Enzo Fimiani, “«L’unanimità più uno». Plebisciti e potere, una storia europea (secoli XVIII-XX)”, Firenze, Le Monnier, 2017, 396 pp.
Il libro di Fimiani, frutto di numerosi anni di ricerche, ripercorre la storia europea dal punto di vista dei plebisciti dalla fine del XVIII secolo sino alla conclusione del XX. A partire dagli appels au peuple durante la Rivoluzione francese e il Consolato di Bonaparte, passando per i plebisciti risorgimentali del 1848 in Italia e quelli di Luigi Napoleone che condussero alla proclamazione del Secondo Impero, nel secolo successivo si è continuato a ricorrere all’istituto durante il fascismo e il nazismo, nei regimi repubblicani postbellici in Italia nel 1946 e nella Francia gaullista, fino ad arrivare, nel 1991, alla prima e unica votazione plebiscitaria in Unione Sovietica, preludio, malgrado gli esiti, alla dissoluzione della Federazione. Di fronte a una tale ricorrenza della consultazione popolare diretta nella scena politica europea per oltre due secoli, uno studio che ne ripercorresse la genesi e le tappe, tra riflessione teorica ed esiti pratici, e ne proponesse un’interpretazione, risulta tanto originale quanto necessario al fine di comprendere un fenomeno che ha accomunato esperienze politiche estremamente diverse tra loro.
In effetti, la genealogia plebiscitaria che apparenta regimi democratico-parlamentari, a cesarismi bonapartisti o a totalitarismi e a dittature novecenteschi, ha nella proclamazione, all’inizio della Rivoluzione francese, dei principi di sovranità popolare, di suffragio universale (variabile nel numero e nel genere nel corso della storia) e di maggioranza (una testa, un voto), il suo momento fondante, e nel ruolo del popolo nella legittimazione e nel consolidamento del potere, la sua condizione necessaria di esistenza. Questo è tanto più evidente nel legame duraturo tra plebisciti e costituzioni, ovvero il pronunciamento popolare sull’organizzazione dello Stato, che, inaugurato dalla Rivoluzione francese ha costituito uno dei rami principali della famiglia plebiscitaria.
Nondimeno la relazione triangolare formata da popolo, potere e plebiscito appare quanto mai ambivalente. «Nel corso dei loro due secoli di storia, il principio plebiscitario e l’istituto concreto che ne è derivato dalla prassi hanno davvero ondeggiato tra l’essere a pieno titolo mezzi che consentissero di avere a base di un potere il popolo, in tal modo elevandolo a un ruolo centrale, o al contrario escamotage per ‘elevarlo’ sì, formalmente, al vertice ma al fine di renderlo nella realtà inoffensivo controllandone in vario modo movimenti, facoltà, scelte» (p. 281). In maniera speculare, attraverso i plebisciti, il popolo è diventato a sua volta uno strumento nelle mani di leader carismatici super partes che, agendo per e in suo nome, si sono presentati come i soli in grado di far cessare le divisioni politiche (fazioni, prima, partiti, poi) e di porsi quali soli garanti dell’interesse di tutta la nazione. Nei regimi totalitari dell’Italia fascista e della Germania nazista, in particolare, la consultazione popolare, sollecitata da un imprescindibile apparato di propaganda, limitandosi di fatto ad acclamare senza scegliere, assunse marcatamente il significato di unione nazionale, di quell’unanimità indispensabile per esprimere l’adesione a un regime (l’«unanimità più uno» di Mussolini evocata nel titolo), di dovere assoluto che definiva i limiti della comunità patriottica. Per questo nei plebisciti il ruolo della partecipazione numerica contava e ancora conta, al di là del risultato, poiché rappresenta la manifestazione collettiva di un consenso, carico di emotività, che legittima il governare. Anche i regimi democratici del secondo dopoguerra hanno ereditato questo portato simbolico ed emotivo della consultazione popolare i cui esiti assurgono a una sorta di «unzione» tanto più valida quanto più cospicua è la partecipazione dei cittadini (come attesta l’atteggiamento di Charles De Gaulle nelle diverse consultazioni nel corso della IV e soprattutto V Repubblica).
E questa «monarchia del numero», o forse si dovrebbe parlare di tirannia, sembra esercitare ancora oggi una certa influenza, come hanno dimostrato le esperienze referendarie recenti, facendo, ancora una volta, emergere l’aporia di fondo tra sistema rappresentativo e il «mito fascinoso della democrazia diretta», tanto più evidente nell’era attuale dei social media, ogniqualvolta si faccia ricorso alla consultazione diretta dei cittadini.
Uno dei principali meriti del libro di Fimiani risiede proprio nel rilevare costantemente il dualismo insisto nel plebiscito, in bilico tra spinte democratiche e tendenze autocratiche, tra esaltazione e timore/diffidenza del ruolo del popolo/massa, tra partecipazione popolare ai processi legislativi e demagogia, e nel rinviare al momento storico in cui queste contraddizioni si sono presentate, sul nascere : la Rivoluzione e la sua “deriva” bonapartista.