Cercherò di essere asciutto e conciso come lo era la persona che ci troviamo oggi a ricordare. Possiamo articolare la parabola umana e intellettuale di Lino Marini in tre parti: la formazione
giovanile tra Boves, paese di origine, il liceo a Cuneo e la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, ma soprattutto la fondamentale esperienza, esistenziale e politica, della Resistenza sulle
colline di Cuneo come partigiano combattente nelle file delle Brigate Garibaldi dall’autunno del 1943 al 25 aprile del 1945; l’attività scientifica iniziata a Napoli nel 1948 sotto la direzione del
suo Maestro Federico Chabod presso l’Istituto Italiano per gli Studi storici voluto da Benedetto Croce, poi presso la Scuola storica – sempre sotto la direzione di Chabod – dell’Istituto per la
Storia moderna e contemporanea di Roma nel periodo 1950-1954, continuata come ordinario di Storia e filosofia nei licei di Ravenna e Bologna, libero docente nel 1955, professore incaricato di
Storia medievale e moderna nella Università di Urbino nel 1956, quindi dal 1960 incaricato poi ordinario nell’Università di Bologna; infine, l’intensa attività didattica presso la nostra Università
a partire dagli anni ’60, che ebbe a concretarsi in un vasto programma di tesi di laurea di storia moderna e contemporanea e nell’attivazione del Corso di laurea in Storia agli inizi degli anni
’70. Inizierei da quest’ultima parte, per un motivo molto semplice, riconducibile a una elementare constatazione oggettiva ma di forte impatto emotivo; un numero cospicuo di presenti in questa sala
devono la propria presenza all’Università all’opera di Lino Marini. Posso enumerarli in ordine più o meno cronologico di entrata all’Università tra gli anni ’60 e ’70: Giovanni Ivan Tocci, Ottavia
Niccoli, Luciano Casali, Sandro Spreafico – che ha poi seguito altro percorso – Ivo Mattozzi, Ignazio Masulli, Aldino Monti, Alfeo Giacomelli, Maria Malatesta, Cesarina Casanova, Angela De
Benedictis, Giuliana Gemelli, Fiorenzo Landi, Carla Giovannini. Possiamo poi aggiungere due altri allievi che occupano una posizione significativa fuori dell’Università: Piero Bellettini, direttore
della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna e Dante Bolognesi direttore della Biblioteca di Storia Contemporanea “A. Oriani” di Ravenna. Ciò che vorrei sottolineare, tuttavia, è il
fatto che Marini non fu soltanto il boss che cooptò queste persone nell’istituzione accademica, ma svolse un’intensa attività per conferire agli studi storici di Storia moderna e
contemporanea un loro ruolo adeguato e una loro precisa riconoscibilità entro le gerarchie culturali di una Facoltà, come quella di Lettere di Bologna, ove dominava una spiccatissima tradizione
umanistico-letteraria ad opera di italianisti, latinisti e grecisti, che non poteva cogliere immediatamente il valore culturale e simbolico dell’apertura dei ranghi della Facoltà a incarichi e
cattedre di Storia, contemporanea in particolare.
Dirò più avanti della ragione anche personale degli interessi di Marini per la storia contemporanea. Mi limito qui a segnalare il suo intenso lavoro per l’attivazione del Corso di laurea in Storia,
l’uso delle sue relazioni accademiche e ministeriali per l’espansione di incarichi e cattedre – importante fu il suo rapporto con il prof. Luigi Bulferetti, suo referente al Ministero – a vantaggio
di tutta la Facoltà e non solo della corporazione degli storici; in particolare sottolineo la sua azione in favore della piena legittimazione accademica degli studi contemporaneistici, la chiamata
di Enzo Collotti, molto importante in tale prospettiva, e la sua attività di direttore della Deputazione di Storia della Resistenza di Bologna tra il 1973 e il 1979. A completamento di questo
stringato curriculum di Marini, vorrei segnalare, infine, la creazione nel 1987 dell’Archivio fotografico dell’Università di Bologna, primo in Italia, che poi ha cresciuto e gestito fino al marzo
1997, a coronamento di una lunga attività di fotografo della montagna valdostana, che lo ha portato a mostre personali in varie città italiane (Bologna, Ravenna, Milano, San Marino, Courmayeur,
Savignano sul Rubicone, Crevalcore).
