Introduzione
La revisione storiografica che, negli ultimi 30 anni, ha caratterizzato gli studi sulla fine dell’era carolingia è stata in grado di vedere, nella varietà e nell’instabilità delle esperienze politiche e istituzionali che caratterizzano la fine del IX e l’inizio del X secolo, non tanto il segno di una decadenza o di un’ormai irreparabile rovina, quanto piuttosto la massima espressione degli strumenti retorici e politici propri dell’età carolingia, i quali, portati fino alle loro estreme conseguenze, hanno permesso a numerosi attori politici di diventare protagonisti di rapide ascese e altrettanto rapide discese [1]. Parallelamente, l’impegno della storiografia è stato quello di mettere in luce come tale competizione politica non fosse fondamentalmente basata su un uso capillare e massivo della violenza, decostruendo l’immagine del X secolo come “secolo di ferro” [2], ma appunto su strumenti retorici e intellettuali sottili, variabili secondo i tempi e gli spazi, temi a cui è attualmente dedicato un progetto europeo di ricerca [3].
È all’intersezione di queste linee di ricerca che vuole collocarsi il presente articolo, dedicato all’analisi delle strategie di legittimazione che hanno favorito l’ascesa di Ludovico di Provenza al trono provenzale (890), italico (900) e imperiale (901). Tale scelta è motivata da una serie di fattori: in primo luogo, Ludovico è passato alla storia come una delle vittime del “secolo di ferro”, a seguito del noto episodio del suo accecamento da parte di Berengario nel 905, al punto da essere noto come Ludovico “il Cieco”. Tuttavia, se questo tragico fatto ha segnato la fine delle pretese del sovrano sul trono italico e imperiale, esso non è che uno dei tanti avvenimenti che caratterizzano la vita politica di Ludovico, senza dimenticare che, nel regno di Provenza, il suo prestigio sembra essere rimasto inalterato fino alla morte, avvenuta nel 928. Inoltre, tale sovrano sembra essere al centro di un processo di legittimazione particolarmente eterogeneo che, tuttavia, non è ancora stato chiaramente messo a fuoco dalla storiografia, la quale, dopo l’opera di Poupardin dell’inizio del secolo scorso (1901), non ha mai veramente focalizzato l’attenzione sul ruolo del regno di Provenza e dei suoi sovrani nel periodo di cerniera tra la fine del IX e l’inizio del X secolo [4].
Nel dettaglio, dopo avere brevemente introdotto il contesto politico della fine del IX secolo, si partirà dall’analisi del testo della Visio Karoli Tertii [5]. Tale opera, di cui verranno evidenziati il milieu scrittorio e il retroterra intellettuale tenta, infatti, di legittimare Ludovico di Provenza come successore di Carlo III detto il Grosso, ultimo imperatore carolingio per linea maschile, morto senza eredi diretti. La Visio sarà, in seguito, messa a confronto con i canoni del concilio di Valence dell’890, che sancirà l’ascesa di Ludovico sul trono provenzale e che sembra intrattenere con essa uno stretto rapporto. Ciò permetterà di mettere a fuoco anche il ruolo cardine della madre, Ermengarda, nel sostegno alla causa di Ludovico nel corso della sua gioventù. Da ultimo, ci si concentrerà sui diplomi di Ludovico, al fine di mettere meglio in luce le diverse strategie utilizzate nelle varie aree del regno: da un lato, una politica di maggiore presenza e di gestione del patrimonio fiscale lungo la valle del Rodano; dall’altro, in Italia, il tentativo da parte del sovrano di legittimare i suoi diritti sul trono non solo con la sua discendenza, ma anche con una migliore capacità di reagire alle invasioni ungare, che avevano contribuito decisivamente a minare il potere di Berengario I. Ciò consentirà, in conclusione, di comprendere come, nel complesso periodo di fine IX-inizio X secolo, la legittimazione regia dovesse passare attraverso molteplici strategie, dalla continuità dinastica alle concessioni di beni fiscali, dai successi militari alla presenza fisica e simbolica sul territorio.
Un mondo in ebollizione
La complessità dello scacchiere politico franco di fine IX secolo è difficilmente sintetizzabile in maniera esaustiva. Per questa ragione, mi limito, in questa sede, a mettere in luce alcuni elementi funzionali alla comprensione del contesto in cui si muove Ludovico III [6].
Il punto di partenza è il triennio 875-877, nel corso del quale morirono, in rapida sequenza, Ludovico II, re d’Italia, Ludovico il Germanico, re dei Franchi orientali, e Carlo il Calvo, sovrano dei Franchi occidentali. Il primo dei tre, in particolare, non aveva eredi diretti e l’unico figlio ancora in vita di Carlo il Calvo, Ludovico il Balbo, morirà pochissimi anni dopo, nell’879. Il problema non va interpretato, di per sé, nei termini di un vuoto di potere, bensì letto a partire dal fatto che la successione nel mondo carolingio non era qualcosa di automatico, ma necessitava di una lunga e laboriosa preparazione. Ciò che era difficilmente sostituibile non era tanto la figura sul trono, ma la rete di relazioni che ne aveva accompagnato e supportato l’ascesa. Non vi era, infatti, una canonizzazione esplicita della primogenitura ma, piuttosto, la prassi era quella di dividere il regno tra tutti gli eredi, rinforzando progressivamente i legami tra quest’ultimi e i potenti locali. Tutto ciò è chiaramente evidente nel caso di Carlo Magno, che è ritornato più volte sui suoi piani successori (Innes 1997), o di Ludovico il Pio, che, dopo un primo tentativo di organizzazione della successione nell’817 (la celebre Ordinatio Imperii [7]), ha dovuto impegnarsi in prima persona, ricorrendo anche all’uso della forza, per tentare di imporre (senza successo) le sue idee sulla spartizione dell’impero alla sua morte (Nelson 1990b). La rapida dipartita di numerosi sovrani, aggravata dall’estinzione di uno dei tre rami principali della famiglia, quello degli eredi di Lotario, rendeva difficile l’interpretazione e trasmissione dei legami di fedeltà, aprendo degli spiragli sempre maggiori per le interferenze di figure, ecclesiastiche o laiche, le quali, in virtù della maggiore longevità e continuità nell’esercizio del potere al fianco di uno o più sovrani, potevano ambire a configurarsi come kingmakers, come Incmaro, arcivescovo di Reims (Nelson 1990a), o perfino, a loro volta, come re. A quest’ultima categoria di aristocratici appartiene il padre di Ludovico di Provenza, Bosone.
Egli era, in primo luogo, un membro della più alta aristocrazia imperiale. Conte di Vienne, la sua famiglia era ormai da diverse generazioni tra le più influenti della Francia Media e aveva stretto diversi legami di alleanza matrimoniale con i Carolingi (Bouchard 1988, 409-410). Più nel dettaglio, come visibile nella figura 1, fu Bosone stesso a imprimere una forte accelerazione nella creazione di legami di parentela con i sovrani, intessendo relazioni sia con Carlo il Calvo, sia con la discendenza di Lotario I. La sorella, Richilde, sposò infatti in seconde nozze proprio Carlo, mentre lui stesso prese in moglie la figlia di Ludovico II d’Italia, Ermengarda, da cui nacque Ludovico di Provenza.
