A poco meno di tre anni dalla stampa il Dizionario storico dell’Inquisizione sembra essere una scommessa ampiamente riuscita. Ne vale a riprova il fatto che esso si segnali già, per diffuso parere, non soltanto come uno strumento di assoluto riferimento per chi fa ricerca nel campo delle discipline storico-religiose, ma anche come un repertorio di pronta e semplice consultazione aperto al bacino dei non specialisti. «User friendly», lo definisce Gustavo Costa, sottolineando fra l’altro, giustamente, le possibilità di percorsi incrociati di lettura offerte dalle references a piè di voce [2011]. A fare fede dell’importanza dell’opera, prima ancora che le recensioni sulle riviste di settore (un cui censimento è ancora prematuro), l’attenzione che a essa è stata dedicata dalle pagine culturali dei quotidiani nazionali, come pure la sua già ampia diffusione nelle biblioteche di pubblica lettura. Anche su questo si misura il successo di un progetto che, come testimonia Adriano Prosperi nella Presentazione che apre il primo volume, era stato pensato originariamente con ambizioni più contenute e che solo nel corso della fase preliminare di individuazione delle voci e dei collaboratori ha mostrato di poter reggere le dimensioni della grande opera di consultazione, tanto per l’ampiezza e la poliedricità del soggetto quanto, va detto, per l’impegno e la capacità dei curatori [2010b].
Per queste ragioni mi limito a poche e concise considerazioni a partire da un’osservazione piuttosto ovvia: e cioè che la pubblicazione di un dizionario non è, in sé, un fatto ingenuo né
scontato.
Un dizionario, che è una raccolta di voci correlate da un comune riferimento di fondo – sia pure il riferimento elementare dell’appartenenza alla medesima lingua –, può essere visto anche come il
sintomo del riconoscimento da parte della comunità scientifica dell’esistenza di una galassia di significanti sufficientemente autonoma rispetto ad altri insiemi più o meno analoghi: i dizionari
linguistici settoriali (rasento qui la banalità) sono un esempio chiaro di lessici specifici che si qualificano come sottoinsiemi compresi nell’ambito più generico di una determinata lingua.
La stessa cosa vale per i dizionari enciclopedici, fra i quali naturalmente anche quelli afferenti alle discipline storiche (e più generalmente umanistiche): con la differenza che, in questo caso,
essi per lo più non sono soltanto la conseguenza del delinearsi di realtà e fenomeni del passato come oggetti storici dotati di un profilo tematico autonomo e di una propria coerenza interna, ma
anche l’esito dello sviluppo di ricerche individuali e collettive fino al superamento di quella soglia critica che le rende correnti storiografiche vere e proprie.
Cerco di spiegarmi meglio citando due lavori abbastanza conosciuti pubblicati nell’ultimo quindicennio. Il dizionario dell’Illuminismo diretto da Vincenzo Ferrone e Daniel Roche, che si distingue
per un’articolazione non per lemmi bensì per studi dedicati ad aree tematiche e geografiche (a differenza della Encyclopedia of the Enlightenment, che conserva una più tradizionale
struttura lemmatica [Kors 2003]), è dichiaratamente il frutto di una ormai lunga stagione di ricerca sulla storia culturale dei Lumi, intesa come storia di linguaggi e pratiche sociali, che ha
conosciuto i momenti più fecondi nei lavori di Lynn Hunt e Robert Darnton, oltre che dei curatori e dei numerosi contributori del volume [Ferrone-Roche 1997]. Allo stesso modo, il Diccionário
histórico de la Compañía de Jesús deve essere collocato all’interno dell’ormai vastissimo bacino di studi sui gesuiti che da quasi un ventennio a questa parte ha fatto della Compagnia (in
buona parte di quella precedente la soppressione) una realtà con una dignità storiografica tutta propria, spesso largamente – eccessivamente, in qualche caso – slegata da un inquadramento più
generale nelle vicende della Chiesa moderna [O’Neill-Domínguez 2001]. In questo senso, tanto l’una quanto l’altra di queste opere (e parecchie altre accanto a esse, che non cito per brevità) si
qualificano non soltanto come strumenti a disposizione degli studiosi che si muovono negli ambiti di ricerca che vi trovano spazio, ma pure come collettori e sintesi di determinate tendenze
storiografiche, e dunque, inevitabilmente, come apparati che indicano e orientano temi, metodi e prospettive, con una funzione che per certi versi può ricordare quella svolta dai motori di ricerca
attivi nel web.
