Insieme con Andrea Gamberini e un certo numero di amici e colleghi, tra il 2010 e il 2012, mi sono accinta a pubblicare un libro sullo Stato italiano nel Rinascimento in inglese, The Italian Renaissance State. Un libro per lo più scritto da italiani in italiano e tradotto in inglese da un gruppo di traduttori professionisti o di storici familiari con entrambe le lingue, riletto da colleghi anglofoni e attentamente edito da un copyeditor professionista. Può aggiungere un qualche interesse alla vicenda il fatto che la versione online di quel mio intervento appare allorché lo stesso testo esce a stampa in italiano (Lo Stato del Rinascimento in Italia. 1350-1520). Questa seconda operazione culturale, non prevista all’inizio dell’impresa, ha comportato che i saggi inizialmente scritti in italiano siano stati recuperati nella loro forma originaria, mentre i pochi testi direttamente scritti in inglese sono stati tradotti in italiano, vuoi dagli autori quando italiani, vuoi da me, con la sola eccezione del saggio di Michael Knapton, inglese di cultura ma italiano di adozione. Un multiplo giuoco di specchi.
Questa avventura può prestarsi a fornire materiale per una riflessione su di un fascio di operazioni culturali interessanti: al di là dell’occasione, il seminario torinese mi ha infatti offerto l’opportunità di riflettere sia sui significati, le strategie e le tecniche della traduzione in un duplice senso di traduzione linguistico-lessicale e più propriamente culturale, sia sulle forme in cui le diverse tradizioni – culturali e storiografiche – vengono in contatto grazie a, o senza il bisogno di, una aperta mediazione linguistica. Da qui il titolo lessicalmente un poco compiaciuto "traduzione/tradizione", che tra l’altro, come ci insegna Folena, è un giuoco linguistico che viene davvero bene solo nelle lingue romanze. Le mie sparse considerazioni si articolano in tre punti: il peso dei concetti – dei building blocks – su cui si costruisce in questo caso lo specifico discorso storico sul Rinascimento; il peso dell’interpretazione storiografica – la tradizione – di questo discorso storico; il peso infine delle varie mani possibili della sua traduzione in lingue diverse, in questo caso l’italiano e l’inglese.
Come già in occasione del seminario, ancor più in questa sede è necessario premettere che il testo che segue è frutto di una serie di riflessioni a vario grado "ateoretiche": a esse deliberatamente non è stata data alcuna veste più finita, intendendole piuttosto come un invito a una discussione al tempo stesso sostanziale ma non antologica. Io infatti non sono direttamente esperta né di traduzioni né di tradizioni, non essendo né un traduttore professionale o uno studioso di teoria della traduzione, né uno storico della storiografia. Di fronte a entrambi i campi mi pongo dunque in questa occasione in modo deliberatamente artigianale. In questa direzione, mi pare utile ricordare un aneddoto che propongo come una sorta di antidoto: non contro la serietà necessaria della riflessione su questi temi, ma contro ogni sua potenziale rigidezza. Il volume The Italian Renaissance State nasceva dalla volontà di presentare una sintesi degli sviluppi più recenti e innovativi della storiografia italiana sul complesso insieme di attori e dinamiche politiche che agiscono in Italia tra la metà del Trecento e il primo Cinquecento. Un testo simile era destinato a un pubblico potenzialmente più vasto dei lettori in grado di comprendere l’italiano, il cui numero sta diminuendo anche in paesi, come quelli angloamericani, connotati da una ricca tradizione di ricerca e di familiarità con la cultura italiana. In questo senso, i quasi vent’anni che separano questo volume da un suo illustre predecessore, la raccolta curata da Giorgio Chittolini, Anthony Molho e Pierangelo Schiera nel 1994/6 dedicata alle origini dello Stato e nata dalla conferenza di Chicago segnano, per inciso, un cambiamento a mio parere significativo: quello era il prodotto di una riflessione intenzionalmente comune tra le due storiografie, e il volume venne pensato e pubblicato sin dall’inizio nelle due lingue (Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, 1994 e The Origins of the State in Italy. 1300-1600, 1996). Anche in quel caso peraltro, vale la pena notare, già i due titoli rivelavano linee di frattura interessanti. In ogni caso, tornando al volume del 2012, il titolo inglese propone al potenziale lettore una lettura forte e riconoscibile del processo storico considerato, prendendo di petto tre questioni cruciali della storiografia italiana e insieme anglofona, il "Rinascimento", lo "Stato", "l'Italia”. In realtà, il titolo che avevamo proposto Gamberini e io a Cambridge University Press era The Renaissance State Revised: Italy, 1350-1520. Le differenze saltano agli occhi: il titolo originario era molto "italiano" nel suo senso migliore, vale a dire più interlocutorio, più storiografico, più sfumato. La casa editrice inglese non lo ha ritenuto efficace e ci ha suggerito quello definitivo, che propone una definizione "semplice" e di richiamo, senza retroterra storiografico né delimitazione cronologica, senza soprattutto il senso del faticoso costruirsi di un oggetto storico "inquieto". La versione italiana – non senza riflessioni e ripensamenti – alla fine mantiene la solidità del titolo inglese, con due varianti: lo Stato italiano del Rinascimento diventa lo Stato del Rinascimento in Italia – suggerendo che lo Stato del Rinascimento sia una combinazione di elementi fondativi che possono trovare applicazioni differenti altrove – e torna la precisione cronologica.