Ciò che distinse Bosone da molti altri aristocratici della sua epoca fu, tuttavia, il tentativo di ottenere per sé una corona regia. Come sottolinea Simon MacLean, “the audacity of Boso’s rising was itself unique. Never before had a man born outside the ruling dynasty dared to ascend a throne during the period of the Carolingian monopoly of legitimate royal power, which endured from 751 until 888” (MacLean 2001, 23-24). Le circostanze di questa ascesa vanno, tuttavia, chiarite, al fine di comprendere meglio lo scenario politico in cui il figlio, Ludovico, si troverà a muoversi. In prima battuta, è importante focalizzare meglio l’area di cui Bosone diventa sovrano nell’879, quando venne eletto re nel corso di un’assemblea a Mantaille [8]. A questo concilio, infatti, parteciparono vescovi e arcivescovi provenienti essenzialmente dall’area della Borgogna rodaniana e della Provenza centro-occidentale.
Questa area era piuttosto eterogenea e, come sottolineato già molti anni fa da Bautier, non aveva sicuramente un’identità “nazionale” o “etnica” (Bautier 1973), ma era unita da ragioni di opportunità politica. Come rileva Guido Castelnuovo parlando dei Bosonidi, infatti, “à la fin du IXe siècle leurs attaches bourguignonnes sont assez récentes, elles sont encore instables et découlent avant tout d’une faveur royale faite d’affectations administratives et de rapports familiaux” (Castelnuovo 1998, 389). Non dobbiamo dimenticare, infatti, che, da un lato, Bosone aveva a lungo cercato di imporsi, con l’appoggio di Carlo il Calvo e del pontefice Giovanni VIII, come governatore dell’Italia carolingia (Bougard 2022, 56-66), senza tuttavia riuscire a ottenere un consenso univoco dell’aristocrazia italica (in questo contesto aveva sposato la figlia di Ludovico II). D’altra parte, egli si era radicato in territori in cui la sua famiglia non aveva particolari beni fondiari o cariche (limitate alla Borgogna), sfruttando sia la necessità locale di trovare un sovrano in grado di dare stabilità, sia una certa continuità con la discendenza di Lotario, che aveva regnato sulla Francia Media, garantita dal matrimonio con Ermengarda. Inoltre, è importante notare come non ci troviamo di fronte a un tentativo di sovversione delle modalità di azione politica carolingia. Al contrario, i Bosonidi si caratterizzarono per la “continuité de structures d’encadrement politique de type carolingien” (Castelnuovo 1998, 397). La rottura, in questo senso, non fu tanto nelle modalità di affermazione e governo regio, quanto piuttosto nell’estensione di tali pratiche a figure che, pur appartenendo alla più alta aristocrazia imperiale, non provenivano dalla famiglia reale per discendenza diretta maschile. Da ultimo, è importante sottolineare che il tentativo di Bosone si rivelò effimero, come mostra la dettagliata ricostruzione della vicenda di Simon MacLean: osteggiato dai suoi stessi familiari e da precedenti sostenitori, come Giovanni VIII, Bosone dovette affrontare la reazione unitaria dei sovrani carolingi, che riuscirono a eroderne il potere e a riprendere il controllo dell’area borgognona e provenzale (MacLean 2001).
Negli anni successivi, tuttavia, i diversi sovrani carolingi continuarono a morire senza eredi e, nell’884, Carlo il Grosso, ultimo figlio vivente di Ludovico il Germanico, ereditò la totalità dell’impero [9]. Restava, tuttavia, un problema insoluto: quello della successione. Carlo era senza eredi legittimi e con scarse probabilità di guadagnarne uno nel breve termine. Lo scacchiere politico si riempì, allora, di figure che ambivano a governare su almeno una parte dell’impero (Arnolfo di Carinzia, Ugo di Lotaringia…) senza che nessuna di queste figure potesse vantare una discendenza maschile legittima dai Carolingi. Era naturale che, in questo contesto, Ludovico di Provenza, nipote di Ludovico II e membro della più alta aristocrazia, tornasse in gioco. In realtà, l’obiettivo di Carlo il Grosso era quello di legittimare un suo figlio naturale, Bernardo, probabilmente ottenendo dal pontefice lo scioglimento del suo matrimonio per potersi risposare con la madre di Bernardo (MacLean 2003a, 129-134). L’imperatore incontrò tuttavia numerose difficoltà nel tentare di ottenere questo risultato, che necessitava non solo del consenso papale, ma anche di quello dei vescovi e delle aristocrazie imperiali [10]. Soprattutto queste ultime, d’altra parte, erano composte da alcune figure le quali, tutto sommato, sentivano di avere gli stessi diritti di Bernardo. Tra questi, Ugo di Lotaringia e Arnolfo di Carinzia, figli naturali rispettivamente di Lotario II e Carlomanno II, fra l’885 e l’887 entrarono in aperto contrasto con l’imperatore, che riuscì, inizialmente, ad avere la meglio (MacLean 2003a, 134-160).
È in questo contesto che un altro oppositore di Carlo il Grosso, Bosone di Vienne, venne a mancare, nell’887. Si aprì, a questo punto, l’opportunità per chiudere un conflitto pluriennale e per stabilire delle nuove alleanze. La continuazione bavarese degli Annales Fuldenses narra di come, “mortuo itaque Buosone, parvulus erat ei filius de filia Hludowici Italici regis; obviam quem imperator ad Hrenum villa Chirihheim veniens honorifice ad hominem sibi quasi adoptivum filium eum iniunxit” [11]. Sul significato di queste parole, il dibattito storiografico è stato piuttosto acceso. Da un lato vi è chi, come Eduard Hlawitschka, intrepretando l’adozione sul modello imperiale romano, ha visto nell’incontro di Kirchen un’esplicita designazione successoria (Hlawitschka 1968, 32-38; 1978), dall’alto chi, come Simon MacLean, tenuto conto del fatto che l’istituzione di una parentela spirituale non sembrava implicare, nel mondo carolingio, l’automatica integrazione nella linea successoria, ha preferito vedervi, con l’aiuto di alcuni dati contestuali, piuttosto una riconciliazione (MacLean 2003a, 162-168). Bisogna considerare, infatti, che Carlo era ancora impegnato, a quest’altezza cronologica, nei suoi tentativi di legittimazione di Bernardo, elemento a cui si aggiunge l’assenza di ogni riferimento a un’eventuale successione di Ludovico nei due diplomi emanati nell’agosto 887 a Lustenau, a seguito dell’incontro di Kirchen [12]. Nel primo, con il quale furono restituiti a Ermengarda e Ludovico tutti i beni di Ludovico II in Italia, Frantia e Burgundia, si parla esplicitamente di quanto avvenuto a Kirchen come di una riconciliazione, un perdono, senza alcuna menzione di un’eventuale designazione successoria [13]. In entrambi i diplomi, inoltre, a prevalere è un lessico familiare, che vuole chiaramente affermare la reintegrazione in seno ai proceres del sovrano. L’arenga del secondo atto, con il quale Ermengarda ricevette la conferma di ulteriori beni ricevuti da diversi sovrani carolingi, è particolarmente eloquente al riguardo: “oportet imperialem dignitatem curam omnium gerere subiectorum, maxime vero secundo apostolum domesticorum atque propinquorum” [14]. Ermegarda e Ludovico vengono essenzialmente reinseriti a corte e in seno alla famiglia carolingia, potendo così beneficiare nuovamente della generosità imperiale. In entrambi questi testi, non è presente alcun riferimento a un’eventuale incoronazione di Ludovico o a un suo ingresso nei piani successori del sovrano. È questo un elemento importante, non solo dal punto di vista di Carlo il Grosso, ma anche da quello di Ludovico: se l’adozione non era in alcun modo una designazione, essa però lo faceva sicuramente rientrare tra i possibili successori. La situazione, rispetto all’879, era profondamente cambiata: nessun erede in linea maschile di Carlo Magno era più in vita e, soprattutto nell’area italica e nella Francia Media, mostrare una discendenza, per quanto femminile, da Ludovico II e, di conseguenza, da Lotario I, poteva rivelarsi decisivo, come dimostra il successivo corso degli eventi. Quando Carlo il Grosso, ormai malato, fu deposto da Arnolfo di Carinzia nell’887, per poi morire l’anno seguente, a farsi strada come sovrani, oltre ad Arnolfo stesso, furono figure che non potevano rivendicare una parentela diretta con i Carolingi: Rodolfo I in Borgogna, Guido II di Spoleto in Italia, Oddone nel regno dei Franchi occidentali. È in questo contesto che, infine, nell’890, anche Ludovico fu incoronato, diventando re di Provenza.