Il Dizionario storico dell’Inquisizione rientra senza dubbio in questa categoria, e tuttavia con una propria caratteristica peculiare: e cioè il fatto che all’origine della sua ideazione
(è Prosperi stesso a ricordarlo nella prefazione già menzionata) ha agito anche – non soltanto, naturalmente – la forza d’attrazione esercitata da un importante deposito documentale, l’Archivio
della Congregazione per la dottrina della fede.
L’apertura di questo archivio agli studiosi, nel 1998, è stata probabilmente l’evento più celebrato dalla modernistica italiana negli anni recenti: un convegno nel 1998 nella Città del Vaticano,
due nel 1999, a Roma e Montereale Valcellina, un terzo di nuovo a Roma nel 2008 [Borromeo 2003; Del Col – Paolin 2000; Accademia Nazionale dei Lincei 2000; Accademia Nazionale dei Lincei 2011],
discussioni e riflessioni approfondite, nonché una campagna vaticana di appeasement culturale non priva di fortuna sulla grande stampa.
Soprattutto, l’accesso ai fondi di quelle che furono le congregazioni dell’Indice e del Sant’Uffizio da parte di nutrite schiere di studiosi e di intere équipe di ricerca [1], pur non alterando sensibilmente il profilo fino a oggi tracciato della reazione ecclesiastica al dissenso e agli “errori” della
modernità, ha affinato e approfondito in modo sostanziale la comprensione dei meccanismi del dispositivo inquisitoriale e dello sguardo della Chiesa romana sul mondo. Le carte degli inquisitori, in
altri termini, ci hanno detto finora molto di più sul loro mestiere e la loro mentalità che non sulle idee dei loro inquisiti; e non a caso nessun “dizionario dell’eresia” è apparso all’orizzonte a
compendiare la lunga trafila del pensiero eterodosso.
La serie di istantanee “radiografiche” dei processi di controllo, di vaglio e di repressione che hanno diretto l’attività secolare dell’Indice e del Sant’Uffizio ha determinato, insomma, la
necessità di calibrare e sistematizzare un ampio universo di dati e di temi uniti dalla comune appartenenza all’universo inquisitoriale, in qualità di oggetti o di soggetti della vigilanza dei
tribunali: gruppi religiosi, individui, idee, teorie, pratiche, ma anche procedure, istituzioni, apparati, giudici, consultori. Un estesissimo complesso di conoscenze che si è incrociato con quello
relativo alle altre inquisizioni, quella medioevale e quelle iberiche, con le loro propaggini coloniali, sulle quali da un trentennio circa si sono registrati una notevole crescita dell’interesse
storiografico e un decisivo rinnovamento degli studi. È proprio una tale prospettiva inclusiva, capace di cogliere analogie, continuità, ma anche divergenze spesso sotterranee, a costituire forse
la qualità principale del Dizionario e a renderlo qualcosa di molto simile a un percorso ragionato attraverso l’evoluzione del rapporto fra le Chiese cattoliche (inevitabile il plurale) e
il mondo.
