Nel panorama memoriale contemporaneo, si è assistito, negli ultimi decenni, a una monumentalizzazione della memoria. Il ricordo del passato, affidato ai testimoni diretti e ai luoghi della storia,
ha assunto sempre più i contorni della commemorazione di massa.
In quella che Traverso definisce “ossessione commemorativa”[1] contemporanea, uomini (i testimoni), luoghi (monumenti e memoriali) e
immagini sono stati chiamati a rendere testimonianza non tanto degli eventi del passato, quanto, piuttosto, di un presente che vede illanguidirsi e perdersi la memoria.
Così, se la testimonianza, per i sopravvissuti, comporta la trasmissione letterale dell’esperienza vissuta, allora, il monumento/memoriale, in quanto testimonianza del passato che si intende
commemorare, raramente si esprime in modo astratto.[2] Sono per lo più i monumenti figurativi che servono da punto di partenza per le
odierne politiche memoriali, perché, al pari delle immagini,[3] sono in grado di stabilire un legame empatico tra l’osservatore e
l’opera. Lo stesso legame che, in base agli studi di Marianne Hirsh sulla post-memoria,[4] assicura la trasmissione del ricordo dalla
generazione dei testimoni diretti a quella dei testimoni dei testimoni.
La politica dei luoghi di memoria parla soprattutto del rapporto che una società intrattiene con il suo passato. Lasciando che l’oblio li occultasse, i contemporanei si sono impegnati in una
negazione dell’orrore che in quei luoghi era stato compiuto, cancellandone di fatto la memoria. Ma anche quando i luoghi sono stati trasformati in siti per la memoria non vi è alcuna garanzia del
senso ultimo rappresentato dalla cerimonia. Il dibattito è tuttora aperto, come dimostra il numero che la «Revue d’Histoire de la Shoah» ha dedicato, nel 2004, ai luoghi e non luoghi della memoria
della Shoah,[5] perché, come afferma Bensoussan, in conclusione all’editoriale, “la politica dei luoghi di memoria è
principalmente una memoria politica”.
Tuttavia, se si può parlare di memoria collettiva, come fondamento ed espressione dell’identità di un gruppo,[6] è altresì indispensabile
riconoscere l’esistenza di una pluralità di memorie. In altre parole, la memoria è collettiva, ma, difficilmente, condivisa.
La mancanza di una memoria condivisa è legata all’esistenza di più memorie in conflitto tra loro (quella pubblica e quella privata, di gruppi o epoche diverse), con notevoli ripercussioni sui
luoghi deputati alla commemorazione.
Anche nella scena della memoria della Shoah non si riproduce la “vera” scena del genocidio, ma si incrociano diversi processi culturali.[7]
La mancanza di condivisione del ricordo sancisce, inoltre, una distinzione tra i luoghi di memoria del primo e del secondo dopoguerra.
Mentre dopo la Grande Guerra, la memoria del conflitto si espresse nell’onnipresente monumento ai caduti che spuntò sulle piazze di tutti i centri abitati d’Europa, compattando il sentimento
nazionale nel ricordo della Patria ferita o trionfante,[8] nel secondo dopoguerra, lo scenario della commemorazione si complicò: se, per
esempio, in Francia, per celebrare il Milite ignoto si era scelto, alla fine del primo conflitto, il corpo di un solo soldato in rappresentanza di tutti i caduti, per rappresentare i morti della
Seconda Guerra Mondiale i caduti divennero addirittura 15. Si assistette, inoltre, a una codificazione separata delle sofferenze: l’associazione dei resistenti si rifiutò di confondere le proprie
commemorazioni con i deportati razziali, i quali, a loro volta, intendevano differenziarsi dai deportati al lavoro forzato.[9]
I richiami a una memoria nazionale unitaria caddero nel vuoto e ovunque, in Europa, le forme della memoria rivelarono una minor coerenza del ricordo rispetto a quelle del 1914.
Ciò che segnò nel profondo la memoria della guerra fu la mutazione del suo oggetto: non più solamente i caduti in trincea, ma, soprattutto, i civili travolti da una tipologia di conflitto in cui il
confine tra la linea del fronte e quella interna si era smarrito. Il ricordo dei civili, inteso come obbligo morale, poneva compiti commemorativi del tutto nuovi, tra cui quello di preservare le
tracce della distruzione.
