segretamente il progetto di costituire uno Stato indipendente che comprendesse anche le regioni contigue del Congo dove vivono i Banande (ricordo che Banande e Bakonzo sono la stessa popolazione). Si tratterebbe quindi di uno Stato etnico transfrontaliero, un’idea che risale al programma del Rwenzururu Movement degli anni Sessanta, sebbene all’epoca, come ho detto sopra, il carattere etnico era meno marcato rispetto ad oggi. Il re Mumbere e i suoi ministri hanno sempre negato tale intenzione, ma in realtà i sospetti erano a mio avviso tutt’altro che infondati. Una serie di attacchi compiuti da milizie bakonzo nel 2014 è infatti inquadrabile all’interno di questo progetto.
Nel 2014, gruppi di milizie bakonzo attaccarono congiuntamente alcuni posti di polizia e un accampamento dell’esercito nei distretti di Kasese e Bundibugyo. Male armati e male organizzati, i soldati dell’UPDF uccisero circa 120 miliziani e molti altri furono arrestati [9]. Di fronte alla portata dell’attacco, chiaramente un’azione tutt’altro che spontanea, il re e i suoi ministri furono immediatamente sospettatati di essere gli organizzatori. Mumbere si dichiarò estraneo ai fatti, ma in seguito alcuni ministri del regno vennero arrestati. Fra questi vi era Vincent Kapilongo, che all’epoca aveva l’incarico di Minister for Royal Security e che fu accusato di essere il comandante sul terreno dell’azione.
Inizialmente Kapilongo si assunse tutte le responsabilità del fatto, sostenendo che l’attacco era stato pianificato all’insaputa del re. In seguito cambiò versione e ammise che altri ministri del regno e lo stesso Charles Mumbere erano coinvolti nell’azione. Dopo aver trascorso un breve periodo in carcere, Kapilongo beneficiò di un’amnistia e con lui molti altri giovani miliziani che avevano partecipato all’attacco. Personalmente ho avuto modo di intervistarlo nel gennaio del 2017, durante la mia ricerca sul terreno a Kasese, e voglio qui proporre una breve riflessione basata sul nostro colloquio.
Kapilongo, come molti altri esponenti del governo del regno, è figlio di un reduce del Rwenzururu Movement. È quindi nato e cresciuto nello spirito della ribellione, in un contesto in cui i reduci godono tutt’oggi di prestigio sociale; inoltre hanno dato vita a un’associazione che ha un forte ascendente sulla politica locale. Negli anni Novanta, in un clima di solidarietà transetnica, vi fu una campagna di reclutamento fra i giovani bakonzo per andare a combattere in Congo a sostegno dei Banande, che subivano gli attacchi delle formazioni ribelli sostenute dal Rwanda. In quell’occasione Kapilongo si arruolò in una milizia Mayi-Mayi [Jourdan 2011] e combatté per un certo periodo nella regione del Nord Kivu. Rientrato in Uganda, in virtù di questa sua esperienza militare venne successivamente nominato ministro per la sicurezza del regno del Rwenzururu. Secondo Kapilongo gli esponenti del regno, molti dei quali erano al pari suo figli di reduci del Rwenzururu Movement, caldeggiavano ancora il progetto di creare uno Stato autonomo transfrontaliero che riunisse i Bakonzo e i Banande. L’attacco del 2014, che ammise di aver pianificato insieme ad alcuni ministri e al re Mumbere, aveva l’obiettivo di attirare l’attenzione della comunità internazionale e dei media sulla causa dei Bakonzo. Con non poco cinismo, mi disse che sin dall’inizio era stato consapevole che la milizia da lui organizzata non avrebbe avuto alcuna possibilità di sopraffare l’UPDF: si trattava, in sostanza, di un sacrificio necessario (oltre cento ragazzi e molti civili persero la vita!) per “accendere i riflettori” sulla regione.
Dal confronto serrato con i fatti, tendo a pensare che la testimonianza di Kapilongo ricostruisca uno scenario piuttosto veritiero. Tuttavia voglio evitare qui ogni una congettura e pertanto mi limito a sottolineare che l’attacco del 2014 ha dimostrato che gli esponenti del regno avevano una buona capacità organizzativa, una rete di relazioni transfrontaliera e soprattutto erano in grado di mobilitare i giovani della regione, molti dei quali furono reclutati nel versante congolese del Rwenzori. Mi pare, quindi, fondato supporre che il progetto di dar vita a un nuovo Stato, corroborato dall’idea diffusa nella regione che vi fosse un piano dei governi rwandese e ugandese per sterminare i Bakonzo e i Banande, abbia costituito il quadro ideologico di questa azione.
Fine di un regno?
I fatti del 2014 accrebbero ulteriormente la tensione fra il regno e il governo centrale. Anche fra i quadri dell’UPDF iniziò a serpeggiare un certo malcontento nei confronti della posizione di Kampala, considerata eccessivamente tollerante. I nodi non vennero sciolti e le cose precipitarono nuovamente nel 2016.
Nel febbraio 2016 si tennero nuovamente le elezioni. Nel distretto di Kasese, l’FDC uscì trionfante e l’NRM, per la prima volta dall’apertura al multipartitismo, non conquistò nemmeno un seggio. Tuttavia, nonostante un motivato allarmismo, non vi furono incidenti [10]. In ogni caso questa tornata elettorale dimostrò una volte per tutte che la politica clientelare di Museveni non aveva dato alcun frutto: l’NRM, infatti, non aveva guadagnato alcunché dall’aver riconosciuto il regno, al contrario l’opposizione ne aveva tratto tutti i vantaggi.