All’impegno di legittimazione della storia contemporanea nell’ordinamento accademico lo portava ovviamente la sua formazione di antico antifascista e partigiano, che si inseriva intelligentemente
nella nuova atmosfera culturale e politica scaturita dal luglio del ’60 e da ultimo e definitivamente, dalla “spallata” del ’68. Ma non voglio dilungarmi ulteriormente sulle vicende di questa
ultima parte dell’attività di Marini, anche perché non ne ho una conoscenza compiuta; altri, come Giovanni Tocci e Giancarlo Calcagno, potranno, in un prossimo eventuale convegno su Marini,
documentare meglio di me quest’ultima parte della vita e dell’impegno di Lino Marini. Passerei dunque alla prima parte, riguardante la formazione della sua personalità giovanile, intensa e
drammatica, che ebbe ovviamente una grande importanza anche nella sua vita di studioso.
Su questo periodo della vita di Marini mi avvalgo, oltre che del ricordo dei colloqui avuti con lui, anche di un opuscolo pubblicato da Marini nel novembre 1991 dal titolo Su Rosario Romeo, e
su Federico Chabod. Due momenti per alcune testimonianze, la prima delle quali, Conversazione con Elsa Romeo, era una intervista a Marini da parte della vedova di Rosario Romeo, da
poco scomparso, fatta tra il 1987 e il 1988, sugli anni che i due storici avevano passato insieme tra 1947 e 1948 a Napoli presso l’Istituto Italiano per gli Studi storici del Croce (l’intervista
uscì poi l’anno successivo nel volume curato da Elsa Romeo, La Scuola di Croce. Testimonianze sull’Istituto Italiano per gli Studi storici, Bologna, Il Mulino, 1992, 93-108). Interrogato
sulle ragioni della propria adesione all’antifascismo e alla guerra partigiana, Marini affermava che tali ragioni c’erano proprio “tutte”, maturate dopo «un ventennio di illiberalità», a contatto
con professori e studenti antifascisti, militanti «prevalentemente nel partito d’azione», con la tradizione familiare dei genitori liberal-cattolici, con le letture di Labriola, Croce storico,
Omodeo, Salvemini, del Manifesto di Marx ed Engels, volumi che trovava nella eccezionale biblioteca della scuole elementari di Boves – dove insegnava la madre maestra – «anche dopo che era
stato mandato al confino il direttore di quelle scuole e creatore di quella biblioteca,un prete antifascista di ammirevoli qualità umane e intellettuali». Ho avuto modo di ascoltare, in colloqui
con Marini, nel corso di passeggiate o degli incontri all’Università, confessioni ancora piuttosto risentite sul suo stato di insofferenza contro la dittatura, maturato negli ultimi anni fino alla
caduta del 25 luglio; le ragioni “tutte” della sua scelta antifascista avevano trovato poi il loro “fattore precipitante” il 19 settembre 1943, giorno in cui i tedeschi incendiarono Boves e tra «i
morti di un giorno che ho vissuto», scrive Marini, esse «mi portarono con assoluta naturalissima decisione alla guerra partigiana». Si tratta di capire ora perché Marini, giovane di formazione
liberale, amico di azionisti, e personalmente non comunista, abbia scelto di combattere nelle formazioni partigiane delle Brigate Garibaldi e non in quelle di Giustizia e Libertà.
Nella intervista ne fa intravedere le ragioni, in termini molto discreti, senza alcun riferimento a particolari ragioni politiche. Parlando delle sue frequentazioni degli amici “azionisti” degli
anni immediatamente prima della guerra, Marini scrive: «O essi avevano, semplicemente problemi primari diversi dai miei. O io ero – abbastanza – diverso da loro perché loro vivevano in una città –
dove pure ero nato anch’io – e io vivevo la maggior parte del tempo in un paese e nella sua campagna. Poteva avere il suo peso il fatto che gli amici di Boves, carissimi, fossero piuttosto come
me…» (punteggiatura di Marini). E aggiunge subito dopo: «Non v’è dubbio che noi fossimo innanzitutto ‘salvatici’; e la cosa non ci dispiaceva. Le differenze fra città e campagna allora c’erano e si
sentivano…». Sotto il velo di queste spiegazioni sociologiche ed esistenziali della diversità sua e dei suoi compagni di Cuneo – presumibilmente in gran parte comunisti – nei confronti degli
azionisti, vi erano forse ragioni politiche, sia pure ancora molto generali ed embrionali, maturate magari solo sul pian intuitivo. Ciò che separava il giovane antifascista e partigiano Marini
dagli azionisti era una forse quella differenza di stile – ampiamente esplorata e divulgata dalla storiografia – che lo portava a diffidare del loro brillante stile politico e intellettuale
“girondino” e a preferire il duro e disciplinato stile “giacobino” dei comunisti, unica forza organizzata contro il fascismo, dunque più attendibile, affidabile e seria. Egli abbracciò quel lucido
criterio del realismo storico, cui rimase poi sempre fedele, sia come cittadino che come storico; scelse le formazioni comuniste nel ’43-‘45’ così come avrebbe continuato a votare per il partito
comunista negli anni della Repubblica, non per fede ideologica, ma per una lucida valutazione delle forze in gioco – condivisibile o meno qui non importa – che lo portava a scegliere la forza che
pensava più affidabile nella difesa di certi valori della democrazia laica e del rinnovamento sociale. Fu sempre un liberaldemocratico, un non comunista, che votava per il maggior partito di
opposizione dell’Italia repubblicana. Vi è una testimonianza significativa nell’intervista alla signora Romeo che vale la pena citare e che lo stesso Marini trae dal suo carteggio più che decennale
che intrattenne con Rosario Romeo, sui più svariati temi politici, culturali e di ricerca, su cui i due storici erano soliti scambiarsi informazioni, idee, pareri su libri, ricerche in atto proprie
o altrui (Romeo tra l’altro sottopose al giudizio di Marini i capitoli del suo Risorgimento in Sicilia, man mano che la stesura avanzava e ne riconobbe il notevole contributo di critica in sede di
modifiche e di rielaborazione).