Il luogo della memoria finì, perciò, nel secondo dopoguerra, per coincidere con il luogo materiale in cui il dramma si era consumato, come nel caso del monumento agli eroi del ghetto di
Varsavia.
Mentre l’arte contemporanea, solitamente, si riferisce ermeticamente al processo da cui è nata, i monumenti che commemorano la Shoah sono storicamente referenziali. Evocano per lo spettatore
l’evento che rappresentano.
Spesso frutto di accesi dibattiti, queste opere non mancano di mettere in scena i conflitti memoriali della società contemporanea e, nel caso della Shoah, obbligano a domandarsi come possa essere
raccontato e ricordato lo sterminio di sei milioni di ebrei, se possa costituire l’oggetto di un rituale e, soprattutto, se possa divenire un luogo di memoria.
Il problema non riguarda solo i memoriali, ma la trasmissione stessa della memoria del genocidio ebraico. Una questione che mette in discussione la liceità di qualsiasi tipo di
rappresentazione.[10]
Inoltre, in un panorama memoriale la cui saturazione, denunciata da Wieviorka[11] e Robin,[12] rischia di ottenere l’effetto opposto da quello auspicato, il ricorso all’astrazione (rappresentata per esempio dal contro monumento)[13] potrebbe rappresentare una risorsa spingendo lo spettatore a una propria elaborazione memoriale della Shoah.
I quattro casi presi in esame, il monumento agli eroi del ghetto di Varsavia, l’Holocaust Mahmal di Berlino, il monumento di Babij Jar e l’Holocaust Memorial Museum di Washington, sembrano
illustrare al meglio questi interrogativi senza riuscire, però, a risolverli.
Il monumento agli eroi del ghetto di Varsavia
Tra i molti memoriali costruiti nel secondo dopoguerra per commemorare le vittime della Shoah, il monumento dedicato agli eroi del ghetto di Varsavia è sicuramente uno dei più conosciuti e controversi.Il suo autore, Nathan Rapoport, era un ebreo polacco che, dopo l’occupazione nazista della Polonia, aveva trovato rifugio in Unione Sovietica dove, nella primavera del ’43, aveva appreso la notizia dell’insurrezione del ghetto di Varsavia che egli interpretò come una rivoluzione ebraica e socialista.
Quando Rapoport propose, per la prima volta, il suo progetto al Comitato per le Arti del Partito Comunista fu giudicato troppo “nazionalista”. Rapoport chiese, allora, l’intervento di Il’ja Ehrenburg che non poté fare nulla perché anche il suo libro sullo sterminio degli ebrei russi, il Libro Nero, commissionatogli da Stalin, era stato rifiutato dal Partito per lo stesso motivo. Ironia della sorte, i detrattori di Rapoport lo avrebbero, in seguito, accusato di essere un artista troppo stalinista e poco ebraico.
Alla fine della guerra, Rapoport ritornò a Varsavia e con il sostegno del Comitato ebraico propose alle autorità polacche l’erezione di un monumento sul luogo stesso del massacro. Dopo una prima incertezza determinata dalla consapevolezza dell’avversione di Stalin per gli ebrei, le autorità polacche diedero il loro assenso. Per la mancanza di spazi adatti alla realizzazione, Rapoport si recò a Parigi dove si rese conto che, nello scenario dell’arte contemporanea, la sua vocazione figurativa appariva ormai superata. Del resto, per l’artista polacco, l’eroismo degli insorti del ghetto doveva essere necessariamente illustrato con delle figure. La rivolta era stata reale e non si sarebbe potuto in nessun modo darne conto attraverso un’opera astratta. Di conseguenza, Rapoport pensò e progettò il suo Monumento in maniera realista.
Il suo intento era quello di creare un monumento nazionale per gli Ebrei, non per i Polacchi.
