1. I “novelli” cattolici
Il 22 luglio del 1680 Anton Stefanov, minore osservante čiprovacense e vescovo di Nikopol nella Bulgaria ottomana, inviava ai cardinali di Propaganda Fide l’annuale relazione per informare la Congregazione romana dello stato di salute dell’area sottoposta alla sua giurisdizione. Ciò che aveva constatato, lamentava sconsolato, era lo stato di profonda ignoranza dottrinale e indisciplina confessionale che caratterizzava le poche comunità di cattolici sottoposte alla sua giurisdizione. Si trattava di gente rozza, «barbara e rustica senza la virtù», uomini e donne per giunta insofferenti ai rimproveri dei prelati cattolici, pronti persino a farsi «turchi» per evitare le ingerenze dei missionari (Primov et al. 1993, 447). Oberati dal testatico che in quanto non musulmani erano tenuti a corrispondere all’amministrazione ottomana, «quelli poveri novelli Christiani» rappresentavano una vigna arida e difficile per i pastori cattolici, con pochissima o nessuna speranza di «profitto spirituale» (ibid.)
In realtà, tutte le comunità cattoliche distribuite nell’area balcanica, che sin dal XIV secolo aveva iniziato a gravitare nell’orbita della Sublime Porta, costituivano per la Santa Sede e per i suoi agenti, i missionari, una fonte di preoccupazione costante e un tema spinoso con cui misurarsi. Per scongiurare il rischio di un’emorragia confessionale – l’incubo di una massiccia conversione all’islam continuava ad agitare i sogni dei pontefici – e per allontanare, al contempo, il fantasma di una sudditanza, anche teologica, dei cattolici rispetto alla maggioranza ortodossa, il papato aveva predisposto, sin dalla seconda metà del Cinquecento, una serie di visite apostoliche nel tentativo di acquisire una migliore conoscenza delle condizioni dei cattolici presenti nella regione (Ó hAnnracháin 2020, 141). La carenza e l’ignoranza del clero locale, l’indisciplina confessionale dei cattolici, il rischio della conversione alla religione islamica rappresentavano solo alcuni fra i gravissimi pericoli individuati dai visitatori. Pertanto, sulla base delle informazioni raccolte, nel corso del secolo successivo – e soprattutto dopo la fondazione di Propaganda Fide (1622) – fu promosso e organizzato un coerente e organico programma missionario: lo scopo, nel pieno spirito della Chiesa post-tridentina, non poteva essere che quello di rinvigorire i flebili e porosi argini confessionali delle comunità cattoliche locali al fine di garantirne la sopravvivenza [1].
Ma chi erano, in particolare, questi cristiani chiamati dai missionari “novi” o “novelli” – similmente a quanto avveniva, ad esempio, per i moriscos spagnoli – che caratterizzavano il panorama confessionale della Bulgaria ottomana? Si trattava dei pauliciani, la cui conversione al cattolicesimo era stata promossa, soltanto a partire dalla fine del XVI secolo, dai minori osservanti bosniaci che nel 1595 avevano fondato una missione entro i confini della Bulgaria ottomana. I pauliciani, anche dopo la conversione alla fede romana, rimasero ben distinti dai cattolici cosiddetti “antichi”, le cui comunità erano costituite da sassoni (o “sassi”) – cioè minatori cattolici di lingua tedesca stabilitisi in Bulgaria, Serbia e Bosnia a partire dal XIII secolo – bulgarizzati, presenti soprattutto a Čiprovci e nei villaggi circostanti, Kopilovci, Železna e Klisura, e da colonie di mercanti ragusei e veneziani (Stantchev 2011, 212).
2. Dal Caucaso alla Bulgaria
A lungo si è discusso dell’origine e della diffusione del paulicianesimo, un movimento cristiano nato in area caucasica nel VII secolo. Tuttavia, come ha osservato laconicamente Stefano Fumagalli nella sua recente pubblicazione sul tema, ancora oggi «i Pauliciani sono in parte un enigma» (Fumagalli 2019, 49). La stessa etimologia del termine “pauliciani” è oggetto di dubbio: se le fonti greche e armene rinvengono la radice della parola nel nome del vescovo di Antiochia Paolo di Samosata (260-268), le fonti prodotte di ambito pauliciano rivendicano piuttosto una relazione con il nome dell’apostolo Paolo, venerato con particolare devozione dai membri del movimento (Dixon 2019, 263-4). Essi, del resto, ritenevano la propria fede più autentica e più pura di quella dei romei e degli altri cristiani, perché maggiormente aderente alle indicazione dell’apostolo di Tarso.
Giunti nell’Anatolia bizantina fra l’VIII e il IX secolo, godettero temporaneamente di una certa tolleranza e del favore degli imperatori di Bisanzio. Nel corso dei primi due decenni del IX secolo i pauliciani, accusati di essere dualisti al pari dei manichei, divennero oggetto di una violenta persecuzione [2]. Le vessazioni ricominciarono poi dopo l’843 – anno in cui l’iconofilia venne pienamente ripristinata nell’impero d’Oriente: secondo una lettura tradizionale, la tendenza iconoclasta dei pauliciani, divenuta oramai intollerabile agli occhi delle autorità politiche e religiose iconodule, avrebbe determinato la ripresa di un intransigente politica di repressione (cf. Stoyanov 2012, 108-111). Tuttavia Carl Dixon, nel suo recente volume “The Paulicians. Heresy, Persecution and Warfare on the Byzantine Frontier”, ha messo in discussione questa ipotesi: lo storico ha infatti sottolineato come anche imperatori noti per le proprie posizioni iconoclaste come Leone V (m. 820) avessero in realtà manifestato e e promosso, nel corso del nono secolo, un atteggiamento di aperta ostilità nei confronti della comunità religiosa di origini caucasiche (Dixon 2022, 189-201) [3].
In che periodo, dall’Anatolia bizantina, i pauliciani raggiunsero l’area della Bulgaria? Le prime comunità si stabilirono nella regione della Tracia durante il regno di Costantino V (741-745). Una seconda ondata migratoria verso l’area della Bulgaria fu in seguito promossa, nel X secolo, da Giovanni I Tzimisces (969-976), intenzionato a costituire un contingente militare per difendere i confini dell’impero dagli attacchi dei Bulgari e degli altri popoli balcanici. Un cospicuo numero di comunità fu così dislocato nei pressi della città di Plovdiv, che divenne, nei due secoli a venire, una roccaforte militare, politica e religiosa dei pauliciani. All’inizio del XIII secolo alcuni gruppi emigrarono dalla Bulgaria centro-meridionale per stabilirsi più a nord, nel distretto della Zagora, in un’area compresa fra la catena della Stara Planina (o monti Balcani) e il corso del Danubio (Fumagalli 2019, 91; Saldzhiev 2019, 664).
Così ebbe inizio la storia bulgara dei pauliciani. Ben insediatisi nella regione, intrapresero un lento e progressivo processo di slavizzazione e “bulgarizzazione” linguistica: e infatti, in tutti i documenti e le lettere prodotti nel XVII e XVIII secolo, i missionari cattolici al servizio nella Bulgaria ottomana identificavano i membri delle comunità come pauliciani (paulianisti, o pauliani) bulgari «della natione slava», cioè parlanti lingua bulgara [4].
Ma anche in Bulgaria, come nell’Anatolia bizantina, la strada per l’integrazione si rivelò ardua e accidentata. Fra il XIII e il XIV secolo, così come i bogomili e gli altri gruppi di cristiani eterodossi presenti entro i confini del secondo impero bulgaro (Vtorо Bălgarskо Tsarstvo), i pauliciani furono oggetto di una violenta persecuzione promossa dal Patriarcato ortodosso di Tarnovo. Riuscirono però a sopravvivere alla repressione: come è stato osservato, è tuttavia probabile che il declino dell’orientamento dualista possa essere letto come una diretta conseguenza dell’attività anti-ereticale sostenuta in quei secoli dalla chiesa ortodossa bulgara (ivi, 670). A ogni modo, essi preservarono alcune caratteristiche peculiari del proprio orientamento religioso, conservando intatta la propria coesione comunitaria anche in seguito alla conquista ottomana della Bulgaria, avvenuta nel corso del XIV secolo. L’amministrazione ottomana garantì peraltro ai pauliciani un discreto livello di tutela e protezione che poneva le loro comunità al riparo - almeno sul piano della teoria - da eventuali tentativi di ingerenze esterne (Radeva 2017, 383).
3. I minori osservanti bosniaci nella Bulgaria ottomana
I frati minori osservanti bosniaci, arrivati in Bulgaria nel 1595, al seguito di Pietro Salinate, fondatore della missione, avevano così trovato nella “Turchia europea” una potenziale palestra di evangelizzazione: se nel resto della regione balcanica gli “agenti” della Santa Sede erano precipuamente chiamati a supportare nella fede l’esiguo numero di comunità cattoliche già esistenti – e non a convertire “turchi” e “scismatici”– nella Bulgaria ottomana ebbero modo di spendersi attivamente per la conversione dei pauliciani, ritenuti “infedeli” tanto dai cattolici, quanto dagli ortodossi. A tal fine, come attestato dalle lettere dello stesso Salinate, i frati bosniaci ottennero una specifica autorizzazione, necessaria per entrare nei villaggi dei pauliciani, rilasciata dalle autorità ottomane (Fermendžin 1887, 18).
A ben vedere, in realtà, i pauliciani dichiaravano sorprendentemente di professare già la «fede Romana», ma, secondo le fonti missionarie, prima dell’arrivo dei frati bosniaci in Bulgaria
Questi Paulianisti non si battezzavano; solamente giorno dell’Epifania venivano in chiesa; et il prete loro pigliava una candela et toccava con quella in quattro parti ognuno nella testa, et questo chiamavano il battezimo della fiamma di S. Giovanni Battista. Non havevano nissun altro sacramento; quello che sapeva leggere qualche cosa, li davano un bastone in mano, el’ facevan prete, et non faceva altro che celebrar li matrimonj con ligar le mani alli sposi e dir certe parole così a mente, et bever con loro, et benedir con certe orationi li bichieri; et quelli che non sapevano queste cerimonie, dicevano, che è un ignorantone (Fermendžin 1887, 79).
