Potrebbe sembrare un instant book sugli effetti dell’ennesima vittoria elettorale di Berlusconi questo libro di una delle firme straniere più presenti sulla stampa italiana. In effetti, la riflessione di Marc Lazar tratta in modo particolareggiato il presente della democrazia nel nostro paese. Ma l’attualità è osservata con lo sguardo accorto e lucido dello scienziato della politica e insieme dello storico rivolto alle vicende dell’Italia repubblicana.
L’Italia va verso il nuovo? Questa è la domanda centrale. Per rispondere alla quale – secondo l’a. – bisogna accantonare il noto adagio del Gattopardo: l’Italia che «cambia per non cambiare in un ciclo continuo». La sostanza della modernità italiana starebbe nel fatto che «l’irruzione dell’innovazione e del nuovo è legata indissolubilmente alla persistenza della tradizione e del vecchio». La propensione degli italiani per questa «modernità tradizionale» (p. 17) sarebbe la chiave di volta per capirne la sintonia con Berlusconi, «nuovo araldo di una modernizzazione tradizionale» (p. 99). Il condizionale è d’obbligo, considerata la mancanza di un panorama di studi esaustivo sulle vicende storiche più recenti. Ma la tesi è potenzialmente feconda.
È feconda innanzitutto perché, sulla scorta della più aggiornata letteratura politologica e storiografica italiana ed estera, Lazar svolge la sua analisi riconoscendo che «temi come l’“anomalia italiana”, la “democrazia imperfetta” o la “patologia” della politica della penisola non dipendono da un luogo comune riproposto da giornalisti frettolosi» (p. 139). E, allo stesso tempo, non rinuncia mai al confronto con le altre società occidentali e in particolare con quello che sembrerebbe il termine di paragone più improbabile sotto il profilo della compattezza nazionale e della maturità democratica, la Francia. Cosicché egli cerca – come Raymond Aron di fronte alla crisi francese tra IV e V Repubblica – di «identificare “l’immuable et changeant”» nella loro coesistenza (p. 19).
Questa ottica comparativa fa apparire attendibile l’utilizzo di una categoria ‘pesante’ e destinata a far discutere come quella di «guerra civile». Con essa, in un’accezione estensiva, «si indica che all’interno di una stessa nazione vi sono fratture profonde e ricorrenti, rivalità esacerbate, opposizioni indomabili fra due schieramenti che portano a negare alla fazione opposta ogni legittimità di governare, legiferare e incarnare l’unità stessa del paese». Una guerra civile «simbolica, potenziale, metaforica, sempre a un passo dal degenerare in guerra civile concreta» (p. 114). Proprio Oltralpe questi fenomeni sono così conosciuti da aver dato luogo ad una specifica storiografia.
Non è ancora così in Italia, dove – durante l’età repubblicana – si sarebbero visti tre momenti di guerra civile simbolica: l’inizio della guerra fredda, tra gli anni ’40 e i ’50; gli anni di piombo, ’60-70; l’ultimo decennio, inaugurato dall’ingresso in politica di Berlusconi. A ciascuno di essi lo studioso francese dedica una breve disamina che meriterebbe una verifica più approfondita, ma che intanto mette in luce con credibilità la persistenza carsica di questa «forma di arte della politica, tipica della grammatica del cambiamento dell’Italia» (p. 102).
La fecondità dello schema interpretativo proposto da Lazar è riscontrabile anche nell’accento posto sugli innegabili aspetti di novità della vita politica nazionale (l’alternanza più o meno regolare di governo; i cambiamenti nelle forme organizzative dei partiti; la personalizzazione, il presidenzialismo, la mediatizzazione, la fine delle grandi ideologie, ecc.) e sull’«enfasi continua sul timore del peggio», quella reciproca paura del fascismo o del comunismo che «rappresenta forse uno dei motori della politica italiana» (p. 165), o meglio – e non è un aspettto secondario in una società mediatizzata – la sua rappresentazione teatrale.