La struttura, un muro in cui si mescolano temi ebraici e motivi d’ispirazione socialista, non avrebbe, infatti, dovuto ricordare soltanto la cinta eretta dai Nazisti per delimitare il Ghetto, ma anche il Muro del Pianto.[14]
La memoria degli eventi di Varsavia veniva così inserita nell’iconografia del luogo più sacro all’ebraismo, a sua volta simbolo del Secondo Tempio e, per estensione, della sua distruzione.
L’opera è dedicata agli eroi e ai martiri del popolo ebraico. Le sette figure del rilievo sul lato occidentale, di fronte alla piazza, rappresentano gli eroi stagliati di fronte al ghetto in fiamme, ma per vedere i martiri è necessario girare attorno al monumento. Sul lato posteriore, infatti, sta il rilievo con i supersiti in fuga, dodici figure che simboleggiano le dodici tribù di Israele. In effetti, soltanto le baionette e due soldati con l’elmetto nazista fanno la differenza tra la deportazione del ghetto di Varsavia e ogni altra deportazione nella storia d’Israele. Il risultato è un monumento con due facce che rappresentano l’eroismo e il martirio del popolo ebraico.
Fino all’adozione da parte di Solidarność, negli anni Ottanta, il monumento è stato vissuto dai polacchi come “il luogo del risentimento” a causa dell’assenza di un memoriale che ricordasse la loro insurrezione, successiva di un anno a quella ebraica. Un memoriale la cui creazione è stata posticipata fino al 1989 per il timore che la commemorazione dei fatti del ’44 potesse divenire un simbolo per una nuova ribellione.
Nel 1988, Wałęsa proclamava, infatti, che l’insurrezione ebraica era stata la più polacca di tutte le insurrezioni nazionali.[15] Incorporando la rivolta ebraica nella storia polacca, il leader di Solidarność la trasformava in un simbolo nazionale di resistenza per tutti i polacchi. In questo modo, lo sterminio degli ebrei diventava una delle principali figure attraverso cui i polacchi potevano, finalmente, rivendicare le loro sofferenze durante la Seconda Guerra Mondiale.
A questa stratificazione di memorie occorre aggiungerne un’altra.
Nel 1967, a causa dell’ondata di antisemitismo che colpì la Polonia all’indomani della Guerra dei sei Giorni, gli ebrei americani e quelli israeliani, temendo che anche il ricordo dell’insurrezione del ghetto potesse essere cancellato dal panorama memoriale polacco, commissionarono una copia del monumento per installarla in Israele presso lo Yad Vashem.
Quando, nel 1975, la riproduzione fu collocata a Gerusalemme, l’Anielewicz di Rapoport, concepito da uno scultore nazionalista e ispirato a un’insurrezione ebraica, divenne subito un simbolo per il nuovo Stato ebraico.
In Israele, il monumento si caricò, quindi, di ulteriori significati e divenne centrale nelle politiche memoriali nazionali.
Una copia del monumento approdò anche negli Stati Uniti. A seconda del tempo e del luogo di riproduzione, la sua iconografia si è, però, prestata a incarnare diverse esigenze memoriali.
Mentre a Varsavia e in Israele i temi dell’eroismo e del martirio sono strettamente intrecciati, in America la scelta è caduta solo sul martirio e del monumento di Rapoport è stato riprodotto, a New York, solo il bassorilievo con i martiri.
L’Holocaust Mahnmal di Berlino
Nella Germania uscita sconfitta dalla guerra, a lungo si era continuato a ritenere che il popolo tedesco fosse stata l’unica vittima del conflitto.È solo negli anni Sessanta, infatti, sotto l’influenza del processo Eichmann e dei processi di Francoforte, che questo discorso vittimistico è passato in secondo piano, lasciando emergere le principali vittime dei nazisti: gli ebrei. Decisivo fu, inoltre, l’arrivo al cancellierato di Willy Brandt e il gesto del dicembre 1970 davanti al monumento dedicato agli eroi del ghetto di Varsavia.[16]
Nei successivi anni Ottanta e Novanta, la Germania ha adottato una politica della memoria affidata a grandi opere: il Museo Ebraico, il Memoriale della Shoah, la Topografia del terrore.