Il 21 luglio 1948 da Giarre Romeo scriveva a Marini facendosi l’augurio «di poter presto riprendere le vecchie conversazioni con quel certo piemontese al quale debbo buona parte dei miei progressi
napoletani». E il successivo 25 agosto affrontava un problema politico cruciale in quella estate calda dopo le lezioni del 18 aprile: «A me pare che assumere un atteggiamento di simpatia nei
confronti del P.C.I., in omaggio a quel che ha di buono, e dimenticando il cattivo, non sia davvero la via migliore: tutto sommato io resto fermo a una politica di Terza Forza: che è la posizione
sulla quale son dovuti arrivare anche coloro che come Parri, La Malfa, Salvatorelli, ecc., tentarono per anni di collaborare coi comunisti senza potervi riuscire. Ciò non vuol dire che io non
riconosco l’importanza che ha l’esistenza di un’opposizione oggi, di fronte a uno strapotente governo dei preti:ma in concreto…per ora guardiamo dov’è il pericolo maggiore; poi penseremo ai preti».
Dalla lettera di Romeo si evince ovviamente il contenuto di quella di Marini, centrata sulla simpatia per il P.C.I come maggior forza di opposizione. D’altra parte nella stessa intervista Marini
sottolinea, rievocando un significativo episodio, come il clima della guerra fredda riuscisse a lambire pure le stanze dell’Istituto del Croce, pur all’interno di una sostanziale serenità e civiltà
di rapporti tra allievi e Maestri.
Nel 1950 Laterza pubblicava i primi tre volumi usciti dall’Istituto: il Giannone di Marini, il Guicciardini di De Caprariis, il Risorgimento in Sicilia di Romeo. Il 20
gennaio del 1951 il politologo conservatore Panfilo Gentile recensiva sulle colonne del Mondo di Pannunzio il volume di Romeo, definendolo riduttivamente «un pregevole contributo a quella che
potremmo chiamare la storia regionale del nostro Risorgimento» e denunciandone i criteri storiografici ispirati a «tutte le influenze della cosiddetta storiografia di sinistra, oggi ritornate in
voga, e di cui il libro di Romeo accusa notevoli tracce (e che) ci riportano ad indirizzi storiografici che dovrebbero essere ormai superati, se Ranke, Burckhardt, Mosca, Croce, hanno insegnato
qualcosa». Il successivo 27 gennaio recensì il Giannone, senza dirne né male né bene, in sostanza riassumendolo. Il 3 febbraio attaccò il direttore dell’Istituto, cioè Chabod in persona.
Occupandosi del saggio chabodiano su Gli studi di storia del Rinascimento nei Cinquant’anni di vita intellettuale italiana,1896-1946, usciti per gli ottant’anni di Croce, il
Gentile espresse «qualche perplessità sui criteri storiografici dell’illustre maestro dell’Istituto napoletano», per poi concludere in questi termini: «Forse andiamo oltre nell’interpretare il
pensiero di Chabod. Forse ci porta fuori strada la vaga tendenza marxistica ed economicistica che è accusata dalla sua scuola. Tanto meglio, se sbagliamo, e se Chabod non merita di essere
sospettato di meccanicismo sociologico». Tutta l’operazione del Gentile aveva un unico scopo: insinuare a Croce – che aveva voluto Chabod alla direzione dell’Istituto a scapito di altri a lui più
vicini, che il Maestro valdostano avallava il materialismo storico degli allievi e faceva dell’Istituto una potenziale fucina di comunisti. La cosa non ebbe alcuna conseguenza nell’ambito
dell’Istituto, ma rimase molto impressa nei ricordi di Marini, che me ne parlò in più di una circostanza e che dovette confortarlo ulteriormente nei suoi convincimenti politici durante il periodo
della “guerra fredda”.
