A Leonardo Paggi dobbiamo una delle scritture più dense del campo storiografico italiano e, anche quando si ha la sensazione che il suo ragionamento percorra un crinale troppo ardito o periglioso,
la fatica di arrivare al punto finale è sempre ripagata dalla certezza di essere usciti dalla sua pagina più attrezzati nella interpretazione del mondo di quando si era entrati. E non si può fare a
meno di evidenziare la costante passione che continua a presiedere le sue domande di storico, il rovello incessante che può ascriversi solo alla percezione di essere cittadino attivo del proprio
tempo, immerso fino in fondo nelle possibilità, nelle cadute e nei lampi improvvisi dei rivolgimenti globali. Ne deriva una pratica storica lungi dall’astratto esercizio intellettuale e tutta
protesa ad appagare il bisogno esistenziale di mappare il presente e rendere più intelligibile la nostra esperienza di vita, secondo le più belle pagine dedicate da Marc Bloch al mestiere di
storico. Inoltre, al di là del vasto utilizzo di una letteratura interdisciplinare (antropologia, filosofia, sociologia, teoria economica, letteratura), colpisce positivamente l’occhio obliquo
sulla storia nazionale o, ancor meglio, l’occhio in movimento. Paggi, infatti, assume costantemente nei suoi lavori una prospettiva posta sulla frontiera tra nazionale e internazionale, guardando
l’Italia dall’esterno e l’esterno dall’interno, anche quando le sue pubblicazioni non sono di storia comparata tout court, bensì riflessioni ponderate sulla penisola. Ciò evidentemente è
possibile solo grazie alla frequentazione di una bibliografia internazionale – specialmente anglosassone/americana, ma anche francese e tedesca – e all’attenzione per quella che si potrebbe
definire, con Habermas, la sfera pubblica globale.
Tutte queste caratteristiche del «fare storia» di Paggi si ritrovano condensate nel suo ultimo libro. Nel contributo agli atti di un convegno pisano (Il secolo spezzato. La politica e le
guerre, in Novecento. I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Donzelli, Roma, 1997, pp. 79-113), Paggi sosteneva che qualsiasi tentativo di periodizzare il XX sec. dovesse
necessariamente confrontarsi con il tema della guerra. Ed è in particolare il secondo conflitto mondiale a costituire la cerniera tra il mondo formato negli ultimi tre decenni del XIX sec. e
l’epoca attuale. In questo secolo spezzato a metà, dunque, la guerra totale si configura come la scaturigine dei problemi di cui siamo contemporanei. Ruotando la scala dell’analisi dal secolo alla
formazione dell’Italia repubblicana e chiudendo una riflessione durata diversi anni, Paggi approfondisce la stessa tesi nel recente volume. Egli convoca Piero Calamandrei come autorevole punto di
appoggio del suo concettualizzare. Il «popolo dei morti» di Calamandrei è qui depurato dagli psicologismi sui dissidi con il figlio ed è disancorato dall’estetica mortuaria, che condividerebbe con
i fascisti, per essere immerso nella tempesta della guerra totale e negli esiti da essa dischiusi. La Repubblica, di cui Calamandrei si fa cantore, nasce non solo dalla Resistenza, ma più
correttamente dal conflitto mondiale, di cui la prima è solo una parte. Senza contrapporre «l’antifascismo militante» agli eventi precedenti e coevi, Paggi opera una sorta di rovesciamento della
sineddoche: dalla Resistenza come tutto alla guerra, che ricomprende la Resistenza. Tale spostamento - motiva l’autore - origina dall’insufficienza della coppia fascismo-antifascismo per leggere il
passaggio dal consenso di massa, di cui gode il regime autoritario (Paggi non usa la categoria di totalitarismo) alla Repubblica, passando per la disgregazione del Paese e delle sue identità.
