Andrea Brazzoduro, Tommaso Frangioni e Alessandro Santagata (a cura di), “Stati di agitazione. Territori, autogoverno, confederalismo, «Zapruder – Rivista di storia della conflittualità sociale»”, 2019, 49
Se è vero che all’interno dell’agenda storiografica internazionale nell’ultima decina d’anni si è fatta spazio un’attenzione sempre più variegata per il Sud globale, il processo di decolonizzazione e le interazioni fra Nord e Sud a discapito di quelle ultra-studiate fra Est e Ovest, questo numero di «Zapruder» si inserisce in maniera originale proprio in questo filone storiografico. Infatti in un periodo storico in cui vi è uno «scomposto vociare di sovranismi, identità, popoli, nazionalismi e regionalismi escludenti» (p.5), «Zapruder» tenta un’operazione di riflessione che viene definita dai curatori (Andrea Brazzoduro, Tommaso Frangioni e Alessandro Santagata) nell’editoriale Archeologia del presente, come la “mossa del cavallo”. Ovvero provare a «gettare una luce nuova sul presente» andando a sviluppare linee di ricerca che connettano i movimenti di autodeterminazione del lungo ’68 con alcune esperienze attuali di autonomia territoriale.
Il dato di partenza che guida una parte delle riflessioni del numero è evidentemente l’idea di una molteplicità di forme del nazionalismo, inteso come quel fenomeno che punta sull’idea di nazione per fondare un’identità anche se non scevro di problematicità. Un fenomeno intrinsecamente internazionale, che si riproduce a partire da contesti anche molto distanti fra di loro, non solo geograficamente. Adottando come scansione cronologica quella dei long sixties, che va dalla metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta, si indaga quindi la propagazione delle idee, dei concetti e delle pratiche rivoluzionarie e di liberazione nazionale in una grande varietà di luoghi. Uno degli elementi chiave di questa impostazione sta nel voler restituire il giusto peso all’opera «di impollinazione incrociata con movimenti di lotta nello spazio (post)coloniale» (p. 6).
Parallelamente il numero si focalizza anche sulla contemporaneità mettendo sotto la lente di ingrandimento alcune realtà che si battono per l’ottenimento di un’autonomia territoriale e politica o linguistica, come il Rojava curdo o gli amazigh in Libia. Una proposta editoriale che propone dunque un ripensamento delle consuete – per la storiografia sulla Guerra fredda – cornici temporali e geografiche e che quindi valorizza le dinamiche di lungo periodo in una commistione polifonica di locale, nazionale e globale con l’intento di evitare esplicitamente la narrazione omogeneizzante tipica della globalizzazione andando invece a cercare squilibri, asimmetrie e conflitti che mettano in luce la storia in movimento, «nel suo farsi nei processi reali che hanno avuto luogo anche al di sotto e al di sopra dello stato nazione» (p. 6).
L’attenzione cronologica bifocale è particolarmente interessante perché suggerisce uno stimolante parallelismo che è sostanzialmente uno degli assi portanti del numero: come nei long sixties il processo di decolonizzazione è al cuore dell’agenda politica mondiale, ne influenza gli equilibri, le dinamiche e le pratiche perché è il fenomeno storico di maggior portata; così oggi, mutatis mutandis, gli esperimenti politici più innovativi provengono da fuori Europa, come dimostra il confederalismo democratico curdo del Rojava che è diventato un punto di riferimento ineludibile dell’odierno dibattito politico dei movimenti globali. Naturalmente le fondamenta di questo ragionamento sono da ricercare nella chakrabartiana “provincializzazione” dell’Europa.
Lo zoom di Nuñez Seixas (Dieci, cento, mille fronti!) elabora una riflessione sugli intrecci tra la vasta costellazione di nazionalismi sub-statali europei e i movimenti anticolonialisti e terzomondisti mettendo in luce l’importanza dei transfert culturali tra diverse periferie anche attraverso il peso dell’effetto dimostrazione che può verificarsi in determinate congiunture storiche. Nell’analisi di Daniela Galiè (Da Feday a Shahid) dell’itinerario della figura del combattente palestinese emerge con chiarezza l’importanza delle connessioni transnazionali e dell’identificazione con gli altri movimenti rivoluzionari anticoloniali e antimperialisti per i combattenti palestinesi. La mutazione progressiva dei suoi connotati che si plasma sui modelli dei rivoluzionari cubani, algerini e vietnamiti è il prodotto di quell’impollinazione incrociata accennata in precedenza. Il processo di decolonizzazione fa emergere con evidenza come l’orizzonte di appartenenza nazionale risulti un fattore progressivo di liberazione.