Mentre, però, in generale, i memoriali tedeschi, eretti sui luoghi dei crimini nazisti, si sforzano di non sommergere di emozioni il visitatore, ma di consentire un approccio obiettivo e analitico a questa dolorosa problematica, le costruzioni berlinesi sono state concepite per rivolgersi al visitatore attraverso la commozione, per colpirne i sensi con le loro architetture sovraccariche di simboli e per indurre a compatire più che a comprendere.
Dal giorno della capitolazione della Germania nazista, i regimi memoriali si sono evoluti. Diverse “epoche della memoria” si sono succedute e, per quanto concerne la costruzione di monumenti e memoriali, la loro concezione si è enormemente modificata. Per comprendere tale evoluzione è sufficiente confrontare il Monumento per gli eroi del ghetto di Varsavia di Nathan Rapoport con il Museo ebraico di Berlino di Daniel Libeskind (1989-1999).
Libeskind, a differenza di Rapoport, non rinuncia all’astrazione e consacra gli spazi interni del museo a ciò che non può essere riempito, al vuoto e al silenzio, e fonda l’intera concezione dell’edificio sull’idea della discontinuità introdotta dalla storia con la perdita, per la comunità tedesca, della sua componente ebraica.
Qui più che altrove, l’architettura museale non si rassegna a essere un puro luogo di conservazione e di esposizione di oggetti, ma ambisce allo statuto di spazio simbolico significativo. Una nuova forma creativa di riflessione sul passato sollecita la relazione che ciascuno intrattiene con esso, in funzione della propria storia, del proprio vissuto, per creare un rapporto attivo con il presente.
La costruzione del Memoriale di Berlino ha costretto, perciò, a riflettere se esistesse un modo di rappresentazione della Shaoh alternativo al simulacro, al percorso pedagogico, al pieno delle rappresentazioni tradizionali.
Il progetto per la costruzione di un memoriale dedicato agli ebrei europei assassinati risale alla fine degli anni Ottanta. Promotori un gruppo di cittadini, rappresentati da un’animatrice televisiva molto nota (Lea Rosh) e dallo storico Jäckel.
Nel 1994, fu indetto il primo concorso al quale parteciparono 528 architetti.
L’accumulazione di progetti, del tutto inadeguati al soggetto, fece osservare che si sarebbe dovuto considerare tutto quel materiale come una miniera in cui antropologi, psicologi e comportamentisti avrebbero potuto studiare lo stato di una nazione che cercava di erigere un monumento alle sue vittime al fine di purificarsi.[17]
Dei nove progetti segnalati, nessuno, alla fine risultò adatto alla commemorazione delle vittime della Shoah. Vennero organizzati altri convegni con storici e specialisti di monumenti.
Da parte sua James Young, invitato a far parte della commissione che avrebbe giudicato i progetti di un nuovo concorso, affermò che “erano meglio mille anni di competizioni e dibattiti su un memoriale della Shoah che qualsiasi singola “soluzione finale” al problema tedesco della memoria”. Per lo studioso americano esperto di politiche memoriali, l’opera sarebbe dovuta rimanere incompiuta: il dibattito che ne sarebbe sorto avrebbe messo in moto il lavoro della memoria, mentre il suo compimento ne avrebbe prefigurato la fine.[18]
Al termine dei lavori, nel 1997, fu scelto, il progetto degli architetti Peter Eisenman e Richard Serra. Si trattava di un complesso di 4000 steli di diversa altezza che avrebbe delineato un ampio campo funebre, evocativo della distesa di pietre tombali del cimitero ebraico di Praga.[19]
Il progetto ottenne il sostegno immediato e convinto del cancelliere Kohl. Tuttavia, nel gennaio 1998, gli artisti furono invitati a rivedere alcuni aspetti della loro opera e Serra si ritirò dal progetto. La Commissione riteneva che l’altezza eccessiva dei pilastri e le dimensioni troppo vaste avrebbero creato un luogo dove la contemplazione e il ricordo che qui si volevano indurre sarebbero stati sostituiti in maniera brutale dall’angoscia e dallo smarrimento.