Non celebravano i propri riti all’interno di chiese, ma avevano adibito a luoghi di culto abitazioni private all’interno delle quali organizzavano banchetti rituali e festeggiavano cantando e danzando. Fatto assai più grave, aborrivano il segno della croce, che non potevano «in alcun modo patire» e continuavano a sostenere che adorare la croce e le immagini sacre fosse un atto di idolatria, «essendoli ciò stato insegnato da un’heretico Paolo, dal quale anco ha tolto questo nome Paulianista» (ivi, 17). Gli sforzi profusi da Salinate, vescovo di Sofia dal 1601, finirono per guadagnare alla causa cattolica qualche buon risultato: nel 1622, il prelato dichiarava – con eccesso di ottimismo – di aver battezzato e ridotto all’osservanza della fede romana un cospicuo numero di pauliciani (ibid.). È un dato di fatto, a ogni modo, che i pauliciani convertiti divennero, progressivamente, una parte consistente e importante dell’universo cattolico bulgaro, fino a quel momento rappresentato soltanto dai mercanti e dalla comunità di sassoni.
Il successore di Salinate, Pietro Deodato Bachsich (Petar Bogdan Baksić), originario proprio di Ćiprovci e arcivescovo di Sofia dal 1642 al 1674, raccolse l’eredità del fondatore della missione, spendendosi attivamente per la conversione di coloro che non avevano ancora ricevuto il battesimo. Nel 1648, accanto all’arcidiocesi di Sofia, fu istituito l’episcopato di Nikopol, proprio allo scopo di sostenere nella fede le comunità di pauliciani stanziate nell’area settentrionale della regione: l’incarico di vescovo fu immediatamente affidato a Filippo Stanislavov (Filip Stanislavov), sacerdote secolare di origine pauliciana – era nato a Oreš, nei pressi di Nikopol – formatosi fra Roma e Loreto (Stantchev 2011, 227).
Dopo la conversione a opera dei missionari alcune importanti conquiste furono in realtà raggiunte, soprattutto sul piano della venerazione della croce e delle immagini: nel 1647, Deodato attestava per esempio che nei villaggi intorno a Plovdiv, dopo la messa e la benedizione, i neofiti cattolici ora accorrevano per ricevere in dono rosari, Agnus dei, piccole medaglie e immaginette dei santi (Primov et al. 1993, 54). Tuttavia, molte delle consuetudini contro le quali i missionari cattolici si erano scagliati sin dalla fine del XVI secolo continuavano a colorire e caratterizzare la vita religiosa e sociale dei pauliciani. In primo luogo essi rifiutavano l’imposizione del calendario gregoriano, seguitando a calcolare le festività e le ricorrenze religiose secondo quello giuliano, che osservavano in comunione con gli “scismatici” (Saldzhiev 2019, 670). Si ostinavano oltretutto a banchettare bevendo a dismisura in occasione di ricorrenze e festività religiose; celebravano i funerali in modo illecito e superstizioso rifiutando di adeguarsi alle modalità di sepoltura e al rito delle esequie indicati loro dai missionari. Anche coloro che non avevano ricevuto il battesimo, peraltro, si rivolgevano con insistenza ai ministri cattolici per la celebrazione dei funerali dei propri cari defunti. Si trattava di un atteggiamento inconcepibile agli occhi dell’arcivescovo Deodato, che rifiutava di accogliere richieste simili: «quelo non è stata n[ost]ra pecora, come volete che vada n[ost]ro sacerdote à sepelirlo?» (Fermendžin 1887, 209). La divisione fra i due gruppi, cioè fra i cattolici “novelli” e gli “infedeli” – e cioè i pauliciani non ancora convertiti alla “vera fede” – doveva essere ribadita ed enfatizzata nel corso della vita quotidiana e assumeva forse un’importanza persino maggiore al momento della morte, nell’opinione del prelato. Una frangia sostanziosa della comunità, all’opposto, continuava a manifestare un risoluto attaccamento alle proprie tradizioni, anteponendo l’unità culturale e sociale del gruppo alle regole e alle divisioni esogene introdotte dai missionari.
4. Gli ultimi decenni del XVII secolo
Non sorprende, dunque, che alla seconda metà del XVII secolo il vescovo Stefanov riscontrasse fra i pauliciani il persistere di gravi errori dottrinali e di atteggiamenti bollati come espressione di una bieca superstizione. Essi non portavano il dovuto rispetto né ai vescovi, né tantomeno ai sacerdoti che offrivano loro conforto spirituale e sacramenti. Molti pauliciani continuavano a rifiutare il battesimo, altri partecipavano raramente alla messa; ancor più di rado si accostavano al sacramento della confessione: molti adulti di 40 o 50 anni, denunciava il prelato, non l’avevano mai ricevuta. Nemmeno i malati acconsentivano, tanto che, per porre un argine al problema, il prelato aveva negato l’ingresso in chiesa ai corpi dei defunti che non si fossero confessati prima del decesso.
I cimiteri, come nel villaggio di Casale di Calecie, località nei pressi di Plovdiv, si trovavano in luoghi distanti dalle loro ville, more turcico, e sulle sepolture dei loro cari i pauliciani non ponevano alcun segno distintivo – neppure un croce – ma solo una semplice pietra [5]. Trascorsi però circa sette o otto anni dal decesso, fra i membri della comunità era diffusa l’usanza di raccogliere un’offerta in denaro per ogni morto. Con quella somma,
comprano pane, vino et altre simili cose et ammazzano molti agnelli, secondo possibilità della Villa, e s’adunano tutti intorno la chiesia [sic.] er apparichian’a mangiare e per 3 giorni mangiano e beveno per li lor morti e va il prette et ossequia li sepulchri, uno per un’o li danno due aspre di qualsi voglia sepulchro e le pelli dell’agnelli e così levano le pietre sopra lor sepulchri (Primov et al. 1993, 455).
La pratica descritta da Stefanov – che nei fatti ci appare come una cerimonia di disseppellimento rituale – suggerisce forse una relazione con il cosiddetto rito della “doppia sepoltura”, piuttosto diffuso, come ebbe già a notare Evel Gasparini, in area balcanica (Gasparini 1955, 225-30). In effetti, nella relazione non troviamo informazioni relative all’esumazione dei corpi dei defunti (non è possibile cioè sapere che tipo di trattamento ricevessero), tuttavia è significativo il fatto che la rimozione delle pietre poste sopra ai sepolcri avvenisse al termine di un banchetto rituale collettivo celebrato per tre giorni – secondo una procedura in tutto simile a quella osservata in occasione dei funerali pauliciani – e, peraltro, dopo un periodo di sette (o otto) anni dal momento della sepoltura del corpo: come riferisce lo stesso Gasparini, gli studi relativi all’uso nell’area dell’attuale Macedonia del Nord (per esempio nelle località di Prilep e Štip) indicano che, ancora nella prima metà del XX secolo, la riesumazione dei corpi poteva aver luogo dopo tre, sette (come nel caso della cerimonia descritta da Stefanov) o diciotto anni (ivi, 226). È possibile ipotizzare, a questo proposito, che il rito collettivo celebrato dai pauliciani dopo questo lasso di tempo costituisse il momento conclusivo di lungo processo di metabolizzazione della morte, il momento di separazione definitivo dei defunti dalla società dei vivi.
È peraltro evidente che il cibo e il vino continuavano, negli anni Ottanta del Seicento, a giocare un ruolo chiave all’interno della spiritualità pauliciana e in particolare nell’ambito degli usi funerari: il pane e la carne degli agnelli macellati erano espressamente consumati come offerta «per li loro morti», cioè per le loro anime – un atteggiamento decisamente contrario al modello devozionale indicato come lecito dai missionari e dalla Chiesa post-tridentina. Secondo la ricostruzione di Stefanov, i pauliciani chiamavano questi agnelli o gli altri animali uccisi e consumati col nome
[…] turchesco “Kurban”, in illirico [sic.] “Xartua”, cosa che s’osserva in questi paesi esattissimamente, tanto dalli Turchi, Bulgari, Greci, Zingari, quanto d’essi Paulianisti, e se qualche uno direbbe incontrario, si scandalizzerebbero tutti, e lui sarebbe punito tanquam blasphemus in deitatem. Quando qualcuno ha da far il detto Kurban, va il sacerdote ovvero un altro che sa leggere e dice una delle benedizioni comuni sopra la vittima viva, e l’asperge con acqua benedetta, di nuovo lo chiamano di notte, a benedirgli la tavola (Primov et al. 1993, 454-5).
Si trattava, dunque, di un vero e proprio rito sacrificale che avveniva, per di più, con il coinvolgimento del clero cattolico, chiamato a benedire l’offerta. Tale uso, come già lo stesso Stefanov aveva correttamente notato, non era in realtà diffuso soltanto nell’ambito della comunità pauliciana: anche «Bulgari, Greci, Zingari» e musulmani praticavano questo tipo di cerimonia. Da fonti missionarie più tarde apprendiamo pure che la stessa consuetudine era praticata, oltre che in «molti luoghi di Bulgaria [anche in] Servia et Albania» (Jerkov Capaldo 1990, 538). Il kurban si configurava perciò – fuor di ogni dubbio – come un rito interreligioso presente in diverse aree della regione balcanica. In Bulgaria, l’usanza era talmente in voga che quanti ardivano dichiararsi contrari alla pratica erano ritenuti blasfemi e come tali puniti.
Trasversalmente diffuso presso ortodossi, cattolici e musulmani, il rito era indicato in turco col nome di “kurban”- come annotava il prelato čiprovacense. In realtà “kurban” (o “qurban”, in arabo) è un termine di origine semitica utilizzato nello stesso testo coranico (Wensinck 1986, 436) che significa “sacrificio” o “vittima sacrificale” (è per esempio correlato alla parola ebraica “korban”, con cui, allo stesso modo, si indica il sacrificio) [6]. Nella tradizione islamica, in particolare, il sacrificio rituale è un elemento caratterizzante delle due festività Kurban Bajram (in araboʿīd al-aḍḥā o īd al-qurbān, la ricorrenza celebrata nell’ultimo mese del calendario lunare islamico, Dhū l Ḥijja) e Ramazam Bajram (in arabo īd al-fiṭr, cioè la fine del mese di Ramadan, durante il quale, come noto, si pratica il digiuno). Durante l’īd al-qurbān, alla fine del pellegrinaggio verso La Mecca, viene sacrificato un animale (ovino, caprino o bovino) nel ricordo del sacrificio di Abramo, pronto a offrire il figlio (Isacco o Ismaele, a seconda della tradizione esegetica) – poi sostituito da un montone per intervento dell’angelo – come atto di totale sottomissione a Dio.
Secondo Biljana Sikimić e Petko Hristov, curatori del volume Kurban in the Balkans (2007), che esplora il ruolo del sacrificio nelle società contemporanee [7], è possibile che il termine sia arrivato in area balcanica con la conquista ottomana: il rito sacrificale, tuttavia, era preesistente e risaliva probabilmente alla tradizione pre-cristiana (Sikimić e Hristov 2007, 10). In effetti, come sappiamo dalle testimonianze dei missionari, fra i pauliciani erano diffusi almeno due termini di origine slava per indicare la cerimonia: služba (службa, parola utilizzata soprattutto per i sacrifici celebrati privatamente), traducibile con “servizio”, e žе́rtva (же́ртва), – reso nella testimonianza di Stefanov come “xartua” – il cui significato è proprio “vittima”, oppure “sacrificio” [8].