Al contempo però, e il caso dell’Algeria ce lo mostra benissimo, durante e subito dopo il raggiungimento dall’indipendenza nazionale emerge una sorta di aporia. Con la questione amazigh (berbera) si materializza una spia di un tarlo interno a quell’orizzonte di liberazione che pure è stato progressivo in quel momento. Lo zoom di Marisa Fois (Un’Algeria immaginata) ce ne dà brillantemente conto ripercorrendo e analizzando con precisione il percorso di lotta della comunità amazigh – prima in patria poi in esilio – all’arabizzazione forzata imposta dal Fronte di liberazione nazionale all’intero paese nel post-indipendenza. La questione della lingua diventa centrale in Algeria perché una cultura millenaria di plurilinguismo viene sostanzialmente nascosta ed oppressa nel tentativo, fortunatamente non del tutto riuscito, di estirparla. Un percorso di lotta e di costruzione identitaria plurale e in opposizione a quella esclusivamente araba autoritariamente imposta dall’alto, che si è nutrito di «paradigmi politici e culturali dei lunghi anni sessanta, caratterizzati da contestazioni e movimenti indipendentisti su entrambe le sponde del Mediterraneo, dando così una dimensione globale alla propria lotta» (p. 35). L’intervento di Marisa Fois non è l’unico in questo numero di «Zapruder» dedicato al tema dei conflitti interni agli stati (post)coloniali. La Scheggia di Chiara Pagano affronta a sua volta la questione amazigh in Libia ripercorrendo con accuratezza le complesse vicende che hanno caratterizzato quel paese dalla fase coloniale fin al post-Gheddafi evidenziando il ruolo fondamentale dei network internazionali e dell’attivismo culturale e letterario.
Come detto lo sguardo verso il presente è rivolto in particolare all’esperimento curdo in Siria del Nord. Nello Zoom intitolato Facendo la nostra libertà passo a passo Dilar Dirlik, attivista e ricercatrice curda, esamina gli sforzi rivoluzionari della comunità curda in Rojava attraverso una serie di interviste a delle militanti-combattenti e prendendo in esame il pensiero di Abdullah Öcalan (fondatore del Pkk). Mettendo in relazione le testimonianze e il contenuto delle teorie di Öcalan Dirlik, non solo ci mostra come il riferimento teorico di questo esperimento politico venga messo in pratica quotidianamente in Siria del Nord ma conferma anche l’esistenza di un processo di sperimentazione politica che ha già raggiunto un alto livello di organizzazione profondamente alternativa allo stato-nazione. Una sperimentazione su larga scala che mette al centro la liberazione delle donne, l’ecologia e l’organizzazione democratica dal basso.
Il numero, come detto, tocca ripetutamente il presente e lo fa anche nell’intervista ai giovani musicisti della band berbera Iwal nata nel sud-est dell’Algeria riaffrontando il tema della lingua e dell’arabizzazione forzata.
Nella seconda parte del volume trovano spazio anche alcuni interventi che esulano leggermente dall’impostazione monografica del numero. È il caso dell’Intervento di Sergio Bologna (La memoria falsificata dell’“autunno caldo”) che chiude il volume, o della Scheggia scritta a quattro mani da Federico Goddi e Alfredo Mignini dedicato alla complessa e ambigua figura di Francesco Zani, ex-ufficiale dell’esercito italiano nei Balcani e poi partigiano in Emilia-Romagna. A partire da una disamina della voce Wikipedia «autunno caldo», Sergio Bologna arriva a ripercorrere e analizzare le fasi principali di quel periodo inedito di mobilitazione operaia e del suo tramonto per concludere con alcune considerazioni sugli sfaceli prodotti dalla crisi del 2008 sulla classe operaia e sul settore industriale più in generale.