Anche così, però, il progetto non ebbe vita facile e, nel 1998, divenne addirittura oggetto di contesa elettorale. L’allora sindaco di Berlino, Eberhard Diepgen (CDU), dichiarò, infatti, che non avrebbe permesso che la città divenisse la “capitale del rimorso”. Nel 1999, si giunse a un compromesso: l’architetto avrebbe rivisto ulteriormente il progetto del memoriale riducendo le steli a 2711 e integrandolo con una serie di costruzioni tra cui un centro di documentazione e una sala per le esposizioni.
Da quando il memoriale è stato inaugurato, il 10 maggio 2005, dopo una gestazione di 17 anni, i giornali tedeschi non hanno smesso di esprimere perplessità e inquietudine.
Lo spazio destinato a diventare un luogo di raccoglimento e di meditazione si è trasformato, infatti, in un luogo di socialità per la gioventù berlinese. Inoltre, come ha notato, il presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, Paul Spiegel, in occasione dell’inaugurazione, al di là delle intenzioni artistiche, il monumento, non affronta il tema della colpa e dei colpevoli, risparmiando all'osservatore “il confronto con la domanda sulla responsabilità”.[20]
Il caso tedesco sembra, dunque, dimostrare l’impossibilità di una memoria condivisa, quella ebraica e quella tedesca. La sofferenza della prima pare faticare a integrarsi con la “vergogna” della seconda.
La cancellazione dell’identità ebraica a Babij Jar
Il conflitto tra memoria ebraica e memoria nazionale appare ancora più evidente nel caso della commemorazione dell’eccidio di Babij Jar, il burrone in cui, nei giorni seguenti all’occupazione di Kiev da parte dei tedeschi (19 settembre 1941), trovarono la morte 33.771 ebrei.Anche a Babij Jar, così come nel resto dell’Europa orientale, la grande fossa comune fu riaperta nell’autunno del 1943 per cancellare le tracce delle esecuzioni.[21]
Negli anni successivi all’eccidio, alla morte fisica di migliaia di ebrei doveva, però, aggiungersi un’ulteriore morte simbolica perché non solo si dovette attendere il 1976 per l’erezione di un monumento, ma, come accadde per gli altri Paesi del blocco comunista, anche in Ucraina mancò per molto tempo qualsiasi riconoscimento etnico delle vittime. L’eliminazione degli ebrei in quanto ebrei era incompatibile con le esigenze di “pacificazione” e “normalizzazione” imposte dalla dirigenza sovietica che interpretava il riconoscimento delle vittime ebraiche come un’ammissione di colpevolezza per aver contribuito alla loro soppressione.[22]
Nelle inchieste giudiziarie sovietiche, che seguirono alla liberazione di Kiev, nel 1943, gli ebrei sterminati a Babij Jar erano destinati a comparire solo come “pacifici cittadini sovietici”. Molti intellettuali[23] che si opposero alla cancellazione dell’identità ebraica furono accusati di “nazionalismo”, ovvero di essere troppo ebraici.
Nel dopoguerra, si continuò a non fare allusione alla sorte degli ebrei di Kiev. Per i sovietici, infatti, non vi era stata alcuna tragedia propriamente ebraica. Nessuna lapide fu apposta nel luogo in cui erano state assassinate migliaia di persone tanto che le autorità locali manifestarono l’intenzione di costruirvi un mercato, uno stadio oppure un parco della cultura che avrebbe ricoperto il burrone.
Per Elie Wiesel, che si recò Babij Jar a metà degli anni Sessanta, il significato del silenzio sul massacro ebraico era riconducibile alla “natura pubblica” del massacro stesso: la popolazione non ebraica aveva visto e udito senza protestare e molti di quei testimoni erano ancora in vita. “Per non indisporre i colpevoli” si era, perciò, reso necessario “non menzionare le vittime”.[24]
Nel 1959, una prima proposta di erezione di un’opera commemorativa aprì il dibattito sulla necessità di ricordare le vittime del nazismo, ma, anche in questo caso, continuava a mancare qualsiasi riferimento diretto agli ebrei.