5. I kurbani: un problema settecentesco?
L’uso del termine kurban, nel corso del Settecento, si impose anche nelle lettere inviate alla Congregazione de Propaganda Fide: nel secolo precedente le relazioni di prelati e missionari registravano, in un certo senso, le timide tracce e il riflesso del rito celebrato soprattutto in occasione dei funerali pauliciani senza tuttavia descriverne nel dettaglio le finalità e le procedure. L’attenzione, più che altro, era rivolta ai lauti banchetti rituali organizzati al momento della sepoltura o allestiti per celebrare importanti festività religiose, come è evidente, per esempio, dalle relazioni di Pietro Deodato. In questo senso, dunque, la testimonianza del vescovo Stefanov costituisce un unicum: si tratta – stando alle mie conoscenze attuali – della più antica attestazione del termine kurban in un documento prodotto dai missionari cattolici.
Nel secolo successivo le cose cambiarono drasticamente e, insieme all’uso del termine, il problema stesso dei riti sacrificali prese a catalizzare (per non dire a monopolizzare) l’attenzione dei missionari. Nelle lettere a Propaganda, le descrizioni del rito si moltiplicarono perciò a dismisura, divenendo via via più dettagliate: una più chiara luce era così gettata sulle modalità e sulle finalità dell’offerta sacrificale. Esistevano i kurbani offerti per i defunti (celebrati sia in occasione dei funerali, sia, come abbiamo visto, durante i riti di “doppia sepoltura”), ma anche quelli performati per la fertilità dei campi e delle donne, o ancora per la salute dei membri della propria famiglia e in particolare dei bambini. Nuovi dubbi e perplessità si erano perciò contestualmente incuneati nelle coscienze dei più zelanti prelati e missionari: come dovevano agire di fronte a quelle singolari cerimonie, in tutto e per tutto lontane dalla norma romana? «Si può dire», per usare le parole di Janja Jerkov Capaldo, «pur con le dovute differenze, che la questione dei kurbani rappresentò per la Bulgaria di allora ciò che la questione dei riti cinesi e malabarici fu per l’Occidente europeo» (1990, 529).
Occorre precisare, a tal proposito, che l’universo cattolico bulgaro, all’alba del Settecento, era profondamente mutato rispetto al secolo precedente: nel 1688 le comunità cattoliche residenti nella città di Ćiprovci e nelle aree circostanti erano insorte contro gli ottomani, sicure di un pronto supporto dell’Austria asburgica. Le speranze degli insorti furono tuttavia disattese: l’esercito ottomano aveva così sedato la protesta nel sangue e raso al suolo i villaggi coinvolti. I sopravvissuti di Čiprovci emigrarono verso la Valacchia, guidati dall’allora arcivescovo Stefano Conti (Stefan Knezević), per poi dirigersi nel Banato nel corso del XVIII secolo [9].
Le conseguenze, per la comunità cattolica bulgara, furono irreversibili: la galassia del cattolicesimo urbano gravitante intorno all’attività di mercanti e artigiani – che era andata rafforzandosi nel corso del Seicento – andò incontro a un collasso inevitabile. La sopravvivenza della fede cattolica, a questo punto, restò per lo più legata al mondo rurale, quello dei pauliciani, che seppe resistere e conservarsi: rimasti senza punti di riferimento, i cristiani “novelli”, avevano però finito per riattizzare le loro antiche credenze.
In particolare, la tradizione dei kurbani – come attestava nel 1705 il visitatore apostolico Paolo Ioscich (Jošić), di origine dalmata – era ancora viva e radicata, tanto fra le comunità residenti nei dintorni di Plovdiv, che fra quelle di Nikopol [10]. Per ben quattordici volte nel corso dell’anno, gruppi di pauliciani si riunivano all’aperto, sotto un grande albero e lì sacrificavano un animale che poi era consumato da tutti gli astanti: contestualmente erano offerte preghiere «per l’anime de loro defonti, che credono con tal funzione restar molto sollevate» [11]. I rituali – come aveva già osservato Stefanov – erano celebrati alla presenza e con la collaborazione di un membro del clero locare o missionario, che riceveva in cambio la pelle e una spalla dell’animale ucciso: era proprio a motivo di questa lauta remunerazione – asseriva il visitatore apostolico – che i religiosi continuavano a tollerare il perpetrarsi di questa pratica illecita (ibid.).
Lontano dall’occhio dei prelati, che solo di rado e assai in fretta avevano modo di visitare la diocesi, l’ambigua condotta dei pauliciani era andata così radicalizzandosi, come ebbe a notare nove anni dopo il missionario Marco Andriasci (Andriaši), tanto che quei sacrifici noti come kurbani, che tanto ricordavano le usanze pagane dei gentili, rappresentavano in quegli anni la «maggior loro divotione» (Jerkov Capaldo 2006b, 103). Quali animali erano uccisi «ad honor di Dio» nel corso del rituale? Si trattava per lo più di animali mondi, in linea con la distinzione già operata nell’antico testamento [12]. Perciò erano offerti ovini, vacche, buoi, pesci e, sorprendentemente, anche legumi [13]. Dopo il rito l’offerta sacrificale, incensata dal sacerdote cattolico, era distribuita e consumata da tutta la comunità intervenuta (ibid.).
Ciò che si delinea, mi sembra, è l’immagine di un sacrificio caratterizzato da elementi in un certo senso uniformi e codificati, tanto nell’arcidiocesi di Sofia, quanto nel vescovato di Nikopol: fra la seconda metà del XVII e la prima del XVIII secolo, le cerimonia sembrava rimasta sostanzialmente immutata, stando almeno alle testimonianze dei missionari. In tutte le relazioni considerate, per esempio, è accertato il diretto coinvolgimento di missionari o sacerdoti di rito romano, invitati a intervenire e a partecipare attivamente nel corso della cerimonia per benedire i partecipanti e l’offerta sacrificale. Tale evenienza può forse destare qualche sorpresa o perplessità. Per quale ragione i missionari, agenti della Santa Sede in partibus infidelium, continuavano a tollerare la celebrazione dei kurbani e per di più a prendere parte attiva nel corso della cerimonia? Se Ioscich individuava nella ricompensa corrisposta al momento della distribuzione della carne dell’animale sacrificato la ragione di questa illecita cooperazione, Nicolò Boscovich (Bošković), originario di Ragusa e nipote di Andriasci, in una relazione del 1737, riferiva inediti spunti di riflessione per l’analisi del problema.
In qualità di vicario generale dell’arcidiocesi di Sofia, egli aveva visitato le comunità di pauliciani residenti nell’area, riscontrando ancora una volta la persistenza di un intricato complesso di errori dottrinali e superstizioni. Nella sua relazione aveva riservato ampio spazio alla questione dei kurbani. «I detti Sagrifizj», comunicava a Propaganda, «si fanno con occisione di Bovi e Pecore, mutua distribuzione di pane e Vino, e di quelle carni cotte, a qual Funzione chiamano il Missionario per benedire i Commestibili, e lo stesso Sagrificio, sia questo diretto o al suffraggio de defonti, o a qualsivoglia altro motivo» [14]. La sua descrizione conferma sin qui la tendenza emersa nelle precedenti testimonianze, eppure poco dopo il vicario aggiunge un elemento ulteriore. «Osservo poi», scriveva, «che i zelanti missionari non potendo svelere questo abuso dai cuori, troppo tenaci dell’antichità, l’hanno convertito in culto di varij Santi, et in carità, o elemosine, facendosi per li morti, rettificando l’antica superstitione con questa Ecclesiastica Economia» (ivi, 159). Si tratta di un aspetto interessante ai fini della nostra riflessione. I pauliciani, assai legati alle proprie tradizioni e pratiche sociali, avevano evidentemente rifiutato di abbandonare la pratica dei kurbani. I missionari, del resto, avevano ben presto appreso che i tentativi di disciplinare la condotta spirituale e devozionale dei cristiani “nuovi” non dovevano essere troppo rigidi o inflessibili perché rischiavano di rivelarsi, alla fine, controproducenti. Il rischio, dietro l’angolo, era di spingere i pauliciani fra le braccia della chiesa ortodossa o della religione islamica.
Per tale ragione, anche nel caso dei kurbani, i missionari avevano adottato un atteggiamento piuttosto pragmatico, improntato all’accomodatio, riecheggiando quella strategia che aveva tradizionalmente caratterizzato la politica missionaria della Compagnia di Gesù. Si pensi, per esempio, al caso dei riti cinesi. La tolleranza dei gesuiti, in Cina, aveva suscitato non poche polemiche in seno alle gerarchie ecclesiastiche e agli ordini religiosi impegnati nelle missioni indiane. Dopo un attento esame da parte del tribunale del Sant’Uffizio, questa consuetudine era stata infine condannata ufficialmente dal pontefice Prospero Lambertini per mezzo della bolla Ex quo singulari (1742): Benedetto XIV aveva stabilito che la persistenza di riti civili e costumi cinesi ritenuti inconciliabili con la nuova identità cristiana dei neofiti cattolici dovesse essere estirpata [15]. Due anni dopo, un epilogo simile aveva posto fine alla controversia sui riti malabarici: attraverso la bolla Omnium Sollicitudum (1744), lo stesso Lambertini aveva condannato le pratiche devozionali ibride come illecite, confermando di fatto il parere già espresso dal legato pontificio Charles Maillard de Tournon all’inizio del XVIII secolo (Pavone 2018a, 77-83).
Ora, nella Bulgaria ottomana i missionari (o almeno una parte di essi) proponevano l’implementazione di un approccio simile a quello utilizzato dai missionari gesuiti, caratterizzato cioè da un elevato livello di flessibilità e pragmatismo: di fronte all’impossibilità di sradicare il costume superstizioso dei kurbani, ne avevano consentito la celebrazione modificandone alcuni elementi. Quale fu, a questo punto, la reazione delle Congregazioni romane?