Quella coppia, tramandata direttamente dai protagonisti e assunta a lungo dalla storiografia, non dà conto dell’esistenza di mondi irriducibili sia al fascismo sia all’antifascismo. Mondi che non
solo la lotta partigiana, ma anche il récit antifascista dei decenni seguenti trascurano, mostrando le faglie della Resistenza come fondamento dell’identità degli italiani, la sua
fragilità nel rappresentare simbolicamente tutti. E quanto più l’antifascismo tende ad identificarsi con il solo partigianato, o comunque opera per spezzare il più a fondo possibile i ponti con
l’Italia fascista e liberale, tanto più quelle faglie si allargano, facendo vacillare la stabilità della Repubblica.
Quali sono questi mondi sfuggenti alla presa dell’antifascismo? Paggi ne individua alcuni con cui prova a sostanziare il magmatico e imprendibile concetto di «zona grigia» e ad assegnargli
dinamismo: le vittime dei massacri nazisti, i civili falciati dai bombardamenti degli alleati, il groviglio di traiettorie di vita accomunate da gradazioni diverse di adesione al fascismo fino alla
guerra e dalla maturazione, soltanto in quel frangente, di un distacco dal regime. Tra loro, però, pochi entrano nel campo dell’antifascismo attraverso un esame autocritico. I più traghettano
inerzialmente ad un’Italia post-fascista, sotto la cui luce si situeranno su posizioni assai moderate. Per ognuna di queste categorie di italiani Paggi delucida l’impermeabilità all’epica guerriera
dell’antifascismo. Convincente appare, in particolare, lo scioglimento della memoria delle stragi - che Paggi ha contribuito pionieristicamente ad elevare a campo di studi autonomo – nella trama
più ampia della storia generale, scartando il rischio di ipostatizzare una circoscritta nicchia di ricerca.
La forza storiografica e civile, si potrebbe aggiungere, dello spostamento del fuoco d’analisi sull’intera esperienza di guerra - secondo l’indicazione di Calamandrei - consiste proprio nel
riconoscimento e nella ricomposizione di tutti i frammenti di Italia che si allontanano dal fascismo per confluire nella democrazia. Beninteso, si evitino fraintendimenti: non si tratta
per l’autore di un espediente retorico, ma di un processo sociale vischioso lungo il quale la guerra totale, in tutte le sue inquietanti articolazioni, manda in frantumi le solidarietà con il
regime e determina una nuova apertura storica. Questa configurazione bifronte della guerra è ricostruita nella parte centrale del libro attraverso la prospettiva «periferica» di alcuni comuni
toscani, che offrono una documentazione di grande interesse. Qui Paggi, e nel saggio posto in appendice, torna ad utilizzare le visioni di Michel Foucault sulla biopolitica, come aveva già fatto
nel Secolo spezzato, dimostrando come la precipitazione di quel concetto nella ricerca storica minuta, persino microscopica, possa rivelarsi molto efficace, oltre che indiscutibilmente
suggestiva. Mentre in Francia Foucault è stato «tradotto» negli studi storici sullo stato sociale, sortendo notevoli risultati – si veda ad esempio il classico F. Ewald, L’Etat-Providence,
Paris, Grasset, 1986 oppure, più concentrato sul Novecento, R. Lenoir, Généalogie de la morale familiale, Seuil, Paris, 2003 – in Italia le potenzialità delle categorie foucaultiane,
specie quella di biopolitica, per lo studio dei nessi tra stato, politiche della vita e politiche di popolazione, sono quasi del tutto ignorate tra i contemporaneisti dediti a questo campo
disciplinare.