Non è che un aneddoto, ma un aneddoto rivelatore: enfatizza infatti sia la duratura tirannide dei concetti che si vogliono autoevidenti, sia la loro natura formulare; rivela anche, forse meno piacevolmente, l’esistenza di condizionamenti il cui tener conto ci spinge – come accademici – verso una sorta di disconfort zone che fa a sua volta riflettere.
Di Rinascimento, Stato, Italia: il peso dei concetti
Un’operazione culturale comunque complessa come la traduzione scientifica di un volume unitario composto da saggi di vari autori da parte di vari traduttori, vale a dire una traduzione a più voci su entrambi i livelli dell’autorialità e della professionalità, rende evidente il peso di elementi condizionanti di lunga durata e la loro disomogeneità: concetti e tradizioni cioè si rivelano non tanto limiti, ma legati di cui essere consapevoli è euristicamente indispensabile.
Non è mia intenzione in questa sede inoltrarmi in una storia benché minima di concetti pesanti come Rinascimento, Stato, Italia, ma soltanto riconoscerne, banalmente o persino superficialmente, sia il peso, sia la diversa natura. Si tratta infatti di concetti complessi, dalla stratigrafia multipla e soggetta a moti sovente interferenti di creazione, trasmissione, ricezione, contaminazione su scale cronologiche diverse sia per gli autori, sia per i traduttori. Sono concetti che hanno una identità "originaria" – in un contesto generale, poco suona più italiano del Rinascimento – grazie alla quale scatta, e non solo nel pubblico dei non specialisti, il giuoco dell’appropriazione – per analogia o contrasto – e del riuso: quanti sono i rinascimenti, storici e metaforici, nel tempo e nello spazio? Anche solo la storia del termine che traduce il concetto nelle diverse lingue crea categorie e distinzioni, contaminazioni e canali: il francese e lo spagnolo, a contatto diretto con l’italiano del Cinquecento, ne elaborano due versioni, Renaissance e Renacimiento; per altre storie e altre vie la parola francese diviene culturalmente egemone per le lingue non romanze. Sono altrimenti concetti pesanti che non sono legati a una connotazione originaria, né storica né linguistica, ma che derivano da una lenta trasformazione di senso, come "Stato". Sono infine concetti "identitari" come Italia, che di fatto non generano ambiguità di traduzione, ma che non per questo sono immediatamente e omogeneamente intelligibili ai più, ma che anzi proprio per la copertura "geolinguistica" si aprono a una varietà considerevole di interpretazioni e di narrazioni, tanto da lasciare talora spazio a termini più neutri, come "la penisola".
Si tratta dunque di concetti pesanti, la cui polisemia nel caso di r/Rinascimento e di s/Stato viene rivelata anche dalla scelta di maiuscola e minuscola nel loro uso. Su di essi una vera e propria selezione di senso viene più o meno consciamente compiuta da autori, traduttori, lettori al momento dell’uso nella propria lingua madre da parte di tutti e continuativamente, e nella lingua di destinazione, occasionalmente e a diversi gradi di profondità. Un’analisi seria del problema di come trattarli necessiterebbe dunque di una indagine stratigrafica in diverse direzioni, nel passato storico, linguistico e storiografico della lingua di partenza e possibilmente nel passato storico, linguistico e storiografico della lingua di destinazione. D’altro canto, tutti compiamo questa serie di operazioni quotidianamente sia in modo passivo, vale a dire leggendo testi in un’altra lingua, sia – eventualmente – in modo attivo, parlando e scrivendo direttamente in un’altra lingua dalla nostra. Il tutto senza dimenticare il dimorfismo originario e prevalente della cultura linguistica europea, per tacere del suo polimorfismo pratico fra lingue "vive", e il ruolo di un latino che, seppure lingua senza una comunità di parlanti, o in cerca di una comunità di parlanti, funse da filtro sia nel forzare in origine in un determinato alfabeto lingue diverse, sia nel veicolare – una volta di più linguisticamente e culturalmente – concetti comuni.
