Il cinema di Federico Fellini è tutto tranne che un oggetto studiato occasionalmente. Andrea Minuz però riesce a seppellire il vecchio mito, legato all’equivoco della cultura neorealista prima e realista-marxista poi (espressa al meglio sulle pagine di «Cinema nuovo»), che pretendeva di descrivere il regista riminese come un artista “poetico” proprio in quanto autoreferenziale/autobiografico, onirico perché sempre meno legato al sociale, insomma, un “traditore” del partito della realtà per quello dell’immagine. Attraverso un lavoro capillare su quotidiani, settimanali e pubblicazioni degli anni ’50-90, Minuz offre un quadro di sfondo per la ricezione delle tappe del cinema felliniano. Valgono i principi dei reception studies: non si tratta semplicemente di ricostruire la fortuna critica del regista, quando piuttosto di individuare le idee portanti che stanno dietro ai giudizi, alle attribuzioni di valore e di significato, insomma, agli enunciati che “attestano” i suoi film nella cultura italiana. L’a. ripercorre dibattiti noti e inediti articolandoli intorno a un’ipotesi interpretativa forte: il cinema di Fellini ruota ossessivamente intorno al tema dell’immaturità del carattere italiano. Ogni opera felliniana declina una variante di tale immaturità: il latin lover femmineo e stanco prodotto dai primi effetti della società dei consumi (La dolce vita), la donna in bilico tra remissività cattolica e rivoluzione sessuale (Giulietta degli spiriti), il seduttore seriale inorganico e mortifero (Il Casanova…), il popolo italiano tutto, intrappolato tra miti antichi (una Roma di volta in volta imperiale, fascista, immaginaria) e tentazioni identitarie imposte dall’alto con conseguente deresponsabilizzazione individuale (l’ambiguo rapporto con la memoria del fascismo: Amarcord). Il libro di Minuz dal punto di vista metodologico esplora la possibilità di fare una storia di credenze collettive, saperi imperfetti, nozioni non perfettamente definibili come appunto sono quelle di “carattere” e “identità”: una storia che sia anche un’analisi di un corpus cinematografico in relazione alla sua epoca. Per farlo dialoga con studiosi che hanno affrontato i temi dell’identità e della modernità italiana (Giulio Bollati, Silvana Patriarca, Suzanne Steward-Steinberg), ma anche con serie discorsive eterogenee: dalla letteratura teorica femminista ai dibattiti sui lavori urbani che hanno interessato Roma nel secondo dopoguerra, dalla rassegna delle reazioni critiche a Prova d’orchestra (percepito all’epoca come il primo film espressamente politico di Fellini) a quella dei materiali che testimoniano del complesso rapporto tra il regista e la cultura cattolica italiana.
Il libro si sviluppa in sette capitoli più un’appendice. Nei primi due capitoli l’a. definisce l’ipotesi di fondo del volume: l’incubo di un’infanzia permanente come vera dimensione politica del cinema felliniano è ricostruito prima nel quadro di un cinema italiano che, tra anni ’50 e ’60, funziona da territorio di lotta e definizione identitaria in bilico tra l’ideologia cattolica e quella comunista. Segue l’analisi di Amarcord inteso come il film che permette di indagare sulla memoria del fascismo, sulla sua «nostalgia colpevole», quindi sul ricordo di un’epoca nel momento in cui si prova a rimuoverla, così consegnando a una difficile decifrabilità alcuni nodi essenziali su cui si eserciterà a lungo il dibattito storiografico (per esempio, quello del consenso al fascismo). Il terzo capitolo considera il problema dell’attualità de La dolce vita dal punto di vista dell’evoluzione del costume, in una società sempre più improntata alla falsificazione spettacolare. Il quarto indaga a fondo il mito della romanità. Il quinto si sofferma sulla ricezione da parte della cultura femminista degli anni ’70 di Giulietta degli spiriti, Il Casanova… e soprattutto La città delle donne. Viene qui rifiutato il luogo comune, talvolta alimentato dallo stesso regista in buona compagnia dei suoi esegeti più noti (Peter Bondanella e Tullio Kezich), di un Fellini precursore e fiancheggiatore del femminismo. Il cineasta esprime nel suo cinema posizioni ben più ambigue, nelle quali la donna viene collocata fuori dalla Storia, spesso entro uno scenario di paura ancestrale per una femminilità che confina nel mostruoso, ma nelle quali anche il maschio italiano sembra condannato a un perenne infantilismo compulsivo. Il sesto e il settimo capitolo sono dedicati rispettivamente a un’analisi minuziosa della ricezione di Prova d’orchestra e al ruolo di Fellini nello scenario mediale in pieno cambiamento degli anni Ottanta, uno scenario nel quale la neotelevisione partecipa di un rinnovamento generale dell’industria culturale e dove è possibile delineare i contorni di uno scontro tra due idee inconciliabili dell’immaginario: quella felliniana e quella berlusconiana. Il volume si conclude con un’interessante appendice che riporta brani inediti dal carteggio Fellini-Andreotti. Del rapporto tra i due già si sapeva. Ora, attraverso nuovi dettagli, la complicità tra il regista e l’uomo politico che, mediante precise scelte legislative, è da ritenersi alle origini di quella Hollywood sul Tevere i cui effetti sociali sono al centro di La dolce vita, acquista una nuova luce.