Nel 1962, il burrone fu ricoperto di terra e, nei suoi pressi, furono costruite delle abitazioni. Il cimitero ebraico poco distante fu completamente distrutto. Nello stesso periodo, si apriva in Ucraina una violenta campagna antisemita e antisionista. Lo stesso Chruščëv denunciava una pretesa collusione degli ebrei con i nazisti durante la guerra.
Nel 1966 fu deposta una stele in cui, però, non si menzionava che le “vittime del fascismo durante l’occupazione tedesca di Kiev (1941-1943)” fossero, per la maggior parte, ebree.
Nel 1976, fu, finalmente, eretta una scultura, ma, anche questa volta, l’iscrizione, “Qui, nel 1941-1943, gli invasori fascisti tedeschi hanno assassinato oltre centomila cittadini di Kiev e prigionieri di guerra”, non ricordava che più di 33.000 persone erano state assassinate per il solo fatto di essere di religione ebraica.
Nel 1989, fu aggiunta una placca in yiddish, ma ancora senza riferimenti all’identità delle vittime.
Soltanto, nel 1991, con l’indipendenza dell’Ucraina, fu, infine, costruito un monumento a forma di Menorah, che fu, però, posto all’entrata del nuovo cimitero ebraico, in un luogo in cui gli ebrei non erano stati fucilati.
Come estremo paradosso, nel 2001, nei pressi del burrone, fu, invece, collocata una croce in memoria dei “patrioti ucraini”.
Le politiche memoriali americane
Anche negli Stati Uniti si dovette far fronte a diverse esigenze memoriali e, come, in Europa, non mancarono i dibattiti su cosa e come dovesse essere commemorato.L’idea di un memoriale americano della Shoah risale al 1978 quando il Presidente Carter costituì la Commissione Presidenziale sull’Olocausto incaricandola di creare un museo e di redigere programmi di ricerca e di educazione. L’iniziativa fu fortemente voluta dai sopravvissuti, ma incontrò le resistenze degli altri membri della comunità ebraica, timorosi che l’interesse nei confronti della Shoah potesse sostituire l’attenzione dovuta ai tremila anni di storia ebraica.[25]
Persino coloro che erano convinti della necessità di costruire un memoriale non erano, però, d’accordo sul luogo in cui tale memoriale dovesse essere collocato e quali vittime del nazismo vi dovessero essere commemorate. Per gli ebrei, la Shoah significava lo sterminio di sei milioni di correligionari che avrebbero, perciò, dovuto avere l’attenzione principale. Ma la Shoah, fu anche detto, aveva colpito una grande varietà di gruppi tra cui, in particolare, gli zingari e gli omosessuali. Altri ancora sostenevano che al genocidio del popolo armeno, per mano dei turchi, dovesse essere riservato uno spazio centrale nel futuro museo.
Dopo anni di discussioni si decise che il luogo più appropriato per un memoriale nazionale fosse Washington DC e che l’attenzione dovesse essere rivolta principalmente al genocidio degli ebrei, anche se non sarebbero dovuti mancare accenni alle altre vittime, in modo che la Shoah potesse essere letta come un evento collegato ai genocidi che l’hanno preceduta e a quelli che l’hanno seguita.[26]
Come nella maggior parte dei musei di storia, anche l’allestimento del museo di Washington rispetta una narrazione dei fatti i cui dilemmi interpretativi sono stati risolti durante la fase di ideazione e non sono più visibili allo spettatore che si limita a contemplare un discorso prodotto a priori.
Nel caso dell’allestimento americano, Ralph Appelbaum ha voluto creare una narrazione storica di crescente intensità emotiva capace di trasportare il visitatore dentro la storia per fargli sperimentare le sofferenze delle vittime in modo da raggiungere una miglior comprensione degli eventi.
Appelbaum era, inoltre, determinato a dare un volto alla Shoah per salvare le vittime dall’anonimato cui aveva cercato di condannarle il regime nazista.
Molta attenzione fu, perciò, posta alle immagini. I volti di una moltitudine di ebrei, come una moderna epifania, avrebbero assalito, sfidato, accusato e, in generale, chiamato in causa il visitatore attraverso tutta l’esposizione.