Della tradizione: il peso delle storiografie
I concetti pesanti di cui si diceva sperimentano un primo livello di "traduzione" reciproca di natura storiografica. Rinascimento, Stato, l’idea stessa di un concetto di identità "italiana" più o meno unitaria, più o meno condivisa già in età cui a questa identità non corrispondeva un organismo costituzionalmente unitario di qualche tipo, si colmano di significati diversi nei diversi tempi e nelle diverse tradizioni storiografiche.
In particolare nei confronti con la tradizione angloamericana che rappresenta in questo caso il contesto di riferimento (opero consapevolmente e per comodità una indebita reductio ad unum di una realtà multipla e in molti casi angloamericana d’adozione: si pensi a Burckhardt, Warburg, Baron), è emerso con evidenza il peso di alcuni interessanti continental divides. Innanzitutto il permanere strutturale nella visione angloamericana di un legame originario e ineludibile al punto di essere talora squilibrato fra un Rinascimento politico e un Rinascimento culturale/artistico, che nella tradizione italiana anche più recente risulta diversamente calibrato in favore dei suoi aspetti più mediatamente politici (come nel percolare dell’umanesimo nei linguaggi politici). In secondo luogo, la perdurante difficoltà di disinnescare il legame genetico fra Rinascimento e alcuni, specifici luoghi o modelli del politico: Firenze prima di tutto (anche a causa del peso "culturale" del Rinascimento cui si accennava sopra) o – sulla scia di Burckhardt – il principe di matrice machiavelliana (e quindi, di nuovo, in qualche modo si torna a Firenze). Ne risulta la residua difficoltà di riconoscere un significato forte all’idea di Italia del Rinascimento, o – meglio – di un Rinascimento politico "italiano", frutto cioè dell’interagire dei diversi protagonisti peninsulari, primi fra tutti i regni aragonesi e quindi, da ultimo, della complessità dei processi politici di questa età e in particolare – superato il condizionamento della "fiorentinità" – dei rapporti fra l’italianità e la "non-italianità" del Rinascimento come fenomeno politico a monte del crinale epocale delle guerre d’Italia e della formulare estensione europea della cultura italiana. Ultimo divide, il Rinascimento come fenomeno squisitamente urbano, come urbana era l’originalità italiana precedente, quella comunale: e come quella, fenomeno proprio ad alcune città e non a tutte; come diretta seppur parziale conseguenza, il legame fra il Rinascimento, la repubblica per eccellenza, Firenze, e le radici del repubblicanesimo e del liberalismo occidentali.
Il tutto nel contesto di una irriducibile dicotomia – in qualche caso fondativa: come per la diplomazia, figlia funzionale della disfunzione – fra la "modernità" di alcuni tratti del sistema (cultura, diplomazia, economia) e l’inefficacia di altri (frammentazione politica, fragilità militare), e con sullo sfondo – ma questo la tradizione angloamericana non si discosta dal corso principale della grand narrative europea sullo sviluppo storico dell’Occidente – l’influenza pesante del tema più generale dello Stato come fine ultimo delle costruzioni di potere e dell’assenza/presenza di un’identità italiana di volta in volta politica o culturale.
Chiaramente banalizzo: ma queste tendenze di fondo sono figlie di tradizioni e letture di lunga lena e radici remote, di cui vale la pena di delineare rapidamente qualche filo conduttore seppure limitandosi al dibattito recente, e con un approccio dicotomico italiano/angloamericano che non solo limita l’intera questione, ma di fatto in parte asseconda – seppur consapevolmente – il permanere degli stessi criteri di analisi e degli stessi modelli interpretativi contro cui vuol mettere in guardia.