Lo stato sociale, notoriamente, nasce ben prima della seconda guerra mondiale e precisamente nella Germania bismarkiana. È pure risaputo che i fascismi edifichino imponenti strutture di stato sociale. Nel caso italiano, durante il Ventennio sono poste robuste radici che resistono quasi intatte fino alla seconda metà degli anni Settanta del Novecento, assegnando alla previdenza italiana un inconfondibile connotato «occupazionale». Se si guarda invece all’uso politico dei benefits statali per obiettivi clientelari e di consenso, l’impalcatura eretta dal fascismo sopravvive addirittura fino al termine del decennio successivo. Da questo punto di vista, la frattura così icasticamente collocata da Paggi nel 1945 appare decisamente più sfumata. Ciononostante, l’autore enfatizza a ragione una torsione che si realizza davvero a ridosso del secondo conflitto mondiale o poco prima, almeno per quanto concerne il suo innesco. Lo stato sociale dei fascismi, infatti, è in definitiva uno stato sociale per la guerra e dunque uno stato sociale per la morte. In Germania gli studi di G. Aly (Lo stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo, Einaudi, Torino, 2007 [ed orig. 2005]) documentano come l’espansione della protezione e degli standard di vita della popolazione tedesca durante la guerra sia perfino contabilmente subordinata al furto legalizzato delle risorse degli ebrei e al saccheggio degli stati da ridurre a sudditi del «nuovo ordine europeo». Come dire, è finalizzato alla guerra oppure di converso è la guerra ad essere finalizzata ad un certo benessere di alcuni tedeschi: gli ariani nazisti e quelli docili con Hitler. Paggi racconta come, al di là della tecnicità dei dispositivi previdenziali, l’idea opposta di una cittadinanza marshalliana come «piena appartenenza alla comunità nazionale», prenda corpo nei rovesci della guerra. In questa prospettiva, l’archivio comunale funziona come lente di ingrandimento che mostra da un canto, in negativo, l’incapacità del fascismo - a differenza del nazismo - di arginare lo scatenamento dei bisogni elementari; dall’altro, in positivo, la trasformazione dei «bisogni in diritti» come inevitabile frattura della cittadinanza autoritaria fascista e seme di quella democratica.
Lungo questo crinale, però, affiorano alcuni dubbi. La guerra è certamente un catalizzatore di discorsi e un vettore di pratiche che si incorporano in sentimenti collettivi relativi alla cura della
vita. Tuttavia, occorre precisare che fin dagli anni Trenta si pensa di contrapporre allo stato sociale della morte lo stato sociale della vita, recependo una lezione che già la «Grande guerra»
aveva affacciato e il luogo in cui ciò avviene è l’antifascismo europeo. A questa «cosa» nuova si dà il «nome» di welfare state nei primi anni ‘40. Non solo. È sempre dentro l’antifascismo
che si intende opporre alla grande depressione del ‘29, intesa come una delle radici dei fascismi - specie del nazismo ovviamente - e della guerra stessa, l’edificazione di uno stato regolatore
democratico, volto ad impedire un nuovo crack sistemico del capitalismo e congiuntamente la ricomparsa dei regimi degli anni ’30. Infine, è sempre nel campo dell’antifascismo internazionale che
alla guerra si vuole sostituire la pace e ci si industria per scongiurare gli errori commessi dopo il 1918, architettando un sistema di istituzioni sovranazionali in grado di rendere meno irenico
il progetto di una convivenza pacifica tra stati.
In questa luce, la personalità che maggiormente incarna il passaggio dai fascismi alla democrazia è William Beveridge, in cui il richiamo alla democrazia sociale, alla programmazione
economica e alla pace è forte e limpidissimo (Per una sintesi: Perché e come sono liberale, Rizzoli, Milano-Roma, 1947 [ed. orig. 1944]). Insomma, le pietre angolari su cui
viene costruito l’ordine europeo post 1945 cominciano ad essere poste sin dagli anni Trenta e soprattutto sono tutte elaborate nel milieu antifascista, nonostante la sua pluralità e le sue
contraddizioni interne (A. De Bernardi, Discorso sull’antifascismo, Bruno Mondadori, Milano, 2007). In questo senso, il caso italiano è paradigmatico. La Costituzione del 1948 - che è
antifascista in senso esplicito- poggia esattamente sulle stesse pietre angolari. Nel libro tutto ciò è solo incidentalmente attribuito all’antifascismo. Paggi ha certamente ragione affermando che
l’identificazione dell’antifascismo con la Resistenza o, altrimenti, la costruzione politica della figura del partigiano in armi, compiuta nel dopoguerra, ha provocato un restringimento dei
consensi di cui l’antifascismo ha goduto. Tuttavia, si ha come l’impressione che anziché restituire all’antifascismo quei consensi e, si potrebbe dire, la sue zone di competenza, l’autore le
sciolga dentro la più generale esperienza di guerra. La «rivoluzione dei diritti» come insorgenza di una nuova relazione tra cittadino, stato e potere oltre ad incontrare una spontanea spinta dal
basso, liberata dai rivolgimenti bellici secondo l’indicazione di Paggi, è sostanziata proprio dai discorsi e dalle pratiche del variegato antifascismo, dai suoi uomini e dalle sue donne.