6. I kurbani sui banchi del Sant’Uffizio (1750)
Nel 1750 la questione dei kurbani raggiunse i banchi del Sant’Uffizio. Il tribunale ecclesiastico aveva infatti ricevuto da Propaganda Fide una lettera di monsignor Niccolò Angelo Radovani, arcivescovo di Sofia originario di Scutari: nella missiva il prelato esponeva i propri dubbi in merito a quel sacrificio così praticato dalle comunità e famiglie di pauliciani «le quali fanno in pezzi un Agnello, o Castrato, di cui si distribuiscono le carni sì a Poveri che gli altri astanti, e ciò intendono fare in onore di quel Santo, di cui corre la Solennità» [16]. Si trattava di una consuetudine innocua, da tollerare, oppure questa antica tradizione doveva essere piuttosto bollata come illecita? La Congregazione, non ritenendo sufficienti le informazioni ricevute da Radovani, aveva chiesto ad Antonio Becich, vescovo di Nikopol, ulteriori chiarimenti. Il prelato spiegava
che le Famiglie Bulgare tengono qualche Santo per loro Protettore, lasciatogli da loro antenati o per avere ottenuta qualche grazia; e così celebrano quel giorno col mangiare e bevere, uccidendo o una Pecora o un’agnello prima però benedetto dal Paroco, al quale danno la Pelle, con un pezzo di carne del d[ett]o animale, coprendo con la terra il Sangue che cade da esso nell’uccidersi, acciocchè essendo benedetto non venga calpestato. Che tal funzione chiamasi Chorban cioè Sagrifizio, ma esser ciò un termine commune e Volgare senza veruna malizia o Superstizione, non avendo altra intenzione, che la pure gloria di Dio e del Santo Tutelare, e così essersi sempre dichiarati in presenza del Vescovo e del loro Paroco [17].
Becich sosteneva con decisione l’innocenza dei riti sacrificali denominati “chorban” e perciò la loro liceità, scagionando in tal modo i pauliciani dall’accusa di superstizione. Il termine, solo apparentemente controverso, era in realtà una parola di uso comune, utilizzata correntemente nella lingua vernacolare e perciò del tutto priva di malizia. Il rituale infatti era praticato dai pauliciani solo a maggior gloria di Dio e dei santi, e per di più alla presenza di sacerdoti e prelati: cosa poteva esserci di deprecabile o illecito?
Sulla base delle informazioni raccolte, il Sant’Uffizio elaborò la propria risposta: i cardinali consultori, riunitisi il 27 maggio del 1750, decretarono che quei costumi e quei riti descritti dai prelati «non esse inquietandos», e come tale potevano essere tollerati [18]. Tale indulgenza, in realtà, appare significativa, tanto più in un periodo in cui lo stesso tribunale si era mostrato invece molto rigido sugli altri riti come quelli cinesi e malabarici.
La questione, però, era tutt’altro che risolta. Nel 1756, il raguseo Nicolò Pugliesi, allora vescovo di Nikopol e successore di Antonio Becich, aveva visitato, come di consueto, il territorio sottoposto alla sua giurisdizione ecclesiastica, e ne aveva dato ragguaglio a Propaganda.
Circa le costumanze di questi popoli [pauliciani] si sono anathematizati ed in parte decaduti i kurbani e sluxbe [Службe, servizi] che erano una specie di sacrificij e conviti, quali facevano con l’immolazione o di animali, o di pesci; e questi o a gloria di Dio e de Santi o per salute de figliuoli, o degli animali, o per la fecondità delle campagne o in suffragio de morti, o per voti particolare, e questi fra l’anno erano frequenti, e numerosi. E sopra tutto si è scomunicato il kurbano sulla cima del monte che facevano nelle rogazioni ad onore della S[antis]s[im]a Trinità per la fecondità delle campagne, havendo introdotto l’uso della benedizione de campi secondo il rito della S. Chiesa (Jerkov Capaldo 2007, 82-3).
Il racconto di Pugliesi divergeva in modo significativo da quello fornito soltanto pochi anni prima da Becich: il nuovo prelato di Nikopol insisteva soprattutto sulle finalità dei riti sacrificali, mettendone in luce la natura inequivocabilmente superstiziosa e pertanto contraria alla fede cattolica. E infatti – ammoniva Pugliesi – non di rado, nei giorni festivi o nelle domeniche, preferivano celebrare il tradizionale rito sacrificale lasciando vuoti i banchi delle chiese «con dire: Iddio perdoni per questo giorno» (ivi, 170): a poco servivano gli accorati appelli dei missionari.
Nel giorno di san Giorgio (23 aprile, secondo il calendario gregoriano, 6 maggio secondo quello giuliano), in particolare, ogni famiglia provvedeva a sgozzare un agnello sacrificale offerto per la salute di tutti i membri. Il sangue della vittima era cosparso sull’uscio della porta d’ingresso e poi coperto di terra; con lo stesso sangue le madri segnavano le guance e la fronte dei fanciulli, nella convinzione che tale rito avrebbe garantito loro salute e prosperità ivi, 172). Specialmente in area balcanica, il culto di san Giorgio, uno dei santi più venerati nel cristianesimo ortodosso, è tradizionalmente connesso con la celebrazione della primavera e della rinascita della natura: ancora oggi, nel giorno della ricorrenza (indicata come Gergiovden in bulgaro, Djurdjevdan in serbo, Hiderllez in turco, Dita e Shën Gjergjit in albanese), soprattutto fra le comunità rurali della penisola è diffusa la consuetudine di sacrificare per buon auspicio un agnello, poi arrostito e consumato da quanti prendono parte al rituale (Terzić, Krivošejev e Bjeljac 2015, 78). San Giorgio, infatti, è ritenuto dispensatore di salute e prosperità per la famiglia e la comunità, ma anche santo tutelare del bestiame, della produzione agricola e casearia e del rinnovamento (Schubert 1985, 80-115).
Secondo la ricostruzione del vescovo di Nikopol, fra i pauliciani bulgari la pratica dei kurbani poteva essere inquadrata in un sistema di credenze del tutto simile: gli animali uccisi ritualmente e consumati dagli astanti non erano offerti solo «a gloria di Dio e de Santi», come aveva asserito Becich, ma anche per ottenere salute e guarigioni, per favorire la fertilità dei campi, nonché come offerta per i defunti. Il prelato aveva perciò «anathematizato» e bandito il contestato costume, e «in parte» (sosteneva) aveva conseguito il proprio obiettivo. In particolare, il kurban che i pauliciani erano soliti celebrare sulla cima di un monte, accompagnato da particolari suppliche alla Trinità affinché la terra e le campagne fossero feconde, era stato oggetto di una specifica veemenza repressiva da parte del vescovo: Pugliesi aveva introdotto, in sostituzione di questo errato costume, «l’uso della benedizione de campi secondo il rito della S. Chiesa» (Jerkov Capaldo 2007, 172), nel tentativo di emendare, una volta per tutte, la condotta devozionale dei pauliciani. Allo stesso modo, aveva proibito loro di ricorrere all’aiuto di «zingari, o altri infedeli» in caso di malattia, sollecitandoli piuttosto a preferire l’intervento del missionario per ricevere la benedizione del Signore (ivi, 84).
Negli stessi anni, l’arcivescovo di Sofia Benedetto Zuzzeri aveva invece mostrato una certa cautela verso la rimozione di alcune pratiche sociali e religiose cui i pauliciani si mostravano particolarmente affezionati. Per quanto riguarda i kurbani, pur essendo a conoscenza delle risposta fornita dal Sant’Uffizio al dubbio di Radovani, si chiedeva però, «a cagione della riprensione di S. Agostino», se quei sacrifici dovessero considerarsi leciti qualora l’animale fosse esplicitamente offerto a suffragio dei morti. Anche in questa occasione, tuttavia, Zuzzeri continuava ad attestarsi su posizioni più tolleranti e pragmatiche rispetto al prelato di Nikopol: aggiungeva infatti che in ogni caso «un tall’uso, o abuso sarebbe difficilissimo a togliersi senza gravi mormorazioni, e scandalo ancora di que’ pusilli» (ivi, 157).
7. Un tentativo di debellare i kurbani: l’istruzione di Propaganda Fide (1760)
Evidentemente, i pareri di sacerdoti e prelati continuavano a oscillare in modo significativo: spettò a Propaganda Fide dirimere in modo definitivo la questione – per lo meno sul piano della teoria. Il 9 febbraio del 1760, la Congregazione emanò a tale scopo un’istruzione con la quale proibiva categoricamente la «prattica de’ Kurbani»: i missionari e i vescovi impegnati nelle diocesi bulgare erano chiamati a impegnarsi affinché tale divieto venisse infine effettivamente osservato [19].
Come mai a Roma le opinioni in merito ai sacrifici dei pauliciani erano cambiate così radicalmente nel giro di dieci anni? Sicuramente la grande «varietà di opinioni» e, come sottolineava la stessa Propaganda, «la sì lunga connivenza da parte di alcuni» avevano contribuito ad alimentare un alone di indeterminatezza intorno alla pratica. Le testimonianze raccolte, in effetti, si erano rivelate spesso contrastanti: se alcuni dei missionari tendevano a mettere in luce la buona fede di quei sacrifici, allontanando l’accusa di superstizione, altri – come nel caso del vescovo Pugliesi – ne sottolineavano piuttosto la gravità e l’illiceità, palesando anche il concreto rischio di idolatria che veniva a configurarsi.
L’istruzione di Propaganda era tesa proprio a evitare questa difformità di opinioni fra i missionari e i prelati operanti nelle due diocesi bulgare: occorreva stabilire una disciplina comune e uniforme, «sicché non avvenga mai più in appresso, che quello, che si decreta come illecito e superstizioso in una, si permetta come lecito ed indifferente nell’altra, né si varii il giudizio dei Pastori nei luoghi diversi, sebbene nelle medesime circostanze» (Collectanea 1907, 271).
Quali erano le ragioni sottese alla decisione di Propaganda? Perché i kurbani, anche quando offerti come sacrificio per la gloria di Dio e dei santi, dovevano essere ritenuti una pratica illecita e persino «inutile» e «malvagia»? Nel documento la Congregazione enucleava un’antologia di motivazioni: l’accusa di superstizione costituiva, ancora una volta, il principale capo d’imputazione. Innumerevoli elementi, si legge nel documento, indicavano del resto in tal senso: si pensi per esempio alla
differenza religiosamente serbata dei giorni destinati per i kurbani, diversi o di carne, o di pesce. III Il rituale di ucciderli, dividerli, e distribuirli fra loro a guisa di vittime. IV. L’obbligo di non riserbarne, o portarne via, o venderne cruda porzione alcuna, ma mangiarle tutte intieramente, e roderle fino alle ossa […] (ibid.).
Come aveva già avuto a notare Pugliesi, la stessa necessità, avvertita dai cattolici bulgari, di dover sacrificare un animale era intrinsecamente errata e contraria alle verità della religione cristiana, che al vano «sangue dei vitelli e dei tori» versato sugli altari pagani aveva sostituito, una volta per tutte, «il sangue del Redentore», la cui offerta è rinnovata quotidianamente attraverso il sacrificio incruento celebrato nel corso della messa (ivi, 274). A nulla perciò poteva giovare l’empia offerta di animali poi consumati dalla comunità: né, attraverso i kurbani, i pauliciani potevano attrarre la buona sorte, né, tanto meno, erano in grado di rendere onore a Dio e ai santi.