Il dibattito italiano nel confrontarsi con il mosaico elusivo composto dai punti di forza e dalle debolezze del sistema politico italiano tra tardo medioevo e rinascimento è stato a lungo influenzato da due grandi miti storiografici. Il primo ad apparire è quello “dell’Italia delle città”: definito nell’Ottocento al fine di provvedere un legittimo retroterra storico e ideologico alla "specificità" italiana che si risolve e si esalta nell’identità nazionale postunitaria, la sua forza è ancora in gran parte intatta e non solo a livello di vulgata generale: se le città – vale a dire i comuni – sono l’embrione della libertà d’Italia, non c’è Italia senza le città, e laddove non ci sono – come nel Mezzogiorno – bisogna inventarle o ammettere un fallimento di lunga durata. La sua persistenza è un tratto di lungo periodo della storia italiana post-antica, ed è ben presente alla più avvertita storiografia anglosassone come a quella italiana, pur rimanendo – nel bene e nel male – una pietra miliare anche degli studi sul Rinascimento. Il secondo mito storiografico in ordine di tempo è quello dello Stato del Rinascimento, incentrato sul modello politico – elaborato da Federico Chabod nei primi anni Cinquanta del secolo scorso – di uno Stato rinascimentale fatto di officiali e istituzioni. Chabod tentava nel 1955 di rispondere alla singolarità italiana e alle ragioni della tarda unità nazionale contrastando l’idea della decadenza rinascimentale e individuando una via italiana allo Stato moderno in qualche modo comparabile a quanto andava accadendo nel Cinquecento in altri stati europei. D’altro canto, umanesimo e Rinascimento, tra la fine dell’Ottocento e il pieno Novecento erano stati per la cultura anglo-americana nel suo complesso un campo di ricerca di grande fecondità e suggestione, anche se nella maggior parte dei casi sotto l’egida della storia culturale, non della storia politica: innanzitutto della storia della cultura, tra arte e letteratura (sulla scia di Burckhardt, i lavori di Warburg o Kristeller), e poi della storia del pensiero politico alla ricerca delle origini del liberalismo (lungo la linea Baron-Pocock). Non sorprendentemente, il gap sarebbe stato superato per prima cosa negli studi sulla Firenze del Quattrocento, a partire dalle ricerche di Nicolai Rubinstein e Riccardo Fubini.
Per quanto riguarda la storiografia italiana, nei decenni successivi a Chabod, il termine Rinascimento rimase per lo più nel cassetto (La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello Stato del Rinascimento, a cura di Giorgio Chittolini, è una delle poche eccezioni, ma lo stesso Chittolini avrebbe parlato poi di stati regionali o territoriali). Quel che importava, ma qui davvero semplifico al limite del tollerabile, era analizzare le origini della mancata unificazione nazionale e quindi le forme del potere nell’Italia protomoderna evitando le pericolose sirene del Rinascimento come processo intellettuale, legato com’era all’idea di una complementarità fra innovazione culturale e ritardo politico. Si discusse quindi di stati come organizzazioni del politico, cercando termini meno "tipizzanti" per definirli. In questo contesto, negli anni Settanta, la ricerca italiana venne a contatto con la visione dualistica della politica che derivava dalla storia costituzionale tedesca (von Gierke, Hintze, Brunner), anche grazie a una importante raccolta di saggi curata da Rotelli e da Schiera. Elena Fasano Guarini e Giorgio Chittolini in particolare sottolinearono allora come lo Stato sviluppasse nei secoli cerniera fra medioevo e prima età moderna una attitudine più efficace alla regolazione del governo non assorbendo o eliminando i vari e disseminati poteri profondamente radicati nel territorio, ma piuttosto grazie a un processo negoziale basato su patti e accordi. Il principe o la dominante cioè avrebbero esercitato un potere crescente, ma discontinuo sui territori soggetti alla loro autorità formale coordinando la complessa commistione di istituzioni sovrapposte che costituiva i loro domini grazie alla mediazione di diversi corpi territoriali, fossero essi comunità rurali, signori, città soggette, "piccoli stati". Entrambi sistematizzarono le loro intuizioni in occasione del convegno di Chicago del 1994, che giunse a riassumere e presentare un’intera stagione di studi. Nel processo di elaborazione di un modello flessibile e autonomo del potere pubblico nel contesto italiano tardomedievale e protomoderno, un passo ulteriore venne rappresentato da un convegno dedicato nel 1996 allo Stato territoriale fiorentino, di nuovo – come il grande convegno di Chicago di due anni prima – coordinato da curatori appartenenti tanto alla tradizione italiana (Andrea Zorzi) quanto a quella angloamericana (Bill Connell). Per quanto incentrato sul solo dominio fiorentino (seppure con affondi comparativi con altre realtà italiane), questo incontro offrì infatti l’opportunità di riassumere alcune linee di ricerca che erano – anche grazie agli sviluppi coevi della storiografia europea sullo Stato su cui tornerò fra un attimo – già in opera qui e là, orientando l’analisi di uno Stato territoriale per eccellenza, quello fiorentino, verso pratiche di potere, fazioni, network clientelari, relazioni informali di influenza e autorità, di grazia e di servizio, e focalizzando l’indagine su un intero mondo di vari corpi sociali e attori politici. Di nuovo, un intero volume concettualmente slegato dall’idea di Rinascimento: il termine non compare in alcun titolo delle 26 relazioni, mentre solo nel testo dedicato da Bill Connell a Giannozzo Manetti appare la parola "umanista". Anche qui, il convegno conobbe due edizioni simultanee nelle due lingue: e di nuovo, verrebbe da dire, con interessanti varianti nei rispettivi titoli (Lo Stato territoriale fiorentino [secoli XIV-XV]: ricerche, linguaggi, confronti, e Florentine Tuscany. Structures and Practices of Power).