Beninteso, non si tratta della consunta e statica contrapposizione tra spontaneità e organizzazione, ma della opportunità di riperimetrare l’antifascismo, scorgendone da un canto il carattere di
lunga durata antecedente e successivo alla guerra, quindi alla stessa Resistenza, dall’altro il suo fondamentale apporto alla definizione della democrazia di massa del secondo dopoguerra. D’altra
parte, si farebbe fatica a comprendere come qualche lustro più avanti, durante il maldestro governo Tambroni, uno dei soggetti sociali emergenti dalle pieghe della modernizzazione abbia usato
l’antifascismo per esprimere la menomazione della cittadinanza come piena appartenenza. Beni di cittadinanza, accesso al consumo, riconoscimento, fine degli etichettamenti stigmatizzanti
sui giovani e della loro esclusione sociale: questa è la costellazione di «cose» che sono affidate alle «parole» dell’antifascismo - e non ad un altro lessico politico - dalle «magliette a strisce»
in uno snodo periodizzante della storia italiana. Come dire, si tratta di un mondo che racconta la capacità espansiva dell’antifascismo o quanto meno la sua incoercibile estensione ben oltre il
riferimento mitologico alla lotta partigiana.
In definitiva, pur operando tale riposizionamento, Paggi ha ragione: l’antifascismo non ha rappresentato proprio tutti gli italiani. Forse però era inevitabile, come è fisiologico che le identità
nazionali siano plurali, dinamiche e conflittuali, se si scava sotto le facciate di superficie e il lavorio di invenzione delle tradizioni. Viene da chiedersi se, al di là della doverosa critica
del mito resistenziale e degli usi pubblici della storia - ascrivibile alla ricerca più seria quale quella di Paggi - sia proficuo essere tanto spietati con l’antifascismo, come è accaduto negli
ultimi 15 anni circa non solo nel discorso politico, ma spesso anche in quello storico. Insomma, all’antifascismo è stato rimproverato proprio tutto! E se rovesciassimo il problema? Come mai
l’antifascismo ha rappresentato una parte corposa degli italiani a differenza della Germania e costituisce uno dei tasselli dell’identità nazionale? Da quest’ultima, comunque, e dai dibattiti che
essa ha innescato nei primi anni Novanta, Paggi si tiene alla larga, preferendo parlare di riconoscimento per favorire la coesione del Paese attraverso l’emersione dei suoi lati oscuri. Il
volume dimostra come si possa parlare in modo documentato dei fondamenti simbolici di una nazione e delle sue striature senza sollevare il rimpianto per le debolezze dell’identità, anzi omettendo
proprio l’uso di quel concetto. L’indicazione che - mi pare - ne derivi è che il discorso sull’identità nazionale sia più confacente al campo della politica che a quello della ricerca scientifica,
come sostengono altri autorevoli studiosi (G. Noiriel, À quoi sert «l’identité nationale»?, Marseille, éditions Agone, 2007).
Concludendo: posto sulla linea di incontro tra fonti archivistiche locali, la letteratura, l’analisi biografica e un’inconfondibile tensione verso i grandi quadri interpretativi e teorici, quello
di Paggi è un volume ragionato e che fa ragionare, intenso e complesso.