Per estirpare le pericolose convinzioni radicate nella sensibilità spirituale dei cattolici bulgari, i missionari erano chiamati a «scolpire» nei cuori dei fedeli le parole che l’apostolo Paolo aveva rivolto ai Galati e agli Ebrei «il Regno di Dio non consiste in cibi e bevande; […] i doni e le vittime non mondano la coscienza», né era ormai necessario recarsi su questo o quel monte per rivolgere preghiere ed invocazioni a Dio (ibid., 274) [20].
Per quel che concerne la genesi del rito, Propaganda non individuava una origine univoca, ma rinveniva nell’usanza i «riflessi» – per citare un termine utilizzato nella stessa istruzione – di tre differenti tradizioni: i kurbani erano definiti «un resto di rito giudaico», «una pratica di setta scismatica» e, al contempo, «un’imitazione del costume dei turchi» (ivi, 272). In effetti, come è già stato osservato, “kurban” o “korban” è un termine di origine semitica legato sia alla religione islamica che a quella ebraica: il testo biblico, e in particolare il libro del Levitico, è del resto ricco di testimonianze che comprovano la diffusione del sacrificio rituale presso gli ebrei [21]. Inoltre, grazie alle lettere ricevute dai missionari, i cardinali erano consapevoli che la pratica era molto diffusa anche fra gli ortodossi della regione: gli stessi pauliciani, osservando il calendario giuliano, celebravano le festività comunemente con gli “scismatici” e insieme con essi praticavano l’offerta dei kurbani. Si consideri, a titolo di esempio, la ricorrenza di san Nicolò, festeggiata il 6 ottobre:
In questo giorno siccome i Greci digiunano, non possono fare Kurbano, però comprano pesci grandi di squamma, salati; lo empiono di riso, lo arrostiscono, e poi ognuno lo porta in mezzo al villaggio con pane, vino, e vicendevolmente lo distribuiscono come il Kurbano, a nome del Santo. I nostri [cioè i cattolici pauliciani] facevano l’istesso, ed alcuni ancora il fanno, con dire che non è Kurbano che abbi anima, ma come le altre vivande tollerate in memoria dei morti [22].
Non era dunque possibile per Propaganda stabilire con ragionevole margine di certezza l’esatta genealogia dei Kurbani balcanici, un punto però restava fermo: tale pratica era troppo distante e difforme «dalla regola ecclesiastica del culto divino» e dunque la sua persistenza fra i cattolici era intollerabile (Collectanea 1907, 273). Era perciò tanto più inaccettabile che i ministri del culto divino vi prendessero parte: tale consuetudine, pure diffusasi nelle diocesi bulgare, non legittimava in alcun modo quei riti «gentileschi», anzi aggravava ulteriormente l’abuso, «aggiungendo un altro titolo e ragione per dichiarare superstizioso quell’atto» (ibid.). Mescolare la sfera del sacro con riti, oggetti o consuetudini errati e superstiziosi, era infatti un errore particolarmente odioso.
Come aveva osservato niente meno che san Tommaso – riferivano i cardinali della Sacra Congregazione – la fede non si professa solo con le parole, ma anche con le azioni e il sacrificio rituale praticato dai pauliciani, che appariva in tutto e per tutto come un’usanza dei «gentili», costituiva, secondo una formula consolidata, «un atto protestativo di falso culto» (ivi, 272). L’istruzione di Propaganda si poneva così idealmente sul solco tracciato quasi vent’anni prima dai provvedimenti con cui Benedetto XIV aveva posto fine alle controversie cinesi e malabariche: la forma dei riti, in quest’ordine di idee, non è e non può essere considerata un mero accidente ma è essa stessa sostanza, e come tale deve essere disciplinata.
8. La sopravvivenza del rito dopo l’istruzione di Propaganda
Con l’istruzione del 1760 Propaganda stabiliva così un divieto “universale”, ponendo, dopo anni di indeterminatezza e indecisione operativa e dottrinale, una punto fermo, per lo meno a livello normativo, nel contrasto al fenomeno dei kurbani. Come si risolse, però, la faccenda sul piano della prassi? Missionari e prelati riuscirono a declinare le disposizioni romane nel contesto locale?
A pochi mesi dall’emanazione della circolare, il 21 agosto 1760, il genovese Giuseppe Roverano della Congregazione di San Giovanni Battista, vicario apostolico dell’arcidiocesi di Sofia che in precedenza aveva servito come missionario nell’episcopato di Nikopol, informava Propaganda di aver ricevuto il decreto «che riguarda il Kurbano solito a farsi da questi Popoli, e procurerò assiema con i miei compagni missionarij colla dolcezza possibile e patienza di metterli in esecuzione» [23]. Roverano, però, non aveva dubbi: si trattava di un proposito di difficile attuazione, poiché i pauliciani avevano dato prova, in numerose occasioni, di essere particolarmente legati a quell’«abuso tanto inveterato» [24]. Del resto – come egli stesso scriveva a Propaganda – già in passato, insieme al compagno missionario Giorgio Radovani (originario di Scutari), aveva provato a dissuadere i pauliciani, cercando di convincerli della vanità di quella pratica: «[…] gli mostrammo non esserci altro Sacrifizio per ottenere ogni bene da Dio e per liberarli da qualunque male si per i vivi che per i defonti, se non l’incruento del altare; procurammo a far loro frequentare l’orazioni e le messe» [25].
Ora, nel tentativo di persuaderli ad agire secondo le nuove indicazioni ricevute da Propaganda, i due missionari avevano iniziato a negare la propria partecipazione a quei sacrifici, come disposto dalla Sacra Congregazione; il vicario apostolico aveva inoltre vietato l’utilizzo di candele e incenso nel corso del kurban, «il tutto con non poco susurro di questa gente» [26]. Ostinati e radicati nelle proprie superstizioni, scrive Roverano, i pauliciani avevano obiettato che si trattava di una tradizione antichissima, praticata dai propri antenati e perciò “inviolabile”: che potevano saperne dell’antichità e dell’utilità di questo sacrificio quei due missionari cattolici, venuti da paesi lontani, che provavano con tanta ostinazione a cancellare le tradizioni locali [27]? I due religiosi, dal canto loro, non volevano darsi per vinti di fronte a queste obiezioni e con insistenza lavoravano per eliminare ogni traccia dei kurbani. Così, per tutta risposta, i pauliciani avevano deciso di negare ai missionari il loro supporto economico. Venendo meno l’assistenza nel corso dei kurbani, essi non vedevano più ragioni per sostenere la missione: a che fine, infatti, dovevano elargire le decime e mantenere i missionari se non «per essere dalli stessi serviti in tali benedizioni de loro Sacrifizij» [28]? Per la sopravvivenza della missione, messa a dura prova da questa ennesima circostanza sfavorevole, Roverano si trovò perciò costretto a ricorrere all’aiuto di Propaganda, cui rivolse la richiesta di più pronti e sostanziosi i sussidi, rinnovando al contempo la preghiera di inviare nuovi operai per quella vigna così arida [29].
L’anno seguente il vicario apostolico tornava ad aggiornare la Congregazione romana sulle sorti dei kurbani: raccontava di aver bussato, villaggio per villaggio, casa per casa, alle porte dei pauliciani esortandoli, a nome di Propaganda, ad abbandonare quell’illecita consuetudine. Aveva però consentito loro, per addolcire quella pillola amara, di continuare a organizzare i lauti banchetti cui erano avvezzi: qualsiasi cibo sarebbe stato ammesso, «eccettuato il sacrifizio d’animali» [30]. Sorprendentemente, i pauliciani non si erano scagliati con veemenza contro le nuove imposizioni: certo, soprattutto tra alcuni membri della comunità, scrive Roverano, si erano sollevati non pochi «susurri», ma il violento tumulto che i missionari avevano previsto non si era verificato [31]. Egli sperava in cuor suo che alla fine, cadendo in disuso, i cattolici “novelli” avrebbero persino dimenticato quella rozza consuetudine. E tuttavia non si faceva troppe illusioni in tal senso:
si va in appresso lavorando ad estirpare, da un mondo di superstizioni che tengono, le più principali con qualche frutto seben poco; attesa la durezza del terreno che non cede al zelo dei missionarij onde più volte sospiriamo spargendo il seme divino non sapendo se verrà il tempo di portar con esultazione i manipoli del frutto ricavato [32].
La cautela del missionario era ben comprensibile: anche molti dei suoi predecessori si erano scontrati alacremente con l’ostinato attaccamento alla tradizione manifestato da pauliciani, restii ad adeguarsi alle norme di condotta, tanto sociali quanto confessionali, che i missionari provavano ad imporre.
E infatti gli attesi tumulti non tardarono poi molto ad accendersi: l’anno successivo Giorgio Radovani informava la Congregazione del tentativo di un «mal cristiano» di sollevare una rivolta per fra cadere il divieto di celebrazione dei kurbani, una proibizione che alcuni avevano infine accettato ma che altri continuavano a ritenere una ingiusta forma di oppressione [33]. Lo spinoso problema era perciò tutt’altro che risolto. Ancora una lettera del missionario di Scutari, arrivata sui tavoli di Propaganda nel 1765, attesta che, quattro anni dopo, l’uso di celebrare pubblicamente il kurban non era affatto decaduto: nel villaggio di Dovanlie, un sacrificio era stato offerto «p[er] l’abbondanza dell’uva sotto specie di banchetto com[m]une». Fortunatamente,
Il Signore dopo circa due giorni mandò la grandine sulle loro vigne, e poo l’epidemia ne bestiami; indi con minaccia di gastighi ancora maggiori del Cielo quantunque altieri, duri e superbi più degl’altri, si sono facilmente ridotti a far penitenza pubblica e universale e poi a fare la protesta sull’Evangelio avanti Mons[igno]re di voler esere sempre obbedienti in appresso [34].