La ricerca della legittimazione: la Visio Karoli Tertii
In uno scacchiere politico sempre più complesso, la ricerca di legittimazione era spasmodica e continua: i sovrani dei regni carolingi limitrofi minacciavano costantemente di intervenire, in autonomia o col sostegno di fazioni aristocratiche locali, e queste ultime potevano, a loro volta favorire l’ascesa di un loro membro al titolo regio. Ancora più difficile era organizzare una forma di successione, pratica che, come si è potuto vedere, era già complicata quando vi era una sola famiglia regnante a gestirla. Tra le strategie a sostegno di Ludovico di Provenza è possibile individuare un testo, la Visio Karoli Tertii, che si distingue dalle forme più comuni di legittimazione (emanazione di diplomi, costruzione o ristrutturazione di chiese o altri luoghi di culto, alleanze matrimoniali, campagne militari…). Prima di entrare nel dettaglio, occorre riservare qualche parola al genere e alla tradizione manoscritta di questo testo.
Si tratta di una Visio che ha come protagonista l’imperatore Carlo III il Grosso. Le visioni oniriche di ambito politico sono dei testi molto diffusi nel IX secolo, al punto che Paul Dutton le ha definite “the most intensely subjective statements of Carolingian political thought, for in them things that elsewhere remained unsaid were finally spoken, but with a clarity of conviction that real dreams rarely achieve” (Dutton 1994, 1). La visione, effettivamente, concede all’autore una libertà di espressione pressoché totale, in quanto il mondo onirico è in grado di rendere plausibile qualunque scena e di deresponsabilizzare chi scrive da ogni eventuale immagine eccessivamente provocatoria. La Visio Karoli Tertii, dunque, non è un testo unico, poiché si inserisce in una serie di opere simili molto diffuse in età carolingia, ma è sicuramente uno dei più noti, dalla tradizione manoscritta più ampia e diffusa (Dutton 1994, 233-234; Pilati 2023), che sembra avere influenzato perfino dei passi dell’Inferno di Dante (Pilati 2023; Silverstein 1936). Il più antico esemplare a nostra disposizione è un manoscritto conservato a Saint-Omer e ivi redatto (nell’abbazia di Saint-Bertin), databile a fine IX-inizio X secolo [15]. Per quanto riguarda la provenienza del testo, gli studiosi sono ormai concordi nell’ipotizzare una scrittura nel milieu di Folco, arcivescovo di Reims dall’883 (Dutton 1994, 229-224; MacLean 2003a, 236). Bisogna, a questo punto, comprendere meglio gli interessi di Folco, al fine di delineare anche un quadro più preciso per la datazione. L’arcivescovo di Reims, con una tradizione che si faceva risalire ai tempi di Clodoveo, era colui che si occupava della consacrazione dei sovrani nell’area della Francia occidentale. Ciò era stato particolarmente vero con il precedente e potente arcivescovo, Incmaro, che si era occupato dell’incoronazione sia di Carlo il Calvo, sia del figlio di quest’ultimo, Ludovico il Balbo (Demouy 2023). Tali riti, parte integrante delle strategie di legittimazione, garantivano agli arcivescovi di Reims una grande influenza sulle azioni dei sovrani, non sempre gradita. Oddone, che divenne re dei Franchi occidentali nel febbraio 888, si fece incoronare a Compiègne dall’arcivescovo di Sens, e non da quello di Reims e, d’altra parte, Folco era imparentato con Guido di Spoleto, il quale, prima di ottenere il trono italico, aveva ambito a quello dei Franchi occidentali, per divenire in seguito un sostenitore di Arnolfo di Carinzia, due più che potenziali rivali per Oddone. Si arrivò, nel novembre 888, a una parziale riconciliazione fra Folco e Oddone che si fece incoronare nuovamente a Reims (Dutton 1994, 229-234). I rapporti non sembrano essere tuttavia migliorati, a giudicare anche dal giudizio molto severo che Flodoardo, nella sua Historia Remensis Ecclesiae, riservò al sovrano, ritenuto uno dei flagelli dell’arcidiocesi [16]. Questo contesto di produzione, insieme a un’analisi più dettagliata del contenuto, può aiutarci a comprendere meglio le possibili datazioni della Visio Karoli Tertii, indicando quella che, a parere di chi scrive, è la più probabile.
Nel breve testo, è l’imperatore Carlo il Grosso a sognare e tutto il racconto si svolge in prima persona. Lo spirito del sovrano viene guidato, nel sonno, da una figura inviata da Dio in un viaggio nell’aldilà, più nello specifico, all’Inferno, dove vede una serie di figure a lui note che subiscono terribili supplizi [17]. In primo luogo, egli riconosce i vescovi di suo padre (Ludovico il Germanico) e dei suoi zii, i quali, da lui interrogati, gli dicono che patiscono tali atroci pene in quanto seminatori di discordia e sono quindi trattati alla stregua dei rapinatori e degli assassini. Presto, ammoniscono, saranno raggiunti dai suoi vescovi e consiglieri [18]. In seguito, ulteriori tormenti coinvolgono gli aristocratici fedeli a lui e ai suoi familiari, i quali gli spiegano come “amavimus tecum et cum patre tuo, et cum fratribus tuis, et cum avunculis tuis facere praelia et homicidia et rapinas pro cupiditate terrena; ideo in ista bollentia flumina et metallorum diversa genera sustinemus tormenta” [19]. Ma non è finita qui. Terribili patimenti, per quanto mitigati dai buoni offici dei santi, toccano anche al padre stesso di Carlo, Ludovico il Germanico, che il sovrano incontra proseguendo il suo viaggio e che gli si rivolge in questo modo: “permisit te Deus huc venire ut videres propter quae peccata ego talia, et omnes quos vidisti, toleramus tormenta; uno enim die sum in isto ferventis balnei dolio, et alio die transmittor in isto alterum suavissimae aquae dolium” [20]. La pena di Ludovico è addolcita per la grazia di San Pietro e San Remigio [21]. Qualcuno, invece, è salvo. Continua, Ludovico: “nam frater meus Hlotarius, et filius ejus Lodogvicus, sancti Petri sanctique precibus Remigii exempti sunt de istit poenis, et jam ducti sunt in gaudium paradisi Dei” [22]. Per grazia di San Pietro (Roma) e San Remigio (Reims), Lotario e suo figlio Ludovico II hanno quindi già guadagnato il paradiso, mostrandosi come un lignaggio più meritevole, maggiormente santificato, rispetto agli altri rami della famiglia, da cui Carlo stesso discende. Il viaggio del sovrano prosegue fino a incontrare Lotario e Ludovico II, presentati in una sorta di trono celeste. Il secondo, prima di farlo ritornare al suo corpo terreno, gli lascia un comando: “Imperium Romanorum quod hactenus tenuisti, jure haereditario, debet recipire Hludogvicus filius filiae meae” [23]. Ludovico di Provenza, quindi, viene designato come legittimo e meritevole successore, discendente di Lotario via Ludovico II, poco importa se solo per via femminile, e inserito in una sorta di linea di continuità imperiale che include anche Carlo il Grosso. In un certo senso, sembra quasi che il sovrano venga estratto dal lignaggio di Ludovico il Germanico, che non era stato imperatore, e inserito in una stirpe che, da Lotario I, arriva a Ludovico di Provenza. In seguito, l’immagine del fanciullo appare, in maniera quasi messianica, davanti a Carlo, la cui visione si conclude.
