Negli ultimi decenni si è sviluppato un vivace dibattito sul modo in cui i musei rappresentano la storia, e sul ruolo attivo che assumono nelle politiche della memoria.
Da tempo l’idea del museo come puro luogo espositivo è stata completamente superata. Da più parti, e con diversi approcci, un’ampia letteratura agli inizi circoscritta in primo luogo ad addetti ai lavori ed esperti di “studi museali” ha cominciato ad allargarsi anche ad altri campi disciplinari. E molte voci hanno cominciato a mettere in evidenza in quanti modi il museo eserciti un ruolo importante ed attivo anche nella costruzione di storia.
In primo luogo sono apparse evidenti da un lato le potenzialità, e dall’altro la problematicità degli oggetti e dei reperti che nella loro materialità e fisicità di “cose” sono a volte capaci di suggerire impatti emotivi forti e di stimolare una riflessione intensa e coinvolgente. Questo impatto può prendere spunto dalla memoria vissuta, degli individui stessi o del gruppo al quale essi appartengono. Può stimolare l’intelligenza emozionale e innescare processi di riconoscimento, apprendimento e di analisi complessi, che evidentemente necessitano di opportuni interventi per andare oltre il piano della pura emozione.
In secondo luogo i percorsi museali fatti di spazi e di oggetti, e sempre più aperti verso l’esterno, quasi a simboleggiare la fine di un’epoca in cui il museo era una torre d’avorio per i dotti o una cattedrale nella quale entrare con un atteggiamento di soggezione, hanno accresciuto la loro capacità di coinvolgere ampi gruppi sociali, classi di età, visitatori di diversa provenienza anche nazionale. I musei – che si presentino come luoghi singoli o che si inseriscano invece consapevolmente in reti e si facciano dunque museo diffuso sul modello tracciato da Fredi Drugmann – si propongono dunque come luoghi capaci di avvicinare alla storia pubblici non necessariamente abituati a leggere testi storici.
Dopo gli anni della riflessione sui luoghi della memoria, su usi e abusi della storia e sulla difficoltà di rappresentare, affrontare e superare tutti quei passati che “non passano”, l’attenzione si è da tempo concentrata sul museo come luogo complesso e davvero plurale. Non per caso, la nuova disciplina della public history sta dedicando una crescente attenzione ai musei come luogo di incontro. Non per caso, tante sono le voci, provenienti da campi disciplinari diversi, che si stanno pronunciando su questi temi: quella degli storici non è che una di esse.
Il tema dei musei di storia è complesso, e ricchissimo di implicazioni. Qui abbiamo voluto concentrarci sul modo in cui alcuni di essi trattano temi controversi e difficili, e sanno attrarre e coinvolgere anche coloro che non prenderebbero in mano un libro, e non si avvicinerebbero mai al mondo delle ricerche, pure in tanti casi disponibili. In particolare, ci siamo concentrati su alcuni casi significativi di musei che hanno a che fare con traumi profondi – le guerre, la dittatura, la schiavitù, il racconto della conquista. Lo abbiamo fatto, consapevolmente, chiamando a raccolta voci e approcci disciplinari diversi, nella consapevolezza che proprio la multivocalità e la complementarietà degli orientamenti possano offrire un’utile chiave di lettura a un fenomeno che è ancora lungi dall’aver esaurito il proprio ruolo e dall’essere stato indagato nella sua totalità.
Vale la pena di mettere questi musei della sofferenza e delle vittime in rapporto con un’onda lunga che si è sicuramente aperta con i musei dell’Olocausto. È a partire dalla volontà di mettere in mostra quello che era inizialmente apparso come l’indicibile, che in contesti diversi si è aperta la strada una nuova narrativa. Anche in molti musei nazionali recenti il punto di vista delle vittime ha preso – in qualche modo con orgoglio – il posto del racconto dei vincitori. Sono stati i campi di concentramento e di sterminio, alcuni dei quali aperti al pubblico immediatamente dopo la guerra e poi il modello di Yad Vashem (1953) ad aprire questa nuova strada. Oggi, persino nei nuovi musei cinesi come quelli riorganizzati per l’anniversario della vittoria nella seconda guerra mondiale o come quello dedicato alle vittime del massacro di Nanchino, si è affermato un discorso di questo tipo, ribaltando paradigmi che parevano consolidati. Non paia strano citare casi tanto lontani da quelli qui richiamati: di qualsiasi museo ci si voglia oggi occupare è difficile non tener conto – almeno sullo sfondo – di un quadro globale sia nelle forme della musealizzazione che della narrativa, non considerare i contatti e continui richiami di esempi anche apparentemente tra di loro assai lontani.
Nella nostra età globale, insomma, anche il fenomeno dei musei di storia e dei musei dei traumi non può essere letto se non all’interno di un ambito globale, di prestiti, di ibridazioni, di scambi e di riflessioni che da un lato coinvolgono il pubblico e la società civile di un singolo paese, e talvolta specifici gruppi all’interno di essa, ma dall’altro fanno parte di una koinè comune che sarebbe impossibile ignorare, e che si è imposta con forza con il finire della guerra fredda.
I saggi che seguono parlano da soli. Essi mettono in luce aspetti specifici di musei africani, meso e sudamericani, europei: musei recenti in cui stato e società civile hanno giocato ruoli diversi, e diversamente intrecciati. Soprattutto, suggeriscono l’esigenza di andare coraggiosamente verso il superamento completo degli steccati disciplinari, per aprire invece un utile dialogo tra architetti, antropologi, semiologi, storici dell’arte e storici tout court dell’età contemporanea e non, di solito identificati con specifici ambiti disciplinari, e con spazi ancora più definiti.
I saggi che seguono aiutano invece a porsi domande nuove, come quella sull’uso dell’arte (e della bellezza) per raccontare traumi e per introdurre riflessioni delicate, rispettose e profonde su realtà dolorose e su traumi ancora troppo vicini. Suggeriscono così di ragionare anche sulla individualità delle “cose”, degli oggetti, delle immagini e della loro interpretazione e di coglierne la specificità (e a volte le manipolazioni) allorché esse siano state o siano presentate come “oggetti testimoni” di massacri, privazione della libertà, torture, e dei disastri della guerra.
È dunque importante avviare anche sulle pagine di questa rivista una riflessione che si è aperta tra studiosi di vari campi disciplinari: storici attivi in vari settori, come la storia contemporanea e quella dei Balcani dell’Europa dell’Est, dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, sociologi, museologi, architetti, storici dell’arte che – ciascuno dal proprio punto di vista e con i propri strumenti – affrontano una realtà che appare difficile da afferrare da una unica prospettiva.
Più che illustrare con qualche parola ciascuno dei saggi preferisco dunque concludere questa sintetica introduzione suggerendo quanto sia importante incrociare sguardi diversi per cercare di andare più in profondità.
E quanto sia stato e sia ancora importante il fatto che alcuni musei o luoghi della memoria sappiano farsi collettori di memorie, di oggetti, di storie orali e interviste, di materiali personali o artistici che di questi eventi costruiscono veri e propri archivi, talvolta salvando qualcosa che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduto e sparirebbe nell’oblio. Senza dimenticare, peraltro, che si tratta di operazioni complesse e non sempre prive di equivoci, e che anche i musei possono essere luoghi di orientamento non sempre positivo di un “turismo nero” e possono fermarsi a sollecitare passioni e emozioni senza scoprire fino in fondo tutte le implicazioni delle politiche che li hanno generati.