Contestualmente problemi di varia natura avevano messo a repentaglio la sopravvivenza della missione: all’ammanco di denaro causato dall’indocilità dei pauliciani si erano sommate, nel 1766, le accuse del nuovo vescovo ortodosso di Plovdiv che, come già accaduto in passato, avevano finito per innescare una serie di problemi con l’amministrazione ottomana [35]. Il vescovo “scismatico” accusava i latini di aver coattamente sottratto alla sua giurisdizione proprio le comunità di pauliciani: ora pretendeva di «riprendersi questi Bulgari», scriveva Roverano, «e di esigere da essi l’annua imposizione che prende dai suoi» [36]. Ottenuto il fermano dalle autorità locali, il prelato ortodosso fece in modo che i due missionari, Roverano e Radovani (che da lungo tempo soffriva di febbre quartana), impegnati nei villaggi dei pauliciani, venissero tradotti in tribunale e processati. Il cadì di Plovdiv, appreso che si trattava di due sacerdoti cattolici, li aveva accusati di voler sobillare rivolte nelle terre del sultano e per tale ragione aveva minacciato di farli «appiccare al ponte della città» [37]. Grazie al fermano che regolarmente possedevano, i due missionari ebbero però salva la vita: restava tuttavia l’obbligo di allontanarsi immediatamente dalla diocesi. Alcuni membri delle comunità cattoliche locali, per la verità, avevano pregato il cadì di consentire almeno ai due missionari sudditi del sultano, Paolo Dovanlia (Pavel Gajdadžijski Duvanlijata), di origini pauliciane, e Radovani, di restare in Bulgaria. E il cadì, giura Roverano, avrebbe pure acconsentito se non fosse stato per l’intervento del vescovo “scismatico”, che, «portatosi dal mufti con cinque borse di denaro fece comandare che nessuno vi restasse» [38].
Il 28 gennaio, il gruppo di missionari si allontanò alla volta di Adrianopoli (Edirne), con l’intenzione però di recarsi, in un secondo momento, nella capitale del sultano per ricorrere all’aiuto dell’«ambasciatore cesareo» [39]. Il vicario apostolico Roverano concluse il suo viaggio proprio a Istanbul, mentre a Dovanlia e Radovani fu infine concesso di rientrare a Plovdiv [40].
La vicenda ebbe inevitabilmente importanti ricadute sul piano dei progressi fatti dai missionari in merito al disciplinamento confessionale dei pauliciani: anzi, per dirla con le parole del vicario, «era stata la pietra di paragone per cui manifestati si sono coloro ch’erano provati fedeli, da tanti altri che lo erano di puro nome» [41]. Soltanto pochi di loro infatti si erano mostrati solidali con i sacerdoti cattolici travolti dalle avversità. Una buona parte dei pauliciani, all’opposto, aveva persino finito per avvicinarsi alla comunità ortodossa col dire «e questa è fede, e quella è fede, e questi son preti, e quelli son preti», non palesandosi ai loro occhi alcuna differenza fra la fede cattolica e quella ortodossa [42]. I più perfidi, agli occhi del vicario apostolico, erano però coloro che accusavano gli stessi missionari di aver cagionato la persecuzione. La ragione? Essi avevano attirato su di sé quella sciagura per aver «tolti da mezzo i loro maledetti Kurbani; i quali, per la maggior parte, tengon sempre nel cuore anzi neppure han voluto contribuire denaro alcuno» [43]. Quella violenta persecuzione che i missionari e i cattolici tutti avevano subito doveva essere cioè addebitata, secondo i cattolici “nuovi”, proprio alle preghiere e all’uso di corone che avevano sostituito i tradizionali riti pauliciani. Il missionario ribatteva che «ab antiguo facevan pure i loro kurbani, e pur son stati sogetti a persecuzioni più fiere» [44]. Ma essi rispondevano che «anche allora seguì la persecuzione p[er] causa che i sacerdoti cercaron di dividerci da Greci con introdurre nuovo calendario, e nuove feste, come voialtri ora avete introdotti nuovi riti» [45].
Il missionario Giorgio Radovani, negli stessi anni, attestava d’altro canto che, nonostante le esortazioni dei missionari, fra i pauliciani continuavano a esserne celebrate numerose feste che nulla avevano a che fare con quelle comandate dalla dottrina cattolica: si celebravano cerimonie propiziatorie per evitare la grandine, «come i 7 giovedì fino all’ascensione», altre dedicate agli animali per ottenere la salute del bestiame, altre ancora celebrate perché osservate dagli ortodossi. Queste ultime in particolare erano osservate con uno zelo tale che sembravano più importanti per i pauliciani delle stesse domeniche o delle festività latine: anzi, nei villaggi in cui i pauliciani vivevano insieme ai “greci”, le feste previste dal calendario romano erano persino ignorate o considerate alla stregua di normali giorni lavorativi [46]. Anche la scelta dell’offerta sacrificale in occasione dei kurbani, come abbiamo visto, era dettata dal calendario liturgico ortodosso: nei giorni di digiuno non potevano essere offerti i consueti animali, ma soltanto vegetali (legumi, o, nella seconda metà del Settecento, più specificamente fagioli) o pesci con le squame, come lo šaran, cioè la carpa. Le più solide barriere confessionali attraverso cui Propaganda, per mezzo dei missionari, intendeva isolare la comunità dei “novelli” cattolici disciplinandole la condotta sociale continuavano a funzionare poco o nulla.
Nella diocesi di Nikopol la vicenda dei kurbani seguì un corso del tutto simile. Il 26 agosto 1760, l’integerrimo vescovo Pugliesi aveva comunicato a Propaganda di aver ricevuto il decreto e l’istruzione per l’abolizione dei kurbani e si dichiarava pronto fare «tutto il possibile unitamente con questi R[everen]di Missionari a far mettere in esecuzione da questi miei diocesani i loro ordini, sperando che, col divino aiuto un uso tanto superstizioso fin ora discreditato ed in parte abolito, sarà affatto estirpato» [47].
Allo stato dei fatti, nonostante l’irreprensibile zelo apostolico e l’intransigenza di Pugliesi, il tentativo di sradicamento delle pratiche superstiziose così in voga fra i pauliciani sortì ben poco effetto. Il missionario Domenico Antola della Congregazione di San Giovanni Battista, giunto nella diocesi di Nikopol alla fine del 1763 [48], sosteneva di aver trovato una parte della comunità salda nella fede cattolica, «tuttavia alcuna parte non lascia di ricorrere alle maggie [sic.], e di praticare le superstizioni, ma più ancora non vuole intervenire alla messa» [49].
Che ne era stato, in particolare, dei kurbani? Nel 1765, trovandosi nella villa di Begliani, testimoniava che
Negli anni addietro era uso appresso questi nostri cristiani, conforme è uso tuttavia app[ress]o questi scismatici, in alcuni giorni dell’anno di farsi nelle case un kurban, cioè di scannare, agnelli, pollastri, galline, e una tal specie di pesce chiamato Sciaran, poi ciò mangiare con sfarzo di vino in compagnia, dopo incensata le mensa e accese in essa candeluccie [sic.] di cera per avere da Dio salute a tutti li Domestici, e al bestiame, per l’abbondanza dei campi, per la prosperità della casa, e per vantaggio de morti. Dopo la dichiarazione che negli anni antecedenti venne qui mandata dalla S. Congregazione contro questo fatto, e l’ordine preciso a missionarij di impedirlo a loro maggior potere; per la grazia d’Iddio e l’opera di Monsig[no]r N[ost]ro Vescovo [Pugliesi, n.d.r.], e quella de missionarij dalla maggior parte de nostri cattolici più non si pratticava sifatto uso. In Begliani però si conservava ancora in molte case e specialmente si faceva il Kurban ai fini sud[ett]i nel giorno in cui li Schismatici festeggiano per S. Giorgio; ma lode a Dio in questo anno solo in due quartieri da sei o sette si è fatto, e da gente che quasi mai si lascia vedere ad ascoltare la messa nel d[ett]o giorno poi che si festeggiava da nostri in conformità con li Schismatici come il dì di Pasqua […].
Regnava ancora uso più frequente di fare in certe solennità dell’anno la Sluxba privata cioè un invito particolare di qualche congionto [sic.], o amico alla cena, ò al pranzo, che si faceva per li fini a cui si fa il Kurban, incensandosi le cibarie, e anco questo abuso rimane oggi di più da pochi praticato. Questi e altri buoni vantaggi che, di mano in mano, si vanno consegnando per misericordia del Cielo, fanno poco sapore quando si considera l’attacco ostinato di molti, in particolare delle donne, à mantenere l’uso di tante antiche superstizioni, e errori in cose della fede […] [50].
Fra le innumerevoli superstizioni e gli errori che tanta frustrazione cagionavano fra i missionari, Antola annoverava ancora una volta i kurbani: apparentemente questa pratica andava progressivamente perdendo il proprio tradizionale radicamento – o almeno così sembrava al missionario. Eppure, specialmente a Begliani, la consuetudine di sacrificare un agnello, soprattutto in occasione della festa di san Giorgio, ricorrenza osservata comunemente con gli “scismatici”, rimaneva un costume difficile da sradicare del tutto: un certo numero di famiglie – come aveva già notato il vescovo Pugliesi alcuni anni prima – mostrava ancora di preferire e anteporre il sacrificio animale alla messa celebrata dai missionari.
Tale «attacco ostinato», per usare le parole di Antola, continuava per la verità a essere rilevato ancora nel 1778 da Paolo Dovanlia, consacrato vescovo di Nikopol appena due anni prima. In una lettera a Propaganda, il prelato riferiva che gli errori dottrinali, le superstizioni e gli abusi che con tanta fatica e zelo i missionari avevano provato a sradicare erano purtroppo ancora piuttosto diffusi. In merito ai kurbani
riferisce, che come gli altri tolti dai passati missionari, non si è potuto ancora sradicare quello di scannare un Montone sul sepolcro de’ maschi, e su quello delle femmine una pecora, ed il giorno di S. Giorgio un agnello, il quale serva per un convito di amici, e parenti; senza però usar Cerimonie ò di candele, ò d’incenso, come prima solevano. Quantunque essi protestino, che ciò fanno a solo oggetto di dar da mangiare a quelli che faticano, ed assistono alle funzioni, tuttavia Mons. Vescovo ha loro mostrato, che ciò fa vedere l’attacco per gli antichi loro interdetti Kurbani, e ne ha rinnovano la proibizione, permettendo loro di fare una semplice tavola fornita di cibi ordinari, e communi, et in ristoro di quelli, che hanno alla sepoltura assistito [51].
Per evitare di incorrere nelle accuse e nei rimproveri dei missionari, i pauliciani avevano preso a giustificare i kurbani come semplici occasioni di convivialità condivise con amici e parenti o come offerta per i partecipanti alle cerimonie funebri: erano cioè disposti in un certo senso a dissimulare. Nella loro fenomenologia il rito era rimasto però sostanzialmente inalterato, mancando, nella nuova descrizione di Dovanlia, soltanto l’incenso e le candele che prima solevano usare. All’occhio vigile del prelato non potevano perciò sfuggire le implicazioni rituali di quei banchetti, che in tutto riecheggiavano il costume proibito quasi vent’anni prima dai cardinali di Propaganda.