La costruzione retorica di questo testo è particolarmente interessante. In primo luogo, la doppia legittimazione: sia Roma, rappresentata da San Pietro, che concede l’unzione imperiale, sia Reims, rappresentata da San Remigio, che consacra i sovrani dei Franchi occidentali, suggellano la gloria e i meriti del lignaggio di Lotario. Inoltre, viene valorizzato questo legame di sangue di Ludovico di Provenza, attraverso la madre Ermengarda, con Ludovico II, un chiaro segnale di legittimazione rispetto a quei sovrani, come Oddone, che non erano imparentati con i Carolingi. Ma non basta: viene anche mostrato come, all’interno della stessa famiglia regnante, vi sia un gruppo di eletti che merita una maggiore considerazione, squalificando così anche chi, in diversi modi, poteva vantare un legame parentale con i discendenti di Carlo Magno, come per esempio Arnolfo di Carinzia. Ludovico, ancora fanciullo, ha già ereditato i meriti e i diritti del suo lignaggio, che lo innalzano al di sopra degli altri sovrani. Non una parola su Bosone, non una parola su Bernardo, due elementi che potevano interferire con questa retorica, rompendo l’idillio.
Alla luce di tutto ciò, è possibile tentare di datare il testo. La storiografia, infatti, è piuttosto divisa al riguardo. Da un lato, vi è chi ha collegato questo testo con la presunta adozione da parte di Carlo il Grosso (Poupardin 1903; Dutton 1994, 239-247), vedendone una sanzione retorica, databile quindi al biennio 887-888. Tuttavia, come già mostrato, l’adozione non sembra in alcun modo implicare una designazione successoria, ma è solamente una reintegrazione nella famiglia e non può costituire un argomento decisivo. Vi è invece chi, partendo da questa critica, ha ritenuto più probabile una datazione legata alla discesa italica e alla ricerca del trono imperiale di Ludovico tra 900 e 901 (Levillain 1902; Levison 1902; Carozzi 1994, 362-365). Le ragioni principali sarebbero da ricercarsi nell’insistenza sulla titolazione imperiale e nel fatto che, nell’887-888, Ludovico non appariva in alcun modo un candidato credibile al titolo imperiale. Più recentemente, è particolarmente rilevante la posizione espressa da Marie-Céline Isaïa nel suo volume su Saint Remi de Reims (Isaïa 2010, 621-626). Nello specifico, il grande merito della lettura proposta da Isaïa è quello di partire da una prospettiva non incentrata su Ludovico e sul suo entourage, ma su Reims e i suoi arcivescovi. Secondo l’autrice, la Visio andrebbe datata all’inizio dell’episcopato di Heriverus (901), mantenendo come termine ante quem l’accecamento di Ludovico (905). Vi sono, tuttavia, alcune difficoltà. Se, come giustamente rileva l’autrice, Folco non poteva essere un sostenitore di Ludovico nell’ultimo decennio del IX secolo, resta da chiarire perché, nel 901, l’arcivescovo di Reims dovesse essere interessato a promuovere un sovrano che regnava su un contesto lontano (il regno italico) e che non aveva manifestato alcuna propensione ad ampliare i suoi interessi e le sue reti di relazioni oltre le Alpi, fino al regno dei Franchi occidentali. Inoltre, nei primi anni del X secolo, più precisamente dall’898, il sovrano dei Franchi occidentali era Carlo il Semplice, giovane figlio di Ludovico il Balbo, che era stato fortemente sostenuto proprio da Folco già in un tentativo di insurrezione contro Oddone nell’892 [24] e che avrà un rapporto privilegiato con Reims anche dopo la morte del suo potente sostenitore (Isaïa 2010, 627). È altamente improbabile, a mio modo di vedere, che l’arcivescovo di Reims, sia esso Folco o Heriverus, sostenesse l’elezione imperiale di Ludovico di Provenza nel momento in cui si era impegnato in una campagna in favore di Carlo il Semplice almeno dall’892. Inoltre, il lignaggio di Carlo il Calvo, da cui discendeva Carlo il Semplice, viene completamente taciuto nella Visio e, in questo senso, il testo difficilmente poteva risultare funzionale nell’ottica del legittimismo carolingio nell’ambito del regno dei Franchi occidentali in cui lo pone l’autrice. Possiamo infatti dedurre solo una menzione indiretta di questo ramo carolingio, quando si fa riferimento agli zii di Carlo III, ma i protagonisti del testo sono chiaramente le discendenze di Ludovico il Germanico e di Lotario. È quindi più probabile anticipare la stesura del testo a un momento antecedente all’ingresso in scena di Carlo il Semplice nell’892. La forchetta cronologica si riduce, di conseguenza, agli anni 887-892. A ulteriore sostegno di questa tesi occorre cercare di capire cosa potesse legare Ludovico di Provenza e Reims. Un indizio, in questa direzione, viene dalla polemica che vide coinvolti Bosone e Incmaro di Reims riguardo l’utilizzo da parte del re di alcuni beni ecclesiastici. L’argomento del contendere erano i beni dell’abbazia di San Remigio di Reims in Provenza, nella località attualmente nota, non a caso, come Saint-Remy-de-Provence, a sud di Avignone. La premessa doverosa è che la nostra fonte è Flodoardo, il quale scrive la storia della chiesa di Reims nel X secolo, molto lontano temporalmente dai fatti e in un’ottica sicuramente partigiana. In ogni caso, Incmaro si lamenta, direttamente con Bosone “quod res diversarum ecclesiarum suis hominis dedisset” [25] per la spoliazione di questi beni e prova a perorare la sua causa presso altri aristocratici provenzali [26], oltre che presso l’arcivescovo di Arles, Rostango [27], evidentemente con scarso successo, visto che le terre di Saint-Remy verranno donate da Ludovico, figlio di Bosone, al vescovo di Uzès nel 903 [28]. È quindi difficilmente ipotizzabile che, nel momento in cui Ludovico di fatto negava all’abbazia di San Remigio di Reims la restituzione dei suoi beni, avesse da poco incassato il sostegno dell’arcivescovo della città, peraltro morto nel 900, quando ormai la sua politica si era chiaramente orientata verso la valle del Rodano e l’Italia e quindi Reims poteva sperare di ottenere ben poco dal sovrano.