All’inizio del terzo millennio, dunque, non solo la dinamica di costruzione dello Stato e di crescita del governo in un’Italia tardomedievale composta non più di stati "regionali" come negli anni Settanta, ma di stati "territoriali", risultava più pattista che autoritaria, più reciproca che verticale, ma coinvolgeva non esclusivamente strutture e istituzioni formali diverse fra loro solo in scala e obiettivi, ma anche attori e pratiche che non derivavano necessariamente dalla sfera pubbblica, come fazioni e clientele. Questo mondo informale si poneva di fronte alle istituzioni, formando con esse un unicum della politica.
Questi sviluppi naturalmente non crebbero avulsi dal contesto internazionale: come accennavo poc’anzi, negli anni Ottanta e Novanta il dibattito sulle origini dello Stato divenne un tema cruciale degli studi sull’Europa della prima età moderna e alcuni importanti programmi di ricerca all’interno di schemi internazionali di ricerca di grande respiro fornirono punti di riferimento importanti sulla via della revisione critica di quello stesso "Stato moderno europeo" rigidamente definito nei decenni precedenti. Per quanto in tali progetti gli studi di ambito italiano continuassero a essere rari, l’effetto teorico di queste riflessioni fu di avvicinare gli esperimenti italiani agli sviluppi europei e quindi diminuire la distanza fra la cosiddetta eccezione italiana e i processi trasformativi dell’Occidente.
Il volume del 2012, a una decina d’anni di distanza da questa ultima stagione di ricerca, si propone di saldare la frattura fra una storia politica del potere in Italia, e una storia "culturale" del Rinascimento italiano riprendendo in mano il binomio Stato-Rinascimento, declinandolo in senso dichiaratamente politico e puntando a verificarne la natura peninsulare, vale a dire "italiana". Tale ipotesi, variamente espressa nei diversi saggi, ma soggiacente a molti di essi, si fonda sul convergere di alcuni caratteri peculiari allo sviluppo peninsulare, radicati in processi che si svilupparono lungo una cronologia più lunga di quella – necessariamente – presa in considerazione dal volume. Mette conto qui darne una breve sintesi, di cui mi prendo una assoluta responsabilità personale rispetto ai colleghi che hanno contribuito al volume, per concludere la parabola concettuale che ho puntato a ricostruire sin qui.
La molteplicità politica, vale a dire sia il frammentato panorama politico peninsulare, sia – se non di più – la varietà della sua fisionomia costituzionale (molti Stati e ancor più soluzioni di governo) produsse fra Trecento e primo Quattrocento un livello altissimo di sperimentalismo politico. D’altro canto, la fragile legittimità delle radici dell’autorità e della sovranità di molti fra i poteri italiani impose a tutti quanti avevano ambizioni politiche un lavoro costante di definizione e ri-definizione teorica della cornice del potere e delle sue basi, come anche una strutturale e duratura flessibilità nell’elaborare concrete pratiche e linguaggi di potere. Ultimo carattere di lungo periodo, la duratura e originaria tradizione di ricorrere alla parola – orale e scritta – per articolare un dibattito politico che era sostanzialmente pubblico e/o collegiale, e per controllare relazioni interne ed esterne di forza e di potere, impose a sua volta l’elaborazione di una retorica del discorso politico pubblico fondamentale per governare grazie a stratificati processi di negoziato, interni ed esterni. L’ultimo, e il più efficace, o almeno il più diffuso e sul più lungo periodo, di questi arsenali discorsivi e retorici fu quello che chiamiamo "umanesimo".
Lungo una cronologia multipla che copre i quasi due secoli fra il pieno Trecento e il primo Cinquecento, la varia combinazione di tali elementi, grazie alla graduale fissazione d’uso di due lingue comuni (il latino classico e il vernacolo quattrocentesco) e di più di una idea di autorità e legittimità politica nel contesto di una mobilità sempre più fitta di uomini, idee, tecniche su base peninsulare, mise in opera una cultura politica condivisa e un certo numero di pratiche di governo. Questa galassia di idee e di pratiche – diplomazia, comunicazione, ordine documentario e memoria identitaria dell’autorità, ma anche sistemi fiscali, soluzioni militari, raccordi fazionari – era riconosciuta come peculiarmente "italiana" dai contemporanei, fossero "italiani", "oltramontani", "barberi" (la distinzione, in questi termini, viene da Lorenzo de’ Medici che nel 1493 scriveva a Giovanni Lanfredini che «a me non piace che oltramontani o barberi comincino a mescolarsi in Italia»). Tale condivisa e innovativa "cultura di potere" fondata sul flessibile uso di una somma di concetti politici (libertà/tirannide, soggezione/fedeltà, collegialità/autocrazia, comunicazione/violenza), risorse discorsive, e pratiche di governo non emerse attraverso un pacifico e spontaneo moto di convergenza di idee, ma piuttosto in prolungate interazioni conflittuali fra i diversi protagonisti del quadro: comunità, fazioni, città, signorie rurali, corpi sociali, città dominanti, principi, re.