A novembre dello stesso anno, alcune unità di polizia vennero nuovamente attaccate dalle guardie reali. A seguito dell’intervento dell’UPDF nella città di Kasese, molte guardie reali si asserragliarono nel palazzo reale pensando probabilmente che la presenza del re Mumbere potesse dissuadere l’esercito dall’attaccare. L’UPDF circondò il palazzo ed ebbe inizio una trattiva telefonica fra il presidente Museveni e il re Mumbere, ma quest’ultimo rifiutò di arrendersi. L’epilogo già lo conosciamo: l’attacco dell’esercito lasciò sul terreno oltre 120 morti, le guardie reali sopravvissute furono arrestate e Mumbere venne trasportato in elicottero a Kampala dove fu imprigionato.
Conclusioni
Il caso del Rwenzori ha mostrato gli enormi limiti e le contraddizioni del regime di Museveni: la sua natura clientelare ha portato a una etnicizzazione della politica che ha esasperato i conflitti e le rivalità fra i vari gruppi della regione. Al contempo, la reazione violenta delle forze di sicurezza ha contribuito ad alimentare un clima di terrore e di paranoia.
Si apre qui un problema di portata più vasta, ossia quello della compatibilità fra regimi multipartitici di matrice clientelare e la presenza di forme di autorità “tradizionali”. È evidente che tale intreccio è in molti casi esplosivo e produce situazioni ingovernabili, che spalancano le porte a soluzioni draconiane e violente. Stabilire un equilibrio e una convivenza fra queste forme di governo appare, in molti contesti, estremamente difficile.
È senza dubbio arduo fare previsioni sul futuro. Il regno del Rwenzururu, un progetto a lungo perseguito, è stato smantellato ed è al momento difficile prevedere se tale istituzione possa essere ricostituita. L’esito del processo al re Mumbere sarà determinante nel definire il nuovo scenario. In ogni caso, i numerosi fautori della monarchia sostengono che il regno debba continuare a esistere, al di là delle persone che lo compongono: nel caso in cui Mumbere venga condannato, la soluzione potrebbe essere, quindi, un nuovo re e nuovi ministri. Tuttavia, le contraddizioni di fondo che hanno portato alla crisi attuale rischierebbero di riproporsi. Al contempo, il quadro politico nazionale si sta facendo più fosco. In questi giorni (dicembre 2017) il parlamento ugandese ha emendato nuovamente la Costituzione: il vincolo di età per la carica di presidente (75 anni), che avrebbe impedito a Museveni di ricandidarsi, è stato abolito; il periodo della legislatura è stato prolungato da cinque a sette anni ed è stato reintrodotto il limite massimo di due mandati. Tutto questo, però, entrerà in vigore solo con le prossime elezioni, che si terranno nel 2021: a partire da quell’anno, quindi, Museveni avrà virtualmente la possibilità di rimanere alla guida del paese per altri quattordici anni.
Museveni è sempre più impopolare e il regime si chiude a riccio accentuando il suo carattere repressivo: in Uganda il rischio di un’involuzione totalitaria si fa sempre più concreto.
Bibliografia
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Note
1. Il monte Rwenzori, con i suoi 5.109 metri, è la terza cima più alta dell’Africa. Venne scalato per la prima volta dal Duca degli Abruzzi nel 1906.
2. La maggior parte dei Bakonzo vive in Congo, dove sono denominati Banande. Entrambi i gruppi possono essere definiti con l’etnonimo Bayra. Secondo Serena Facci il primo flusso migratorio dei Banande verso il versante occidentale del massiccio del Rwenzori risale all’inizio del diciannovesimo secolo, o probabilmente anche a un periodo antecedente. I Bakonzo rimasti sul versante orientale del Rwenzori vennero successivamente inclusi nel regno dei Batoro. In seguito la colonizzazione europea portò alla definizione della frontiera fra Congo e Uganda [Facci 2009].
3. A seguito delle accuse, Mumbere ammise di aver dato il proprio sostegno ai NALU, ma di non aver mai supportato l’ADF.
4. Nel dicembre 2017 a Beni, Nord Kivu, sono stati uccisi undici caschi blu. L’attacco, il più sanguinoso mai subito dalla missione delle Nazioni Unite in Congo (MONUSCO), è stato attribuito all’ADF.
5. Questa migrazione fu probabilmente causata dalla guerra del Rwenzururu Movement negli anni Sessanta e Settanta. In seguito, si crearono catene migratorie che alimentarono ulteriormente il flusso.
6. Il presidente Museveni appartiene all’etnia dei Banyankole, che vivono prevalentemente nelle regioni sud-occidentali dell’Uganda e anche essi, come i Basongora, sono tradizionalmente pastori.
7. Ho intervistato George Mukula a Kampala nel giugno 2016,
8. Nel 2014 il governo ha riconosciuto il regno dei Bamba, il gruppo più numeroso dopo i Bakonzo.
9. È mia opinione, formata sulla base di alcune interviste e sull’analisi degli eventi di quei giorni, che i servizi segreti ugandesi avessero avvisato l’UPDF dell’imminente attacco. Il fatto che l’UPDF non si sia impegnata in un’azione preventiva lascia pensare che l’intenzione fossa quella di “lasciare corda” alle milizie per poi inferire loro un duro colpo al momento dell’attacco.
10. Nel distretto di Bundibugyo, invece, l’annuncio dei risultati elettorali scatenò una serie di scontri in cui persero la vita 12 persone.