Per quanto riguarda il termine post quem, ritengo sensato portare in avanti di almeno un anno la possibile datazione. Come anticipato, infatti, dopo la deposizione di Carlo il Grosso, Folco si era impegnato dapprima a sostegno di Guido di Spoleto, con cui era imparentato, poi in favore di Arnolfo di Carinzia. È quindi altrettanto improbabile che partecipasse alla stesura di un testo che esaltava il sangue carolingio, che Guido non poteva vantare e che, parallelamente, denigrasse il lignaggio di Ludovico il Germanico, da cui discendeva Arnolfo. D’altra parte, bisogna riconsiderare il ruolo dell’adozione di Ludovico di Provenza. Se essa non indicava in alcun modo un’automatica successione, chiaramente faceva entrare il giovane nipote di Ludovico II nella rosa dei possibili sovrani. Inoltre, mi sembra particolarmente rilevante che, proprio nell’888, sia emerso un conflitto tra Folco e Aureliano, arcivescovo di Lione, in merito all’elezione del nuovo vescovo di Langres, sede suffraganea di Lione ma sottoposta all’influenza della vicina Reims e facente parte del regno dei Franchi occidentali (Folz 1986). Senza entrare nel dettaglio di questo conflitto, è possibile che Folco cercasse un intervento dell’entourage di Ludovico presso l’arcivescovo di Lione, che era il precettore del sovrano. In questo senso, l’ipotesi di Dutton di una datazione all’estate 888, quando le speranze di vedere sia Guido che Arnolfo sul trono dei Franchi occidentali erano naufragate, mi sembra quella più verosimile, senza per questo escludere totalmente quella sostenuta da Simon MacLean, che collega questo testo all’incoronazione di Ludovico di Provenza dell’890 (MacLean 2003a, 166). Proprio l’analisi dei canoni del concilio di Valence sarà oggetto del prossimo paragrafo, al fine di mettere più chiaramente in evidenza il loro legame con la Visio. Quale che sia la datazione, 888 o 890, è possibile ipotizzare che questo testo abbia accompagnato l’entrata sulla scena politica di Ludovico di Provenza, resa probabile dai fatti di Kirchen dell’887, rimarcandone il pedigree e sottolineando anche le superiori qualità morali e di governo che lo accompagnavano “naturalmente”. Resta ora da vedere come tale appello sia stato colto al di fuori di Reims.
Da Reims a Valence
La campagna di promozione in favore di Ludovico raggiunse il suo obiettivo nell’agosto dell’890, con l’incoronazione regia da parte di un concilio di vescovi riunito a Valence. Erano presenti, in quella sede, Aureliano, arcivescovo di Lione, Rostagno, arcivescovo di Arles, Arnaldo, arcivescovo di Embrun e Bernoino, arcivescovo di Vienne [29]. Il regno di Ludovico ricalcava parzialmente quello che il padre Bosone aveva tentato di ricavare per sé, con la significativa differenza della perdita delle sue propaggini settentrionali: la Borgogna transgiurana, in mano ai Rodolfingi, e le contee di Macon e Autun, legate ai sovrani dei Franchi occidentali. Il nuovo regno finiva per ricoprire, essenzialmente, l’area del regno di Provenza come era stato pensato da Lotario I per il figlio Carlo. Ancora una volta, emergeva con chiarezza la rilevanza del lignaggio di Lotario: nella sua carriera politica, Ludovico di Provenza cercò di assicurarsi il controllo solamente di territori appartenuti ai figli di Lotario, come la Provenza e la Borgogna rodaniana di Carlo di Provenza, oltre che, negli anni successivi, la penisola italica di Ludovico II.
Le giustificazioni portate dal concilio di Valence si innestavano, in buona parte, nella scia della Visio Karoli Tertii. Il sovrano era presentato come “Lodovico nepote quondam Ludovici gloriosissimi imperatoris” [30] e, anche in questo caso, la sola discendenza da questa stirpe sembrava giustificare una superiorità rispetto a ogni altro candidato. Gli arcivescovi riuniti a Valence ritenevano che “nullus meius rex fieri debuisset, quam ille, qui ex prosapia imperiali prodens bonae puer indoli suam coadolescebat” [31]. È un’immagine molto interessante, che ricalcava l’apparizione mistica di Ludovico fanciullo a Carlo il Grosso nella parte finale della Visio. Il messaggio era chiaro: con una presentazione che sembrava evocare l’immagine di Cristo dodicenne al tempio (Luca 2,41-50), si voleva rispondere a ogni possibile critica sulla giovane età del sovrano: Ludovico discendeva da una stirpe talmente importante che aveva già mostrato in potenza tutte le capacità per governare meglio di chiunque altro. Altro elemento comune con la Visio era la volontà di suggerire un’idea di continuità tra Carlo il Grosso e Ludovico di Provenza. Se, nella Visio, vi era un ideale passaggio di consegne tra i due e Carlo veniva inserito nella linea imperiale che da Lotario portava al suo pronipote, nei canoni del concilio di Valence possiamo leggere come, a Ludovico, “praestantissimus Carolus imperator iam regiam concesserat dignitatem” [32]. Non solo la stirpe da cui il sovrano discendeva era così illustre e lo caricava già di talmente tanti meriti da essere il migliore re possibile, prima ancora di assumere la carica, ma egli era anche stato designato dall’ultimo imperatore carolingio per parte di padre, una legittimazione dalla forza straordinaria.
Si potrebbe, a questo punto, ipotizzare che, effettivamente, l’ipotesi di una datazione della stessa Visio all’anno 890, o comunque ai suoi immediati dintorni, sia la più verosimile: sebbene non siamo in grado di stabilire una specifica linea di continuità tra gli estensori dei due testi, la ripresa di forme di legittimazione affini sembra mostrare una certa risonanza. Tuttavia, altri elementi del concilio di Valence mi sembrano andare in un’altra direzione. In primo luogo, l’incoronazione di Ludovico era avvenuta con il consenso di Arnolfo, definito successore di Carlo il Grosso [33]. La Visio, come abbiamo visto, condannava tutto il lignaggio di Ludovico il Germanico, di cui Arnolfo faceva parte, ed era stata scritta dopo che l’idea di vedere quest’ultimo sul trono dei Franchi occidentali era tramontata. Mi sembra quindi improbabile che i due testi siano esattamente coevi. Inoltre, tra le fonti di legittimazione attribuite nei canoni di Valence a Ludovico vi è quella di essere “excellentissimus Bosonis regi filius” [34]. Invece, nonostante la riconciliazione di Kirchen dell’887, Bosone era un argomento tabù nella Visio. Era una figura che godeva di “pessima stampa” nel mondo carolingio (Staab 1998), e che poteva offrire qualche forma di legittimità solo nel contesto provenzale, dove lo si era eletto sovrano. Mi sembra, quindi, più probabile retrodatare la Visio all’estate 888, seguendo Dutton, e motivare una sua eventuale ripresa a Valence con la precoce diffusione del testo, oltre che con l’idea di una comunità intellettuale carolingia intrisa di riferimenti comuni, che poteva facilmente ricorrere agli stessi schemi.