Consapevole dell’importanza capitale che tali raduni avevano come meccanismo di aggregazione e coesione sociale all’interno delle comunità di pauliciani bulgari, il vescovo aveva cercato, come altri prelati prima di lui, di trovare una soluzione pragmatica all’annoso problema. Aveva cioè esortato i cattolici “novelli” a organizzare, in luogo del kurban, dei semplici banchetti, con tavole imbandite di ogni tipo di alimenti e portate. Restava però fermo il divieto di celebrare il sacrificio animale.
L’approccio di Dovanlia aveva infine funzionato? Due anni dopo, il prelato asseriva che, nonostante le esortazioni, in occasione di funerali e ricorrenze religiose era ancora diffusa fra alcune famiglie pauliciane l’abitudine di uccidere e macellare un animale non pubblicamente, ma all’interno della abitazioni private – di celebrare cioè le cosiddette službe – “sotto pretesto di non stimarli più sacrificij, come anticamente, ma sono puramente convitti” [52]. Sconsolato, il vescovo non poteva far altro che confidare nella divina provvidenza: forse, con l’intervento e l’aiuto di Dio, i pauliciani avrebbero un giorno abbandonato quella pratica illecita dal sapore così paganeggiante.
9. Conclusioni
All’inizio degli anni Trenta del Settecento, l’arcivescovo di Sofia Marco Andriasci, in esilio a Ragusa, aveva ricevuto la lettera di un tale Giovanni Rigo, diplomatico olandese residente a Pera di Costantinopoli. L’uomo aveva sottoposto ad Andriasci le sua curiosità circa l’esistenza «d’una certa setta antica christiana detta di Paolianisti e da greci denominata di Paolichiani» (Fermendžin 1887, 355). Quando si era originata e quali erano i legami di questo gruppo con manichei e albigesi? Credevano nella resurrezione dei morti, e poi, veneravano i santi, la croce e le sacre immagini oppure li rigettavano come espressioni di idolatria? La lista delle domande era assai lunga e toccava questioni sia storiche che dogmatiche. Alla vista della lettera Andriasci era divenuto sospettoso. Preoccupato per il possibile uso e abuso delle sue parole, l’arcivescovo aveva semplicemente invitato il suo interlocutore a non credere ai «blateramenti Greci […] capaci d’indurla a credere che nelle mie giurisditioni di Filippopoli e Nicopoli vi si dia presentemente una tal setta, o gente supposta quasi senza fede e legge» (ivi, 357). Esistevano sì i discendenti di quei pauliciani ma, come comprovato dalla numerose attestazione di prelati e missionari, scriveva l’arcivescovo, essi erano stati da lungo tempo battezzati e convertiti alla fede romana: ora vivevano sottoposti alla giurisdizione dei loro vescovi come perfetti cattolici, perseveranti nella fede a dispetto di ogni persecuzione, credendo e professando «tutto quello che tiene, crede e professa la santa madre chiesa cattolica apostolica Romana, senza punto scostarsi dalli suoi veri et infallibili dogmi» (ivi, 358).
Consapevole del problema e della sua rilevanza nel panorama confessionale dell’epoca, Andriasci aveva ritenuto opportuno negarne l’esistenza, temendo che la voce potesse spargersi ulteriormente – in particolare negli ambienti riformati, cui Rigo apparteneva – a detrimento dell’unità e del buon nome della chiesa romana. Dalle lettere dei missionari, e dalle testimonianze dello stesso Andriasci, emerge infatti un quadro del tutto differente: un quadro cioè di sostanziale fallimento, per lo meno sul piano, per così dire, del disciplinamento confessionale.
Ancora nella seconda metà del Settecento, come ebbe a dire il missionario Domenico Antola nel 1768, i pauliciani, allora i soli rappresentanti della fede cattolica nella Bulgaria ottomana, potevano «chiamarsi Cristiani di solo nome» [53]. Forse, l’unico tangibile traguardo ottenuto dai missionari era stato raggiunto sul piano della venerazione delle immagini e della croce, che già a partire dalla prima metà del XVII secolo non suscitavano più l’orrore e la riprovazione dei pauliciani, come si evince da una varietà di documenti: essi le avevano anzi integrate all’interno della propria espressione devozionale.
L’invischiato sistema di credenze e tradizioni che gli agenti della Santa Sede avevano provato a contrastare sin dall’ultimo decennio del Cinquecento era invece rimasto sostanzialmente indenne. Ancora alla fine del Settecento, molti dei pauliciani rifiutavano di partecipare alla messa, si sottraevano alle insistenze dei missionari desiderosi di catechizzarli o almeno di impartire loro i rudimenti della dottrina cristiana, osservavano le ricorrenze e le festività ortodosse piuttosto che quelle indicate dal calendario romano; erano persino pronti, giuravano i missionari, a ricorrere all’aiuto delle autorità ottomane per aggirare più agevolmente i divieti imposti dai ministri cattolici. Il caso dei kurbani si rivela, in questo senso, un termometro utile per saggiare l’effettiva ricaduta delle strategie di disciplinamento confessionale predisposte dai missionari e dalle Congregazioni romane.
Si potrebbe obiettare, a questo punto, che anche nel contesto dell’Europa cattolica, all’ombra della cupola di San Pietro, convinzioni eterodosse o episodi di indisciplina confessionale continuarono a manifestarsi per tutto il corso dell’età moderna, come ha recentemente osservato, fra gli altri, Massimo Firpo (Firpo 2022). In effetti l’esistenza di tradizioni legate al rito della “doppia sepoltura” sono accertate, per esempio, nel contesto dell’Italia meridionale; o ancora i cosiddetti santuari della resurrezione temporanea (o santuari a répit), sorti per consentire la somministrazione del battesimo ai corpi dei bambini morti prima di riceverlo, erano diffusi nell’area settentrionale della penisola italiana, ma anche in Svizzera, Austria, Germania e Francia [54].
Questi fenomeni però possono essere in un certo senso letti come fisiologiche sacche di resistenza al tentativo di normazione che ebbe luogo tanto nell’ambito cattolico quanto nell’ambito del cristianesimo riformato. Come ha giustamente notato Ottavia Niccoli, non infatti è possibile affermare che il disciplinamento sociale e confessionale predisposto dalla chiesa romana dopo il Concilio di Trento sia giunto a pieno compimento: si trattò, nei fatti, più di un «processo in costante divenire con alcuni spazi di più sicura vittoria (per esempio nell’ambito della repressione dell’eresia […]) e altri di arretramento […]» che di un traguardo definitivamente conquistato (Niccoli 2019, 153). Eppure, la forza trainante di questo processo agì inevitabilmente come “motore per il cambiamento sociale”, culturale e spirituale, per dirla con le parole di Heinz Schilling (Schilling 2007, 1134-5).
Nella Bulgaria ottomana, ancora nella seconda metà del XVIII secolo, il cattolicesimo locale era invece a uno stadio, per così dire, pre-confessionale: la condotta dei pauliciani, cioè, non fu che lambita dal processo di normazione e potatura degli abusi dottrinali predisposto dalla Santa Sede e attuato dai missionari. Con ogni evidenza, la pertinace opposizione dei cattolici “novelli”, profondamente legati alle proprie tradizioni religiose e in particolare al rito dei kurbani, rappresentò per i missionari un ostacolo insormontabile.
D’altro canto non bisogna dimenticare che le vicende storico-politiche e il panorama confessionale della regione giocarono, nell’ambito della vicenda, un ruolo non secondario: è evidente che le armi dei missionari, nella Bulgaria ottomana, un contesto politico del tutto diverso da quello dell’Europa cattolica, erano spuntate. La capacità di controllo esercitata da vescovi e vicari apostolici, in particolare, era ridotta ai minimi termini: incaricati di visitare e amministrare territori vastissimi, sprovvisti, soprattutto dopo la rivolta del 1688, di un numero congruo di ministri cattolici e parroci, si trovarono a dover fare i conti con comunità che mal soffrivano le ingerenze dei missionari e i loro tentativi di operare una netta separazione fra pauliciani cattolici e pauliciani “infedeli”, distinzione che, stando alle testimonianze analizzate, appariva per lo più artificiosa e priva di senso ai loro occhi. Correggerne le condotte, emendarne le convinzioni teologiche era un proposito assai arduo da attuare in queste condizioni.
Oltretutto, la presenza concorrente di una radicata gerarchia ecclesiastica “scismatica” e delle autorità islamiche complicava ulteriormente l’orizzonte d’azione degli agenti della Santa Sede. Come si è visto, il viscoso sistema di credenze e la sensibilità devozionale dei pauliciani, bollati dai missionari come vane superstizioni, risentivano fortemente dell’influenza e del contatto con la maggioranza ortodossa. Il tentativo di eliminare gli elementi comuni ai due gruppi religiosi, come l’utilizzo del calendario giuliano, le numerose ricorrenze nonché la celebrazione degli stessi kurbani – elementi, questi, ritenuti inconciliabili con la nuova fede cattolica dei pauliciani – aveva innescato una serie di reazioni avverse sia tra i membri del clero ortodosso, che fra gli stessi pauliciani, con esiti spesso disastrosi.
Secondo Janja Jerkov Capaldo, questa capacità di opporre resistenza al progetto missionario può essere in un certo senso messa in relazione con il coevo percorso, promosso e battuto da Paisij di Hilendar, di suscitare un risveglio nazionale che fu reso possibile, nell’ottica della studiosa, «anche da episodi come l’oscura e tenace opposizione dei Paoliciani cattolici del XVIII secolo all’attacco portato alle loro tradizioni religiose» (Jerkov Capaldo 1990, 546). Forse, però, per inquadrare più correttamente la vicenda dei pauliciani bulgari occorre considerarla nel quadro più ampio del cattolicesimo balcanico: come è stato osservato, anche altrove nella regione – per esempio nell’area dell’Albania settentrionale e nella provincia ecclesiastica di Serbia – gli sforzi normativi profusi dai missionari in particolare nel corso del Sei e del Settecento finirono per infrangersi contro lo scoglio delle circostanze locali (Molnar 2019). Anzi, tanto più i tentativi di prelati e ministri cattolici si facevano rigidi e intransigenti tanto più essi divenivano intollerabili e alieni agli occhi delle comunità cattoliche locali, radicalmente legate alle pratiche devozionali e spirituali interreligiose e alle tradizioni folkloriche caratteristiche del proprio contesto di appartenenza. Il risultato, in Albania così come in Serbia e in Bulgaria, fu un cattolicesimo ibrido, dai confini porosi, eppure quasi impermeabile di fronte agli attacchi e alle sferzate dei missionari.