Nel suo complesso, una simile "cultura di potere" può definirsi "rinascimentale" in senso culturale qualora il termine cultura giunga a comprendere l’idea di un processo in grado di produrre modi innovativi di concepire la politica, e soprattutto una più generale attitudine al controllo dell’interazione politica attraverso la comunicazione. Il latino umanistico e l’antichità classica prestarono a tale attitudine modelli e strumenti necessari e peculiari, in grado di fissare risorse linguistiche e concettuali mirabilmente plasmate per descrivere e influenzare relazioni politiche fittissime. Un tale modo di pensare la politica venne "tradotto", codificato e fissato in forma scritta per essere trasmesso e conservato, trasformando il panorama delle scritture di governo e insieme elaborando modalità diverse di testi in rapporto alle diverse esigenze. Dalla politica agita e dalla diplomazia negoziata, trascritte in corrispondenze e verbali, si passò contestualmente anche alla scrittura di storia e alla riflessione politica: e Machiavelli, Guicciardini, Castiglione – e quant’altri – costruirono testi che poi vennero letti, stampati, tradotti, diffusi.
Della traduzione: il peso delle mediazioni
Il punto di partenza di questa chiacchierata – le linee di frattura e i punti di contatto fra storiografie diverse in merito a concetti comuni, nello specifico Rinascimento, Stato, Italia, di cui abbiamo rapidamente ricostruito una delle recenti genealogie possibili – ci riconduce al secondo livello di condizionamento nel loro uso e nella loro ricezione. Tale secondo livello dipende da fattori linguistici e lessicali, vale a dire non dalla "tradizione", ma dalla "traduzione" di questi, e d’altri, concetti pesanti. Mi avventuro qui brevemente in terra incognita, in modo più artigianale che mai, ragionando a vista sulla base di una singola esperienza, e formulando considerazioni generali quando non generiche, applicabili a temi storici diversi. Vedremo alla fine se esiste – o si può trovare – una qualche congruenza fra queste considerazioni e il tema peculiare del Rinascimento italiano, a parte il suo essere uno dei temi – nella storia medievale e protomoderna di lungo corso – su cui più inchiostro è stato versato da un lato e dall’altro del continental divide linguistico-culturale fra italiano e inglese.
Nella mia – ridotta – esperienza di ricerca, a cavallo di più mondi linguistici diversi, due piani essenziali di differenza sembrano emergere nel momento in cui due lingue vengono a confronto, vale a dire, la struttura generale della lingua (sintassi, costruzione del pensiero, articolazione delle argomentazioni) e l’ampiezza e natura del ventaglio lessicale disponibile. Su tali differenze operano i livelli di mediazione attivati dagli scriventi e dei traduttori, variamente configurati da un punto di vista metodologico e culturale.
Inglese e italiano sono, su entrambi i livelli rapidamente definiti or ora, lingue decisamente diverse: e il senso della diversità si gradua e diversifica a sua volta all’interno di un dialogo culturale di lunga durata, moltiplicandosi e rifrangendosi grazie al fatto che entrambe sono interconnesse con altre lingue all’interno di un medesimo contesto culturale – in particolare con le lingue della tradizione occidentale, vive e morte. Il processo per cui storicamente l’inglese, come pure il tedesco, sono assurte a lingue "scientifiche" è un processo di progressiva affermazione non soltanto come evoluzione interna e spontanea della lingua – se mai – ma in rapporto e in competizione con altre lingue "culturali", in particolare l’italiano e il francese, e in un complesso rapporto di derivazione dalle grandi lingue classiche (latino e greco). In un contesto tale, il mito delle potenzialità naturali della lingua si confronta e completa con il mito complementare delle peculiarità della scrittura scientifica nazionale e delle sue specifiche abilità, legate ovviamente a una costruzione culturale e identitaria le cui radici affondano nel tempo. La constatazione di quanto formulari e trite possano essere considerazioni relative alla eventuale "natura" delle due lingue e alla loro capacità