Prima di osservare Ludovico all’opera come sovrano, vorrei mettere in luce alcuni altri elementi che, secondo i canoni di Valence, concorrono alla sua legittimazione. In primo luogo, mi sembra possibile comprendere, almeno parzialmente, alcune delle migliori qualità riconosciute alla discendenza di Lotario. All’inizio degli atti del concilio viene infatti spiegato come, nell’assenza di un sovrano, “ex una parte Normanni cunta penitus devastantes insistebant, ex alia vero Sarrazeni Provinciam depopulantes terram in solitudinem redigebant” [35]. Non insisto, in questa sede, sull’esagerazione retorica che gli scrittori ecclesiastici latini hanno fatto delle scorrerie saracene e normanne, soprattutto in Provenza (Lauwers 2015); tuttavia, è impossibile non connettere la necessità di difendersi da queste invasioni ai successi di Lotario I e Ludovico II nelle loro campagne contro i Saraceni in Italia. Possiamo considerare, per esempio, la reazione dei due sovrani agli eventi dell’846, quando un’armata di Saraceni risalì il Tevere e saccheggiò la basilica di San Pietro [36]. Lotario, incontratosi con Ludovico, organizzò una grande spedizione contro i Saraceni, che prevedeva contingenti di truppe non solo italiche, ma anche transalpine. In occasione di questo incontro, alla metà dell’847 [37], fu emanato il Capitulare de expeditione contra Sarracenos facienda [38]. È importante notare come a questa impresa avessero partecipato anche numerosi aristocratici provenzali e la memoria di tale campagna, rivelatasi un successo, poteva ancora circolare a livello locale. Inoltre, nei decenni seguenti, Ludovico II condurrà, dopo la morte del padre, numerose campagne nell’Italia meridionale, arrivando a conquistare l’intero territorio dell’Emirato di Bari (Zornetta 2020, 231-265). È possibile, quindi, che Lotario e Ludovico II fossero noti come sovrani particolarmente efficaci nella lotta contro i Saraceni e ciò avrebbe costituito un’ulteriore fonte di legittimazione per un loro discendente. È indispensabile, inoltre, focalizzare meglio il ruolo della madre di Ludovico, Ermengarda. Come abbiamo già visto, era stata Ermengarda la figura centrale nella riconciliazione di Kirchen e il suo ruolo non fu taciuto neanche a Valence, dove si affermò che “Hyrmengardis gloriosissime reginae” doveva supportare il giovane sovrano. Se il potere delle regine nel mondo carolingio è stato chiaramente messo in luce dalla storiografia (La Rocca 2007; MacLean 2003b), mi sembra che la relazione tra Ermengarda e il figlio, in virtù anche della sua giovane età, possa essere simile a quella di un consortium regni (La Rocca 2012). D’altra parte, vista la morte di quasi tutti i maschi della famiglia carolingia, il potere delle discendenti femminili di Carlo Magno era rinforzato dall’essere rimaste uniche portatrici del sangue reale e, di conseguenza, di una legittimazione che giocava, come abbiamo visto, un ruolo chiave nei confronti di quei sovrani, come Oddone o Rodolfo di Borgogna, che non potevano rivendicare alcuna parentela con i Carolingi. Tale ipotesi sembra essere confermata dagli atti relativi ai primi anni di regno di Ludovico [39]: nei primi tre diplomi giunti fino a noi emessi dal sovrano, Ermengarda figura sempre come intermediaria o responsabile della concessione oggetto dell’atto, partecipando attivamente al governo imperiale [40]. Dopo l’894, invece, Ludovico sembra muoversi con maggiore autonomia, attuando una propria politica prima provenzale e poi italiana, accrescendo progressivamente la propria base di consenso e introducendo nuove strategie di legittimazione.
Dalla valle del Rodano a quella del Po
Le strategie di legittimazione ricostruite fino a ora sembrarono funzionare e il sovrano, ormai non più un fanciullo, assunse il controllo del suo regno in piena autonomia a partire dall’894. Le sue azioni e i suoi diplomi, da questo momento, sono in grado di mostrarci il consolidamento della sua presa sul regno di Provenza, che si rivelò talmente proficua da permettere a Ludovico di ottenere, per un breve periodo, la corona italica e quella imperiale, tra 900 e 901. Il primo campo di azione di Ludovico fu la media e bassa valle del Rodano. Il regno di Provenza, per come era stato pensato da Lotario per il figlio Carlo e dallo stesso Bosone, aveva i suoi centri di potere essenzialmente attorno ai due poli di Vienne e Lione e veniva, quindi, governato a partire dai territori settentrionali borgognoni. I sovrani e i principali potentes del regno risiedevano quasi esclusivamente nella Borgogna rodaniana e gli stessi beni fiscali riguardavano principalmente quell’area. Con Ludovico e, in particolare, con la sua “discesa a valle dell’896”, le cose cambiarono: il sovrano emanò diversi diplomi per destinatari meridionali, essendo fisicamente presente nella bassa valle del Rodano. Il vescovo Amelio di Uzès beneficiò di un primo diploma, datato Orange 896, che prevedeva la restituzione di diverse chiese con tutte le pertinenze in città o nei paraggi di Uzès e “duabus partibus de fisco Milciano ad nos pertinentibus, cum omnibus appenditiis” [41]. Purtroppo, in assenza di altri documenti, è difficile localizzare il fisco Milciano, ma è probabile che anch’esso, come tutte le chiese menzionate, si trovasse non molto lontano da Uzès. In seguito, abbiamo la donazione alla chiesa di Apt del luogo detto Monasteriolo con le due chiese di San Pietro e San Martino, delle terre, delle vigne, dei mancipia e tutte le pertinenze, sancita con un diploma emanato a Carpentras [42] e la conferma all’abbazia di Saint-Philibert di Tournus del possesso dell’abbazia di Donzère, ricevuta in precedenza per sfuggire ai Normanni [43], emanata in una villa del comitato di Avignone. Nell’898, Ludovico si trovava ancora una volta ad Avignone, una città a cui prestò particolare attenzione, e concesse, su richiesta dell’arcivescovo di Arles, dei beni nel comitato di Vaison al prete Raimondo [44]. Ludovico espanse, quindi, il fisco regio verso la bassa valle del Rodano, ampliò le relazioni con gli enti meridionali e aumentò la sua presenza sul territorio, proiettando su quest’area le pratiche di presenza fisiche e simboliche tipiche della regalità carolingia (Gravel 2012) che, in precedenza, erano riservate all’area di Vienne e Lione.
Questa azione non implicò un abbandono della Borgogna rodaniana, che fu, al contrario, esaltata ulteriormente dal sovrano, sulla scia di quanto fatto da Bosone. In particolare, Vienne diventò per Ludovico una vera capitale, sul modello di Aquisgrana per Carlo Magno: non solo vi risiedette abitualmente, ma l’arcivescovo di Vienne divenne uno dei suoi più fidi consiglieri, oltre che il responsabile della cancelleria e, nella cattedrale di San Maurizio, Ludovico fece seppellire entrambi i suoi genitori (Nimmegeers 2014, 72). Proprio il legame con il culto mauriziano merita particolare attenzione: la città di Vienne, come mostrato da Laurent Ripart, aveva iniziato nel IX secolo a rivendicare una forte associazione con questo culto: la testa tagliata di Maurizio, infatti, sarebbe rotolata nel Rodano per esser in seguito provvidenzialmente raccolta sulle sponde del fiume a Vienne e venire conservata nella cattedrale cittadina (Ripart 2002, 220). Questa tradizione fu alimentata da Bosone stesso, il quale commissionò la produzione di una testa-reliquario dedicata a San Maurizio [45]. La rilevanza posta sulla testa del santo si poneva evidentemente in chiara competizione con la tomba di Maurizio che si trovava ad Agaune, luogo simbolico fondamentale per la confinante dinastia dei Rodolfingi. L’associazione con il culto di San Maurizio, promossa già da Bosone e portata avanti da Ludovico, era quindi parte di un’altra strategia di legittimazione, che ambiva a sottrarre ai Rodolfingi il monopolio su un santo importante nell’area alpina e del Giura come Maurizio. Ludovico, dunque, si dimostrò capace di organizzare il regno su un modello carolingio chiaramente funzionante: una capitale densa di significato memoriale e cultuale, un bacino fiscale ampio lungo la valle del Rodano, fideles distribuiti in tutto il regno, ricompensati con numerosi diplomi, che quindi garantirono fedeltà e stabilità territoriale. In sostanza, il contesto perfetto per un tentativo di espansione o, quanto meno, per tentare di inserirsi ulteriormente nella scia dei suoi avi Lotario I e Ludovico II.