Passando alla trattazione della sua vicenda scientifica, non intendo affrontare ovviamente la complessità di tale vicenda, e mi limito a due considerazioni che riguardano per un verso alcuni
presupposti di metodo e di impegno civile che caratterizzarono la sua attività di modernista, e per l’altro la mancata integrazione della sua attività di ricerca con un versante contemporaneistico,
di cui fu comunque tenace promotore. In un appunto datato il 22/1/1956, con riferimento alla recensione di Pasquale Villani al suo Giannone come studio sulla “formazione e sviluppo del
ceto intellettuale”, Marini osservava: «Nel Giannone era così; ma già tendevo a indagare su quali basi sociali quel ceto poggiasse. Nel Mezzogiorno ho proseguito l’indagine e ritengo con
buoni risultati pratici e metodologici. Nel Des Allymes, il discorso accenna ormai … a considerare non solo la classe politica ma il paese». Era una linea di maturazione verso il sociale
che non era priva di stimoli contemporaneistici che avrebbe voluto coltivare. E’ lui stesso che ricorda come, divenuto allievo della Scuola storica, diretta sempre da Chabod, presso l’Istituto
storico italiano per l’età moderna e contemporanea di Roma, il Maestro lo avviasse allo studio di storia sabaudo-piemontese in contrasto con i suoi progetti: «Io, allora, avrei voluto studiare il
Decennio francese in Piemonte e mi ero preparato a quello scopo un assai bel progetto, ma egli me ne dissuase bruscamente, e di contraddirlo non fu neanche il caso di parlare». E così commenta:
«Dirò solo che la brusca dissuasione…che non mi piacque, solo più tardi scoprii da quale lunga e grande carica problematica e umana venisse, e come il tema delle relazioni tra i Savoiardi e i
Piemontesi venisse da Gioacchino Volpe e Chabod non fosse ancora mai riuscito a proporlo fattivamente a nessuno prima che a me». E’ una spiegazione che Marini mi diede più volte, ma mi sembrò
sempre una razionalizzazione ex post di un incidente che non gli era piaciuto e di una “violenza” subita. Ho sempre avuto l’impressione che Marini virasse verso la storia contemporanea,
cioè, a quel tempo, verso l’Ottocento e il Risorgimento, stimolato dai dibattiti politici e storici dell’epoca, come d’altronde stava facendo il suo amico e compagno di studi Rosario Romeo. Credo
che anche questo episodio abbia contato nella sua battaglia per l’inserimento degli studi contemporaneistici nell’ordinamento della Facoltà bolognese.
Nel concludere questo breve ricordo di Marini, vorrei aggiungere alcune considerazioni di sintesi. Ho già detto del suo giudizio sul ruolo storico e politico del Partito comunista come maggior
partito di opposizione; mi rimane da dire qualcosa sul suo antifascismo. Marini ebbe una concezione molto gobettiana e “torinese” del fascismo come “autobiografia della nazione” ed era quindi
portato a conferire alla categoria storico-politica del fascismo un' estensione concettuale e interpretativa molto larga, comprendente culture e comportamenti di massa dell’epoca nostra che per me
costituivano e costituiscono motivo di indebita attribuzione; ma non si è mai impancato a maestro dell’antifascismo, ad impartire lezioni di “correttezza politica”, ad assegnare patenti ideologiche
in un senso o in altro. Alle mie obiezioni rispondeva di volta in volta, «c’è qualcosa di vero in quello che dici», oppure «non hai tutti torti», il che significava: «Non sono d’accordo con te, ma
nella gerarchia delle ragioni che costituiscono il mio sistema di spiegazione del mondo, c’è un posto anche per le tue ragioni». Lo spirito critico era l’autentico demone su cui era centrata la sua
personalità intellettuale. Uomo riservato, schivo, appartato, incline a rifiutare una proiezione pubblica della sua attività accademica che pure ebbe l’occasione e la possibilità di cogliere. Uomo
schermato, senz’altro “difficile”; ma chi ebbe motivi di litigio con lui sa che si trattò di ragioni accademiche totalmente estranee ai principi della libertà di opinione e di ricerca, che Marini
non mise mai in discussione, radicati com’erano nella sua personalità umana e intellettuale e nella sua autobiografia personale.
Note
[1] Commemorazione tenuta il 3 novembre 2005 presso il Dipartimento di Discipline Storiche, Sala del Priore, in occasione della scomparsa del prof. Lino Marini, ordinario di Storia moderna nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, avvenuta a Bologna il 24 luglio 2005.