L’utilizzo delle immagini aprì, però, un dibattito tra i sopravvissuti coinvolti nella realizzazione del museo e gli altri membri dello staff. La discussione riguardava soprattutto il tipo di foto da esporre. Solo quelle delle vittime o anche quelle di chi era sopravvissuto scappando prima dell’inizio dello sterminio? Per i sopravvissuti si trattava di recuperare non solo la memoria dei morti, ma anche quella dei vivi per conservare il ricordo di un mondo definitivamente scomparso, mentre, per il resto dello staff, le immagini dovevano essere funzionali alla drammaticità della narrazione. Alla fine, si decise di includere anche le scene di vita quotidiana che, del resto, nel loro contrasto con le immagini dei morti, rispondevano perfettamente all’esigenza di colpire emotivamente il visitatore.[27]
Il conflitto tra due diverse esigenze memoriali risultò particolarmente evidente a proposito dell’esposizione dei nove chili di capelli umani che il Museo del campo di concentramento di Auschwitz aveva donato al memoriale di Washington.
Il dibattito durò diversi anni e contrappose nuovamente i sopravvissuti all’istituzione museale. L’obiezione maggiore era che se si fosse trattato di un museo situato ad Auschwitz o a Treblinka, ossia nei luoghi delle atrocità, i reperti avrebbero conservato una loro validità, ma a Washington avrebbero corso il rischio di soddisfare soltanto una curiosità morbosa.
In altre parole, ciò che poteva essere accettabile nell’atmosfera eccezionale di un campo di concentramento, non lo era altrettanto nella condizione asettica di un memoriale nazionale americano.
La direzione del museo scelse, tuttavia, di procedere.
Diversi sopravissuti continuarono, però, a opporsi e, alla fine, ottennero che i capelli fossero conservati, ma non esposti.
L’esigenza commemorativa s’impose così su quella educativa, perché, come sottolineò Hilberg, una delle regole fondamentali di qualsiasi discorso sulla Shoah è che il sopravvissuto è superiore al più grande storico della Shoah che non ha vissuto la stessa esperienza.[28]
Ogni memoriale, in conclusione, ha una storia complessa e contraddittoria che il processo di memorializzazione, col tempo e le stratificazioni successive, ha occultato.
L’analisi dei luoghi di memoria rende evidente come il passato si trasformi in memoria collettiva dopo essere stato selezionato e reinterpretato secondo le sensibilità culturali e le esigenze,
anche politiche, del presente.
La domanda a cui si è, pertanto, cercato di rispondere non è se un monumento possa o meno testimoniare di un evento, ma come l’opera sia in grado di organizzare la memoria storica e, di
conseguenza, la memoria collettiva dei diversi gruppi coinvolti negli eventi e depositari di memorie spesso in conflitto tra di loro.
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Note
[1] Enzo Traverso, Storia e memoria. Gli usi politici del passato, Ombre Corte, Verona, 2006.
[2] James Young, The Texture of Memory: Holocaust Memorials and Meaning, Yale University Press, New Haven, 1993.
[3] Tra i numerosi dibattiti sulle immagini occorre ricordare quello che, nel 2000, ha contrapposto il filosofo Didi Huberman e il regista Claude Lanzmann, a proposito dell’utilizzo di alcune foto strappate all’inferno di Auschwitz, e che sconfina nell’interdetto religioso che vieta agli ebrei di riprodurre le fattezze umane. Cfr Mémoires des camps. Photographies des camps de concentration et d’extermination nazis 1933-1999, di cui è stato pubblicato il catalogo nel 2001 a cura di Clément Chéroux e Gorge Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano, 2005; Gérard Wajcman, De la croyance photographique, «les Temps Modernes», 613 (2001), pp. 46-83 ; Élisabeth Pagnoux, Reporter photographe à Auschwitz, «les Temps Modernes», 613 (2001), pp. 84-108.
[4] Marianne Hirsch, Family Frames. Photography narrative and Postmemory, Harvard University Press, Cambridge, 1997.
[5] Génocides, lieux (et non-lieux) de mémoire, «Revue d'histoire de la Shoah», 181 (2004).
[6] Maurice Halbwachs, La mémoire collective, Presses Universitaires de France, Paris 1950 e I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli, 1997.