È a questo punto che, nel 900, il sovrano calò in armi in Italia, dove sconfisse Berengario del Friuli, che governava in quel momento, non senza difficoltà, la penisola. Nel 901, Ludovico fu incoronato imperatore da papa Benedetto IV. Contemporaneamente, il sovrano sposò Anna, figlia di Leone VI, imperatore di Bisanzio, da cui ebbe anche un figlio, il cui nome era un chiaro programma politico: Carlo Costantino [46]. Tuttavia, la guerra latente con Berengario, che poteva vantare il sostegno di parte dell’aristocrazia italica, si riaccese con forza e portò alla cattura e all’accecamento di Ludovico nel 905, con il suo definitivo ritorno in Provenza [47]. Per quanto riguarda le pratiche di legittimazione, Ludovico era ormai un adulto a tutti gli effetti, non più il fanciullo miracoloso dal sangue imperiale e, in Italia, introdusse dei nuovi elementi che servivano a indicarlo non solo in potenza, ma in atto, come il migliore dei sovrani possibili. Ancora una volta, a essere esaltata fu la sua capacità di combattere contro i pagani, in questo caso gli Ungari, e di saper porre rimedio alle loro devastazioni. Questa scelta dipese, probabilmente, dalle difficoltà che Berengario aveva avuto nel gestire le scorrerie degli Ungari o, almeno, era quello che due diplomi di Ludovico III lasciavano intendere. Il primo diploma, concesso il 23 marzo 901 in favore della Chiesa di Vercelli, indicava come dovere imperiale la cura dei possedimenti vercellesi, devastati dalla “persecutione et incendiis Ungarorum” [48]. Nel secondo, emanato a Pavia solo due giorni dopo, il 25 marzo 901, era menzionato il “tempore nephande persecutionis Ungarorum” che aveva colpito la chiesa di Bergamo e i suoi possedimenti [49], a cui il sovrano poneva rimedio in quel momento. Il messaggio era piuttosto chiaro: dove Berengario aveva fallito, il nuovo sovrano era in grado di intervenire in modo risolutivo. Inoltre, come nella valle del Rodano, Ludovico stabilì nuove relazioni, testimoniate sempre dai diplomi, con i potenti laici ed ecclesiastici lungo il corso del Po, punto nevralgico del Regnum Italiae (Bougard 2015), oltre che in Tuscia, e frequentò i luoghi regi della penisola: Pavia, la capitale storica di Longobardi e Carolingi, Corteolona, Piacenza… [50]. Particolarmente rilevante mi sembra essere il primo dei diplomi italici di Ludovico, emanato a Pavia nel 900, in favore dell’imperatrice Ageltrude, vedova di Guido di Spoleto. Come sottolinea Paola Guglielmotti, questo atto «è il chiaro segno di un riconoscimento reciproco e di una comune appartenenza al fronte che si oppone a Berengario» (Guglielmotti 2012, 179). Oltre al sostegno materiale, vi era in questo atto una dimensione simbolica: essere riconosciuto da un’imperatrice vedova come legittimo sovrano rinforzava le pretese sul trono imperiale di Ludovico. Analogo discorso valeva per il matrimonio con la principessa bizantina Anna e la nascita del figlio Carlo Costantino, che partecipavano in maniera nuova all’inserimento di Ludovico e della sua stirpe nella scia dei “migliori” dopo l’incoronazione imperiale. Il nuovo imperatore, da “semplice” aristocratico, era così elevato al livello degli imperatori romani d’Oriente e dava al figlio i nomi dei due imperatori più santi e potenti della storia: Carlo e Costantino. La fine tragica della campagna d’Italia non deve, in questo senso, celare i risultati ottenuti da Ludovico. La sua ascesa fu, infatti, folgorante: riorganizzò un regno (quello di Provenza) e si appropriò di un trono (quello italico) in solo dieci anni, mentre l’undicesimo ottenne la corona imperiale. Si può ben dire che le pratiche e le strategie di legittimazione dettero sicuramente i loro frutti.
Conclusioni
Fu lo stesso Ludovico a vedere nell’incoronazione imperiale l’apice della sua carriera politica. Nella notitia iudicati relativa a un’assemblea tenutasi a Roma nel febbraio del 901, poco dopo il compimento di quello che la Visio Karoli preannunciava essere il suo destino, la figura imperiale viene esaltata. L’atto si apre presentando il sovrano in armonia e col consenso dei principali potentes, ecclesiastici e laici, del suo regno:
dum domnus Ludovuicus serenissimus imperator augustus a regale dignitate Romani ad sumum imperialis culminis apicem per sanctisimam hac ter beatissimam sumi pontificis et universalis pape domni Benedicti dexteram advenisset adque cum eodem reverentissimo patre cum sanctisimis Romanis seu Italicis episcopis adque regni sui ducibus et comitibus ceterisque principibus ac iudicibus.
I potentes sono indicati per nome, uno per uno, nel dispositivo del documento [51]. Questo atto è particolarmente importante perché ci mostra le reti relazionali italiche a sostegno delle pretese di Ludovico. L’apice della regalità di Ludovico si manifestò in San Pietro davanti a tutti i grandi del regno, laici ed ecclesiastici, secondo un canone tipico dell’età carolingia, che mirava a utilizzare l’unanimità nei concili e nei sinodi come elemento di legittimazione (La Rocca e Veronese 2017). Un’altra strategia, questa, che si aggiungeva a tutte quelle che sono state delineate in questo articolo.
Se l’ascesa al trono imperiale si rivelò essere, nel giro di pochi anni, l’inizio della fine del regno di Ludovico in Italia, essa però dimostrò anche che, utilizzando pratiche di legittimazione varie ed eterogenee, l’ascesa a un trono, regio o imperiale, era possibile tra la fine del IX e l’inizio del X secolo. Tali strategie, come mostrano la Visio Karoli, i canoni del concilio di Valence e i diplomi di Ludovico, più che sulla distruzione degli avversari, si basavano su complessi argomenti retorici, affinati nel colto ambiente politico del mondo carolingio della seconda metà del IX secolo, che esaltavano i sovrani, mostrandoli come “i migliori re possibili”, non solo per discendenza a cui appartenevano, ma anche per i meriti dei singoli sovrani nel combattere contro i pagani, per la devozione nei confronti di santi particolarmente significativi, oltre che per la loro generosità e riconoscenza nei confronti dei propri fideles e per la presenza fisica e simbolica sul territorio. Naturalmente, se in questo contributo si è cercato di prendere in esame il punto di vista di Ludovico e del suo entourage, restano da sviluppare e analizzare più a fondo le sue reti relazionali, provenzali quanto italiche. È da queste, oltre che dall’azione dei sovrani, che dipendevano le alterne fortune dei vari pretendenti al trono regio e imperiale che si confrontavano tra IX e X secolo ed è nello studio di queste reti che, una volta abbandonata l’idea del “secolo di ferro” e dell’anarchia feudale, la ricerca può ancora rivelarsi feconda. In conclusione, l’esempio di Ludovico, epurato da una visione finalistica condizionata dal suo esito drammatico e violento, ci mostra, di conseguenza, più che il dominio del ferro e del sangue, quello della retorica e della finezza politica e diplomatica, strumenti di rapida ascesa e altrettanto rovinosa discesa in un mondo in costante mutamento.