L’evenienza oggettiva della disponibilità dell’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede non esaurisce, ovviamente, le ragioni che stanno dietro all’opera. Più di essa hanno giocato
senza dubbio motivi di ordine scientifico che discendono da una produzione ormai imponente di studi sulla Chiesa in quanto istituzione di controllo delle credenze e dei comportamenti. La
ricostruzione dei dispositivi dei «tribunali della coscienza» e delle forme che questi hanno assunto – che, va detto, resta separata dal modello storiografico della Konfessionalisierung
per la maggiore attenzione verso le strategie contenitive e repressive e verso le discontinuità interne alla struttura ecclesiastica, indagata come spazio di conflitto anziché come sistema coerente
di idee e di metodi di governo – ha aggregato in anni recenti alcuni filoni di indagine tra i più importanti della storia religiosa dell’età moderna; quelli di Brambilla, Caffiero, Fragnito,
Frajese, Prosperi – ordinati alfabeticamente – per restare in Italia, sono soltanto i nomi più noti al riguardo.
Da questo punto di vista i meccanismi inquisitoriali, e i conflitti che si celano dietro la loro apparente compattezza, si sono qualificati come una prospettiva privilegiata dalla quale osservare
le dinamiche di potere che hanno guidato la Chiesa e le modalità di controllo delle coscienze che essa ha posto in essere almeno dall’epoca della Riforma. Si tratta di un mutamento di prospettiva
che merita di essere segnalato: se tra gli anni Sessanta e Settanta, nell’epoca aurea dello strutturalismo e della storia sociale, i documenti dei tribunali dell’Inquisizione erano decifrati
soprattutto per ricostruire la vita e la mentalità degli imputati nelle periferie geografiche e antropologiche dell’Occidente, dal Messico alla Linguadoca al Friuli (già nel 1956 Pierre Chaunu
aveva segnalato sulle «Annales» le opportunità fornite da questi giacimenti archivistici [1956]), la loro lettura attuale appare più dominata dall’interesse per la storia “interna” delle strutture
ecclesiastiche.
Ritrovata fascinazione per una cultura che ha saputo recuperare, con il pontificato Wojtyla, un ruolo egemonico nello spazio pubblico? È possibile, come suggerisce la moltiplicazione delle
monografie divulgative dedicate all’Inquisizione a partire proprio dall’apertura dell’archivio romano, alcune fedeli ai presupposti del rigore scientifico [Del Col 2006], altre giocate sul filo di
un ambiguo revisionismo storiografico [Godman 2001], altre ancora dettate da scoperti intenti apologetici[2].
Il Dizionario storico dell’Inquisizione risulta benvenuto, fra l’altro, proprio in relazione alla necessità di fissare precise coordinate storiografiche entro le quali avvicinarsi a un
tema che, più di altri, si presta alle distorsioni, intenzionali o meno. E, anzi, saranno forse il suo respiro tematico e la sua ricchezza di suggestioni a orientare, in futuro, qualche ulteriore
indirizzo di ricerca: le voci più ampie [3] costituiscono infatti delle approfondite messe a punto che trascendono i limiti del
semplice studio della sfera penale, propria dell’Inquisizione, e si aprono alle ragioni teologiche e politiche dell’atteggiamento della Chiesa cattolica verso tanti aspetti della cultura
occidentale. Ci si può attendere che le lenti dei consultori del Sant’Uffizio saranno utili ancora a lungo allo sguardo degli storici.
Bibliografia
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Borromeo A. (ed.) 2003, L’Inquisizione. Atti del simposio internazionale (Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998), Città del Vaticano: Biblioteca Apostolica Vaticana.
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Notes
[1] Si pensi solo a quella della Westfälische Wilhelms-Universität di Münster diretta da Hubert Wolf [2005].
[2] Cammilleri 2001; Hesemann 2009, che tra l’altro ci informa (215) che «il trattamento umano dei detenuti è un’invenzione dell’Inquisizione romana».
[3] Damanti 2010, Astrologia; Di Simplicio 2010a, Stregoneria, e 2010b, Stregoneria, Spagna; Lavenia 2010, Stregoneria, Italia; Caffiero 2010, Antigiudaismo, Antisemitismo; Pavone 2010a, Riti cinesi, e 2010b, Riti malabarici; Delpiano 2010, Illuminismo; Rozzo 2010, Letteratura italiana; López-Vela 2010, Letteratura spagnola.