di dare voce ai rispettivi retroterra culturali non previene dal ricadere – in molti e diversi modi – negli stessi stereotipi allorché da un discorso generale si passi alla pratica concreta della traduzione. La questione di fondo – più o meno esplicita – è quanto la lingua di destinazione sia in grado di rendere le sottigliezze e la forza della lingua di partenza sia per l’autore, sia per il lettore attraverso il passaggio cruciale della traduzione in un contesto, come quello scientifico, ricchissimo di distinguo e idiosincrasie, ma assai meno attrezzato di quello letterario da un punto di vista teoretico. In tale contesto, i luoghi di frizione nel rapporto non facile fra italiano e inglese si intrecciano: laddove l’italiano rende la complessità attraverso il sovrapporsi elaborato della struttura della lingua (subordinate, periodi ipotetici, vari gradi di profondità nel passato), l’inglese la esprime attraverso un sofisticato ordine delle parole nel testo e la finezza d’uso di un lessico oggettivamente amplissimo e ad alto tasso di permeabilità. I rischi inevitabili, dunque, si traducono da parte italiana nell’idea che l’inglese mortifichi la complessità dell’interpretazione – e per derivazione la complessità del fenomeno – sacrificandola alla chiarezza empirica dell’argomentazione; da parte inglese, che la complessità sintattica e la sovrabbondanza di alcuni elementi del discorso (aggettivi, avverbi, preposizioni varie) celino non complessità, ma tortuosità o rivelino una incapacità più o meno volontaria di spiegare il reale trasformandolo e oscurandolo. La traduzione inglese può operare su di un testo italiano in molti modi: può alleggerire il peso lessicale e il numero dei termini, soprattutto nel caso di astrazioni; ai sostantivi possono sostituirsi forme verbali, con l’effetto di mutare l’enfasi teorica della costruzione originale in un processo empirico. Infine, tende a trasformare il lungo periodare italiano, costruito su vari livelli di subordinazione, in una sequenza di frasi più brevi.
In merito al piano dell’architettura del discorso, il processo di traduzione coinvolge poi anche i canoni consolidati ma diversi che ordinano la costruzione del testo accademico: struttura di un testo in sezioni regolate per accompagnare l’esposizione, paragrafazione più o meno dettagliata, frasi più o meno necessariamente accompagnate e seguite da chiare dichiarazioni di intenti, signposting. La tradizione accademica italiana, che giuoca sulla libertà compositiva dello studioso, si trova in questo senso sovente in difficoltà nei confronti di contesti più regolati (la cultura angloamericana non è la sola: basti pensare alle convenzioni compositive francesi o germaniche).
La sensazione di perdita di complessità/perdita di limpidezza rispettive si approfondisce qualora si passi dalla struttura sintattica al patrimonio lessicale. La flessibilità e l’ampiezza lessicale derivata all’inglese contemporaneo dall’assorbimento – in momenti diversi – su di un’originaria base anglosassone, di massicci prestiti linguistici vari d’area germanica e romanza gli regalano un impressionante ventaglio di termini semanticamente correlati ma sostanzialmente diversi senza ricorrere alla costruzione di sostantivi composti. Si pensi alla triade politics, polity, policy; o a government/governance, complicato dall’uso abituale e sostantivato del gerundivo governing. Quello che talora al lettore anglofono sembra un barocco moltiplicarsi di aggettivi o avverbi indica la diversa attitudine dell’italiano alla sfumatura attraverso l’aggettivazione di sostantivi spesso astratti o l’introduzione di stilemi accentuativi, limitativi, comparativi che allungano il periodare. Nell’abitudine interna alle diverse ricerche nazionali, quindi, per colmare questi varchi si sottintende, si ammicca, vale a dire si ricorre a cifrari che non sono più soltanto linguistici: in una parola, si torna al piano della costruzioni di orizzonti interpretativi storicamente e teoricamente definiti. Il riferimento alla traduzione linguistica si interseca dunque continuamente, sulla minuta superficie delle cose, a quello della tradizione storiografica.