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- –, 2013. “Stratégies matrimoniales en question. Quelques unions atypiques dans les royaumes carolingiens aux IXe-XIe siècles”. In Les stratégies matrimoniales (IXe - XIIIe siècle), a cura di Martin Aurell, 49-76. Turnhout: Brepols.
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- West, Charles. 2023. The Fall of a Carolingian Kingdom: Lotharingia 855-869. Toronto: University of Toronto Press.
- Zornetta, Giulia. 2020. Italia meridionale longobarda. Competizione, conflitto e potere politico a Benevento (secoli VIII-IX). Roma: Viella.
Note
1. È quanto hanno messo in luce, analizzando diversi casi specifici, Demotz 2012; MacLean 2003a; Rosenwein 1996 e West 2023.
2. Su questo punto rimando alla celebre XXXVIII Settimana di studio sull’alto Medioevo di Spoleto (Il secolo di ferro. Mito e realtà del secolo X 1991).
3. Si tratta del programma strutturante dell’École française de Rome, Repenser le Xe siècle au prisme des territoires: régulations et résistances dans une Europe en reformation (870-1000).
4. Anche chi ha volto lo sguardo al regno di Provenza in età carolingia dopo Poupardin lo ha fatto soprattutto per criticare le prospettive di quest’ultimo (Bautier 1973), tralasciando una pars costruens ancora essenzialmente da fare. Anche l’importante analisi di Jean-Pierre Poly (1976), per quanto ricca di significative considerazioni in ambito documentario, utilizza in maniera essenzialmente strumentale l’età carolingia: essa risulta essere significativa solo come periodo di disordine e rottura degli equilibri istituzionali e sociali, preludio indispensabile per lo sviluppo delle strutture feudali nel Midi. Le basi per una nuova comprensione della storia della Provenza in età carolingia sono state lanciate da Florian Mazel, soprattutto per quanto riguarda l’importanza del quadro politico della Francia Media per la regione (Mazel 2011).
5. Ringrazio sentitamente Giacomo Vignodelli, parlando con il quale è nato lo spunto per approfondire il tema della Visio Karoli Tertii.
6. Per una più dettagliata ricostruzione di questa fase storica rimando a Costambeys, Innes, e MacLean 2011, 419-427.
7. MGH, Capit. I, n. 136, 270-273.
8. MGH, Capit. II, n. 284, 365-369.
9. Su Carlo il Grosso e la sua ascesa rimando alla dettagliata monografia di Simon MacLean (2003a).
10. Il caso del divorzio di Lotario II (Airlie 1998; West 2023) è una dimostrazione particolarmente eloquente delle difficoltà di un percorso di legittimazione di questo genere che, ciononostante, appariva a Carlo il Grosso come l’unica soluzione praticabile.
11. MGH, AF (continuazione bavarese), a. 887, 115.
12. MGH DD Ka III, n. 165-166, 266-270.
13. MGH DD Ka III, n. 165, 268.
14. MGH DD Ka III, n. 166, 269.
15. Saint-Omer. Bibliothèque d’agglomération, Ms. 764, ff. 29 v-31v.
16. MGH, Flodoardo, IV, 555-567. Oddone è presentato come un tiranno e come totalmente estraneo da ogni legame di parentela con i Carolingi.
17. VK, 145.
18. VK, 145.
19. VK, 146.
20. VK, 147.
21. Questa insistenza su San Remigio è uno degli elementi che ha contribuito a collocare la produzione della Visio nell’ambiente di Reims, città di cui il santo è patrono e a cui è dedicato un importante e ricco monastero.
22. VK, p. 147.
23. VK, p. 148.
24. MGH, Chronicon, a. 892, 605.
25. MGH, Flodoardo, III, 343.
26. MGH, Flodoardo, III, 345.
27. MGH, Flodoardo, III, 277.
28. RARP, XLIII, pp. 80-81. Su questo punto cfr. Poly 1976, 84-85.
29. MGH, Capit. II, n. 289, 376-377.
30. MGH, Capit. II, n. 289, p. 377.
31. MGH, Capit. II, n. 289, p. 377.
32. MGH, Capit. II, n. 289, p. 377.
33. MGH, Capit. II, n. 289, p. 377.
34. MGH, Capit. II, n. 289, p. 377.
35. MGH, Capit. II, n. 289, p. 377.
36. La circostanza è riportata da diverse fonti: MGH, AB, a. 846, 442; AF, a. 846, 365, AX, a 846, 15-16 e ovviamente il Liber Pontificalis che vi dedica uno spazio cospicuo (Liber Pontificalis, Sergius II, 100-101).
37. Il documento che riporta l’assemblea è datato dagli editori degli MGH all’ottobre 846 ma, come registra Maria Schäpers (2018, 493), una datazione alla metà dell’847 è molto più verosimile.
38. MGH, Capit. II, n. 203, 65-68.
39. RARP, XXVIII, XXIX, XXX, 49-57.
40. Il ricorso alla legittimazione dinastica per via femminile non è sicuramente un elemento che può vantare il solo Ludovico. Basti pensare al caso di Berengario I, nipote di Carlo il Calvo per parte materna, che è il principale rivale di Ludovico per il trono italico. È per questa ragione che, nella competizione tra i due, l’elemento dinastico non gioca un ruolo così forte, ma appare quasi essere il presupposto per potere vantare delle pretese sul Regnum. Per una discussione più estesa del ruolo di Ermengarda rimando, ringraziandola per avermelo fatto leggere in anteprima, al contributo di Roberta Cimino in uscita nel volume Figli delle donne (2024).
41. RARP, XXXIV, 62-64.
42. RARP, XXXIII, 61-62.
43. RARP, XXXII, 59-60.
44. RARP, XXXVI, 67-68.
45. Per il legame tra Bosonidi e culto di San Maurizio rinvio alla più dettagliata trattazione di Nimmegeers 2014, 278-280. Lo stesso Ludovico sarà poi sepolto nella cattedrale.
46. La carriera di Carlo Costantino non sarà altisonante quanto il suo nome e non ha lasciato grandi tracce. Come rileva Bougard, egli appare solamente come conte di Vienne, a partire dal 927 e alcuni storici (Kresten 2000) hanno perfino messo in dubbio l’effettiva esistenza del matrimonio con Anna, ipotesi respinta dall’autore (Bougard 2022, 131), seguendo Settipani 2006, 286-307; 2013, 50-55.
47. Le fonti principali sono i Gesta Berengarii (lib. IV, vv. 1-88, 79-85) e l’Antapodosis (lib. II, §§ 32-41, 121-131). Su questo tema si veda anche Albertoni 2016 e Bougard 2022, 121-136.
48. DD Lu III, X, p. 32.
49. DD Lu III, XI, p. 35.
50. I primissimi diplomi di Ludovico per destinatari italici sono particolarmente eloquenti rispetto a questo orientamento (DD Lu III, I-V, pp. 3-18). Piacenza ha un ruolo simbolico rilevante per Ludovico in quanto sede del monastero di San Sisto, fondato da Angelberga, moglie di Ludovico II, che ne tramanda la memoria.
51. DD Lu III, VI, p. 19.