In questa sede, peraltro, può essere utile valutare la vicenda storica e culturale dei cattolici bulgari anche da un’altra prospettiva. Perché, seppur insofferenti al giogo che i missionari volevano imporre loro, i pauliciani (o almeno gran parte di essi) continuarono a identificarsi come cattolici, a chiedere il supporto dei ministri latini per l’offerta dei kurbani o il loro intervento per la celebrazione dei matrimoni? Il missionario Domenico Antola, nella lettera del 1768, esasperato dall’indisciplina dei cattolici “novelli” li accusava semplicisticamente di voler «esser congiunti [in matrimonio] dai nostri Missionari per il risparmio della spesa, e poi nulla loro importa di tenere la religione Cattolica» [55].
Se un certo numero di pauliciani, come sembrano attestare i documenti missionari, finì verosimilmente per convertirsi all’islam (soprattutto dopo gli eventi del 1688) o alla fede ortodossa (in seguito ai tumulti del 1725 e del 1766), una percentuale consistente di essi rimase definitivamente legata al cattolicesimo, come dimostra la presenza, nel panorama confessionale bulgaro contemporaneo, di una minoranza cattolica localizzata soprattutto nelle aree di Plovdiv e Nikopol: come è stato osservato, si tratterebbe per lo più di discendenti dei pauliciani bulgari (Yankov 2003). Potremmo allora in un certo senso dire che la formale professione del cattolicesimo, per quanto ibrido e contaminato da elementi desunti da altre tradizioni religiose, finì per funzionare, paradossalmente, come una sorta di meccanismo di autoconservazione: consentì cioè ai pauliciani di continuare a esistere come un gruppo distinto nel contesto della Bulgaria ottomana fino a tutta la prima metà del XIX secolo.
Negli anni Settanta dell’Ottocento, le insurrezioni anti-“turche” esplose sull’onda travolgente del sentimento di riscatto nazionale portarono alla costituzione di uno Stato bulgaro indipendente. Mutate le circostanze storico-politiche, mutarono progressivamente anche le condizioni della comunità dei cattolici “novelli” e il termine “pauliciani”, come è stato teorizzato, seppur utilizzato fino al XX secolo, mantenne soltanto un valore nominale, divenendo sinonimo di cattolici bulgari, una minoranza confessionale all’interno della neonata entità politica (ivi, 326).
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Note
1. Sul tema, Molnár 2014 e Ó hAnnracháin 2020.
2. L’orientamento dualista della fede pauliciana, talvolta convintamente sostenuto dagli storici soprattutto sulla base delle fonti greche pervenuteci – prima fra tutte la Historia dei pauliciani compilata dal diplomatico bizantino Pietro di Sicilia (o Pietro Siculo) nella seconda metà del IX secolo – è stato in realtà “declassato” a dualismo «depotenziato» da alcuni studiosi (Fumagalli 2019, 72), e persino messo decisamente in discussione (Ludwig 1987, 149-227). Ludwig, in particolare, ha ipotizzato che l’accusa di dualismo, e in ultima istanza di manicheismo, possa essere stata utilizzata in modo del tutto strumentale per giustificare ulteriormente la persecuzione dei pauliciani sul piano legale.
3. Dixon non soltanto avvalora l’ipotesi proposta da Ludwig (cfr. nota 2), ma sostiene che anche la tendenza iconoclasta dei pauliciani meriti una nuova riflessione, anche alla luce delle fonti coeve. Nell’opinione dell’autore, «Paulicians are associated with iconoclasts in numerous secondary sources, including Theophanes’ Chronographia, George the Monk’s Chronicon, and the Third Antirrhetikos of Patriarch Nikephoros I. However, a closer reading of these sources shows that rather than positing an alliance between the two movements, these authors rhetorically compared Paulicians and iconoclasts in order to defame the latter» (190).
4. Nella relazione sulla Visita della Chiesa di Soffia in Bulgaria, prodotta nel 1640, Pietro Deodato, allora vescovo d Sofia, annotava per esempio che «questi Paulianisti sono della natione slavi et questo si cognosce per li libri, che tengono, che sono tutti scritti in carattere di s. Cirillo, et loro non sanno altra lingua che slava» (Fermendžin 1887, 79).
5. È suggestiva la conformità di questo tipo di sepoltura con le indicazioni fornite dal profeta Maometto per l’inumazione dei corpi: le tombe dei defunti islamici, scavate in aree apposite e ben distanti dai cimiteri utilizzati da altre comunità religiose, stando alle prescrizioni del profeta dovevano essere sufficientemente profonde e spaziose, contrassegnate unicamente da una roccia o da un sasso, del tutto prive di particolari strutture commemorative o incisioni che facessero riferimento all’identità del defunto seppellito in quel luogo. Le tombe, come è stato osservato, dovevano cioè essere anonime e poco appariscenti: la visita dei sepolcri era certamente incoraggiata ma essi dovevano fungere da «reminders of death», non certo attrarre i visitatori per la loro grandiosità e bellezza (Butrović 2018, 82). Tali indicazioni, come è stato ampiamente appurato, furono tuttavia spesso disattese nel mondo islamico già nei decenni immediatamente successivi alla nascita della religione musulmana: le prime tombe monumentali risalgono infatti già alla prima metà del VII secolo (Bagnera e Pezzini 2014, 267).
6. è interessante notare che fra i cristiani di lingua araba e siriaca, la stessa messa è indicata come Qurbān/Qurbānā, con riferimento al sacrificio eucaristico.
7. Ancora oggi il kurban – in tutto simile, nella sua fenomenologia, a quello illustrato dai missionari – è celebrato nella penisola balcanica soprattutto all’interno delle comunità rurali, indipendentemente dalla fede appartenenza: è infatti diffuso presso le comunità ortodosse, islamiche ma anche cattoliche presenti nell’area della Bulgaria, della Serbia, del Kosovo, della Macedonia del nord e dell’Albania – ma anche, per esempio, in alcune regioni della Romania.
8. Nei documenti che ho consultato, anche quando prodotti da missionari di origine e lingua bulgara come nel caso di Anton Stefanov, la lettera “ж” (ž) è spesso traslitterata con la lettera dell’alfabeto latino “x” (troviamo per esempio anche “sluxba” in luogo di “Службa”, služba). Sulla base di tale evidenza ho ipotizzato che il termine “illirico” (che in questo caso significa, più in generale, slavo) usato da Stefanov, cioè “xartua”, fosse utilizzato, in realtà, in luogo di žе́rtva.
9. Sull’insurrezione di Čiprovci, Cvetkova 1980, 45-56 e Ciocîltan 2017, 71-82.
10. APF, ACTA 75, 283r/v.
11. APF, ACTA 75, 283r.
12. Ad es., Lev. 11,1-47.
13. Ancor oggi, significativamente, è diffusa in Bulgaria la consuetudine di offrire un kurbano bianco, cioè un sacrificio privo di spargimento di sangue, consistente proprio in un piatto di fagioli (Sikimić e Hristov 2007, 11).
14. APF, ACTA 107, 499v.
15. Sul tema, Pavone 2012, 943-60.
16. ACDF, M. D. 1750-1772 A, 547r.
17. Ivi, 548v-549r. Segnalo che la numerazione delle pagine contenute nel faldone non è progressiva, perché il faldone è costituito da una moltitudine di fascicoli giustapposti, ognuno con una numerazione delle pagine indipendente.
18. Ivi, 549v.
19. Una copia a stampa di questa istruzione, pubblicata in Collectanea 1907, 271-6 (n. 424) è conservata presso l’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (S.O., St. St. D4 E, I).
20. Per i riferimenti alle lettere di Paolo si vedano Eb. 9, 6-10 e Gal. 5, 18-23.
21. In particolare mi riferisco a Levitico 7, 1-38 e a Esodo 12, 3-11.
22. APF, Bulgaria e Valacchia, 5, 429r.
23. APF, SC. Bulgaria e Valacchia 5, 1r.
24. Ibid.
25. Ibid.
26. Ibid.
27. Ivi, 1r/v.
28. Ivi, 1v.
29. Ibid.
30. APF, SC. Bulgaria e Valacchia, 5, 13v. Si tratta di una lettera datata 29 aprile 1761.
31. Ibid.
32. Ivi, 13v-18r. All’interno del faldone, da pagina 14r a 17v sono inserite altre lettere indipendenti da quella di Roverano.
33. Ivi, 53r. (lettera del 20 marzo 1762).
34. Ivi, 257r.
35. Nel 1725 i missionari e l’allora arcivescovo di Sofia Andriasci, per ordine della Porta, erano stati allontanati dalla propria sede, in seguito alle violente proteste sollevate dal metropolita ortodosso di Plovdiv. Il gruppo trovò rifugio nella cattolica repubblica di Ragusa (Dubrovnik): nessun missionario era rimasto in Bulgaria all’infuori di Battista Giuliani, parroco nella diocesi di Nikopol (ivi, 2, 391r/v).
36. Ivi, 273r.
37. Ibid.
38. Ivi, 273v.
39. Ibid.
40. Si veda la lettera dello stesso Roverano del 13 maggio 1766, inviata proprio da Costantinopoli (ivi, 292v). Nel 1767, Roverano fu eletto vicario patriarcale di Costantinopoli, come si evince dalla lettera contenuta nello stesso volume inviata da Francesco Antonio Fracchia a Propaganda in data 17 maggio 1767 (ivi, 339).
41. Ivi, 307r (lettera di Roverano a Propaganda datata 20 agosto 1766).
42. Ibid.
43. Ibid.
44. Ivi, f. 351v.
45. Ibid.
46. Ibid.
47. Ivi, 32r.
48. Ivi, 182r/v.
49. Ivi, 193v.
50. Ivi, 243r/v (relazione di Domenico Antola, missionario nella diocesi di Nikopol, scritta a Begliani, l’8 giugno 1765).
51. APF, ACTA 149, 12r/v (la lettera di Dovanlia è stata pubblicata in Jerkov Capaldo 2007, 183-90).
52. APF, SC. Bulgaria e Valacchia, 7, 71r (lettera del 15 dicembre 1780).
53. ACDF, St. St. I 7 a, fasc. XIII, pagine non numerate.
54. Sul tema, Cavazza 1982, 566. L’intero numero di Quaderni storici all’interno del quale è contenuto l’intervento di Silvano Cavazza è in realtà dedicato al rapporto fra i vivi e morti e alle forme, non sempre ortodosse, che questa relazione ha assunto nell’Europa cattolica fra il medioevo e l’età moderna. Si segnalano inoltre, fra gli altri, i contributi di Maria Antonietta Visceglia e Gabriella Zarri.
55. ACDF, St. St. I 7 a, fasc. XIII, pagine non numerate.