Da ultimo, una traduzione scientifica è opera, per quanto non originale, senz’altro complessa. Si danno – nel produrla – livelli di mediazione che possono spaziare dalla bipolarità semplice a stratificazioni assai più numerose, il cui incrociarsi rivela ulteriori scarti di autorialità. Vediamole rapidamente: sono banalità, una volta di più, ma il loro sovrapporsi rivela l’esistenza degli strati culturali della differenza. Un primo caso possibile si ha quando l’autore scrive in entrambe le lingue, e quindi provvede personalmente: i due testi sono diversi, ma entrambi si iscrivono senza sforzo nei rispettivi ordini di riferimento linguistici, mantenendo un comune orizzonte storiografico. Se la lingua di destinazione è una lingua acquisita in un vario processo di acculturazione, si verificano interessanti fenomeni di metissage reale o percepito a seconda dell’abilità più o meno accademica e della verosimiglianza linguistica dello scrivente, con possibili errori non prevedibili, soluzioni efficaci non scontate, scelte ambivalenti, soluzioni stilistiche inedite. In un secondo caso, autore e traduttore sono due persone diverse: si aprono dunque due scenari. Laddove due studiosi collaborino, i fraintendimenti si riducono, condividendo entrambi orizzonti di riferimento storiografici relativamente simili, un serbatoio lessicale familiare, un possibile interesse scientifico comune. La questione diviene più ardua quando interviene un traduttore professionista perché quest’ultimo si accosta al testo con vari gradi di confidenza con il panorama di riferimento, sia come quadro teorico – storiografico diremmo noi – sia come gamma lessicale. Un esempio basterà: la parola signoria in italiano copre tanto la signoria rurale del X secolo come la signoria urbana del XIV; l’inglese offre lordship, ma anche seigneurie e seigneurial (evidentemente derivato dal francese, e non a caso). In primo luogo è stato necessario rendere inequivoche per tutti i traduttori (otto) tutte le occorrenze di signoria e signorile; in secondo luogo, ci si è dovuti assicurare che le soluzioni adottate fossero regolari lungo tutto il volume. Infine, nella nota in esordio dedicata alla note on translation (i nomi dei traduttori) and usage (le convenzioni adottate), si è ritenuto opportuno specificare: «To avoid ambiguity, we adopt the terms ‘signoria’ and ‘signorile’ to refer to urban proto-princely regimes; the term ‘seigneurial’, in turn, refers mainly to rural lordships.» [The Italian Renaissance State, xiii], costruendo – sulla differenza lessicale – un’interpretazione storiografica complessa che a sua volta rimanda a scenari diversi.
Non si tratta dunque visibilmente soltanto di scelte lessicali: si tratta anche di determinare di volta in volta la legittimità e l’ampiezza degli interventi di adattamento di una struttura linguistica sull’altra. In questo caso, per ridurre al massimo l’effetto distorsivo, si sono moltiplicati i livelli intermedi, facendo intervenire sia esperti scientifici – per controllare le congruenze di senso della versione tradotta – sia esperti linguistici – per controllare le congruenze linguistiche. Macchinoso, non sempre efficace, comunque interessantissimo.
Una considerazione conclusiva: il Rinascimento italiano e le tradizioni di traduzione
Per concludere, un ultimo rilievo: l’intero processo di contatti e scambi fra storiografia italiana e anglofona in materia di Rinascimento italiano è stato fortemente condizionato da uno tratto linguistico di fondo che sino a non molto tempo fa è sembrato scontato, vale a dire la scarsa necessità di traduzioni dall’italiano per studiosi che lo conoscevano molto bene giacché lavoravano su fonti e temi italiani, e di traduzioni dall’inglese dalla generale e diffusa conoscenza – almeno basilare – della lingua contemporanea più veicolare. Il Rinascimento aveva infatti attratto – sin dall’Ottocento – studiosi europei di varia provenienza che per i motivi personali e storici più vari si erano trovati a far parte della comunità scientifica angloamericana: è un tema – nella storia italiana – dallo spiccato connotato internazionale, e dunque ideale nel verificare le trasformazioni di lungo periodo di fenomeni come la comunicazione scientifica transnazionale, traduzioni incluse. Altri contesti della storia e della cultura medievale di ambito peninsulare lo sono meno: si pensi a epoche come i secoli del medioevo alto e centrale e quindi alla difficile scelta di tradurre o di non tradurre Tabacco in inglese e Wickham in italiano.
Questo equilibrio "rinascimentale" nato dalla convergenza degli interessi scientifici verso l’Italia ed esteso dagli studenti agli studiosi, comprendendo, alla maniera medievale, anche il dimorfismo di partenza (vale a dire non solo la conoscenza dell’italiano ma anche del latino), nelle ultime due decadi si è venuto gradualmente alterando. Gli studi di storia del Rinascimento in generale, e del Rinascimento politico in particolare, sono in netta contrazione in un mondo anglofono forse ragionevolmente proiettato verso studi di portata più contemporaneistica e di ambito più lontano. Complementare a tale sviluppo è un fattore linguistico: non solo l’italiano, ma anche il latino di fatto sono sempre più elusi, e gli studenti sono sempre meno indotti a lavorare su fonti non tradotte. La sensazione di un dialogo, se non interrotto certo meno agevole e naturale, è forte: il disequilibrio linguistico induce un disequilibrio negli studi e un allontanamento reciproco delle storiografie. La traduzione diviene allora necessaria, ma va compiuta nella piena consapevolezza della sua complessità: tradurre infatti non è fatto neutro, ma arricchisce e complica la comunicazione scientifica rendendo evidenti una serie di livelli di mediazione linguistica ma anche – o potremmo dire e quindi – culturale.
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