[7] Aleida Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Mulino, Bologna, 2002.
[8] George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Bari, 1999.
[9] Antonella Tarpino, Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Einaudi, Torino, 2008.
[10] Oltre all’interdetto di Adorno (Scrive Adorno: “La critica della cultura si trova dinanzi all'ultimo stadio della dialettica di
cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”. Cfr. Theodor Adorno,
Prismes: critique de la culture et société, Payot, Parigi, 1986), il problema principale è oggi quello dei limiti della rappresentazione. Il 1989 inaugura, infatti, una nuova stagione
della storiografia del genocidio ebraico. Lo storico Friedländer e venti studiosi riuniti a convegno sondano, per la prima volta, proprio nel 1989, i limiti morali, epistemologici ed estetici
delle narrazioni e rappresentazioni dell’orrore nazista domandandosi se la Shoah possa essere convincentemente descritta/ rappresentata o se, invece, esista qualche aspetto centrale dello
sterminio degli ebrei d'Europa che resiste alla nostra capacità di rappresentazione, di teoria, di narrativa.
In questione furono posti anche i problemi legati alla rappresentazione artistica e all'inadeguatezza delle parole di fronte al genocidio. Cfr Saul Friedländer, Probing the limits of
Representation. Nazism and the “final solution”, Harvard University Press, 1992.
[11] Annette Wieviorka, L’Ère du témoin, Paris, Plon, 1998.
[12] Régine Robin, La mémoire saturée, Stock, Paris, 2003.
[13] Critico circa la nozione di “collective memory” alla quale preferisce il concetto di “collected memories”, James Young teorizza l’inadeguatezza di qualsiasi monumento a rappresentare la Shoah, suggerendo il contro monumento come possibilità di rammemorazione alternativa e maggiormante efficace. Cfr James Young, Holocaust Memorial in History. The Art of Memory, Prestel, New Yourk, 1994
[14] James Young, The Biography of a Memorial Icon: Nathan Rapoport’s Warsaw Ghetto Monument, «Representations», Special Issue: Memory and Counter-Memory, 26 (1989), pp. 69-106.
[15] «New York Times», 18 aprile 1988.
[16] Il 7 dicembre 1970, in occasione della visita al monumento in memoria della distruzione del ghetto di Varsavia, Brandt, inaspettatamente, si inginocchiò. Come più tardi dichiarò, si trattò di una silenziosa e dovuta ammissione di colpa da parte di una persona che, pur estranea all’accaduto, se ne assumeva la responsabilità in quanto tedesco.
[17] Régine Robin, I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della memoria, Ombre Corte, Verona, 2005.
[18] James Young, The Texture of Memory: Holocaust Memorials and Meaning, Yale University Press, New Haven, 1993.
[19] R. Robin, Transfert de mémoire. Autour du Mémorial de Berlin, si può trovare su Internet, insieme ad altri tre saggi sugli stessi temi all’indirizzo: http://www.arts.mcgill.ca/PROGRAMS/RAICC/RAICC%20accueil_fichiers/4essais.htm
[20] «La Repubblica», 10 maggio 2005.
[21] Wolfgang Benz, L’Olocausto, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
[22] Antonella Salomoni,L'Unione Sovietica e la Shoah, Il Mulino, Bologna, 2007.
[23] Il’ja Erenburg compose un poema sul massacro subito dopo una visita a Babij Jar nel 1944, ma ogni tentativo per organizzare una commemorazione cadde nel vuoto a causa dell’antisemitismo della dirigenza sovietica dell’epoca. Cfr Antonella Salomoni,L'Unione Sovietica e la Shoah, Il Mulino, Bologna, 2007.
[24] Elie Wiesel, Les juifs du silence, Seuil, Paris, 1966.
[25] Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino, 1995.
[26] Edward T. Linenthal, The Boundaries of Memory: The United StatesHolocaustMemorialMuseum, «American Quarterly», 3 (1994), pp. 406-433.
[27] Edward T. Linenthal, Preserving Memory: The Struggle to Create America’s Holocaust Museum, Viking, New York, 1995.
[28] Ibidem.