Introduzione
Padre Pio da Pietrelcina (Francesco Forgione, 1887-1968) è stato, assieme a Francesco d’Assisi (Giovanni di Pietro di Bernardone, 1181/82-1226), uno dei più noti stigmatizzati di tutti i tempi [1]. Il cappuccino di San Giovanni Rotondo, da decenni meta di ondate di pellegrini, rappresenta nell’immaginario comune l’incarnazione contemporanea del Christus patiens trafitto dai chiodi della croce. L’associazione tra Padre Pio e le stigmate nel Novecento, complice l’esposizione mass-mediatica cui è stato sottoposto e l’ampia circolazione di materiale audio-visivo, è un fatto assodato [2]. Eppure, Padre Pio rappresenta un’eccezione in un panorama italiano (o forse dovremmo dire mondiale) nel quale le stigmate costituiscono un fenomeno prettamente femminile: un fatto che apre una serie di questioni di carattere storico-religioso, sociologico e di genere [3]. Questo saggio si propone di esplorare alcuni aspetti della manifestazione di stigmate, intese come segno di sacrificio eucaristico-espiatorio, da parte di donne nel Novecento italiano e riflette sul ripensamento del corpo femminile come oggetto sacralizzato, e potenzialmente sacramentato, nel quadro della storia religiosa e sociale del cattolicesimo tardo-moderno e contemporaneo.
Dopo aver introdotto il discorso seicentesco sulle stigmate e il suo legame con la sensibilità mistico-religiosa ottocentesca, questo saggio riflette sull’enciclica Miserentissimus Redemptor (Pio XI, 1928) quale testo chiave per comprendere la spiritualità espiatoria nel XX secolo. L’enciclica fornisce l’occasione di esplorare la connessione tra il fenomeno delle anime espianti e l’idea di poter guarire il mondo pervaso dal male a inizio Novecento – nel periodo della Grande guerra e nel contesto postbellico, innanzitutto – attraverso la sofferenza corporale vissuta in compartecipazione ai dolori del Cristo della Passione. Il riferimento al cosiddetto victim movement, che offre una struttura in qualche modo istituzionalizzata al fenomeno delle anime espianti, è d’obbligo.
Il saggio, dopo aver introdotto i casi di Gemma Galgani (1878-1903) e Therese Neumann (1898-1962), sottolineando le differenze dei modelli agiografico-espiatori delle due donne, presenta le poco note esperienze di due stigmatizzate italiane: la religiosa Tomasina Pozzi (1910-1944) e la laica Margherita (1908-?). Questi casi di studio offrono l’occasione per riflettere sul ruolo centrale del corpo femminile, nella sua potenziale sacramentalità, nei casi di stigmatizzazione. I due casi scelti risultano particolarmente stimolanti non solamente perché poco studiati – inedito è il caso di Margherita – ma poiché la ricca documentazione, conservata presso l’Archivio Storico Diocesano di Milano, comprende fonti che spaziano dalle comunicazioni ufficiali prodotte dal Santo Ufficio, o da chi era stato incaricato di valutare il caso, a diari e lettere che ricostruiscono le vicende delle due stigmatizzate attraverso lo sguardo dei testimoni o delle donne stesse. Fornisce, inoltre, materiale fotografico che permette al lettore di immergersi nelle vicende narrate. Infine, se il caso di Tomasina Pozzi offre l’occasione di riflettere sulla problematica della simulazione di santità accertata, e sulle pratiche autolesionistiche in contesti religiosi anche in relazione alle prassi espiatorie cattoliche nel periodo bellico e postbellico, quello di Margherita stimola una profonda riflessione circa la condizione di donne che, avendo trascorso la vita intera nella convinzione di portare sul proprio corpo i segni della Passione, si sono ritrovate prive di ogni supporto, una volta identificate come simulatrici e allontanate dalla propria guida spirituale.
Stigmate e anime espianti (XVII-XIX secolo)
Vi è una connessione profonda tra l’idea di espiazione dell’anima e il fenomeno delle stigmate. Queste ultime costituiscono il segno visibile della Passione di Cristo (o invisibile, nei casi di chi afferma di essere sottoposto al dolore delle ferite di Cristo senza che queste appaiano nella carne) e comprendono pertanto non solamente le ferite causate dai chiodi conficcati (secondo la tradizione iconografica dominante) nelle mani e nei piedi, ma anche i segni della coronazione di spine (sanguinamento su capo e fronte), della flagellazione alla colonna (tipicamente ferite sulla schiena) e della lancia nel costato. Cristo, secondo una lunga tradizione teologica facente capo a Isaia 53, è inquadrato nella teologia cristiana come il Messia sofferente, l’agnello condotto al macello (Is. 53, 7), che attraverso il sacrificio espiatorio sulla croce paga il prezzo dei peccati del genere umano e porta la Redenzione [4]. Cristo è, in qualità di uomo-Dio, l’unica creatura in grado di ripagare Dio dell’infinito debito che grava sulle spalle dell’umanità proprio in virtù della sua natura sia umana sia divina. Senza la Passione e la morte di Cristo, che conducono alla ricompensa e, pertanto, alla potenziale salvezza dell’anima, l’umanità non potrebbe in alcun modo fare ammenda dei propri peccati dinnanzi al Creatore – riferimento obbligato è la teoria della compensazione esposta da Anselmo (1033/34-1109) nel suo Cur Deus Homo (Phelps 2016, 273), diversamente reinterpretata da teologi e moralisti di età moderna: le speculazioni teologiche del gesuita fiammingo Leonardo Lessio (1554-1623), tra gli altri, che presenta gli essere umani come creditori dinnanzi a un Dio che ne dovrebbe ricompensare le opere secondo un classico rapporto giuridico do ut des, rappresentano un esempio estremo ma indicativo dell’ansia di comprendere il rapporto uomo-Dio in termini contrattuali e pertanto attraverso categorie umane [5]. Le stigmate vanno innanzitutto comprese nel quadro di una relazione tra umano e divino fatto di compensazione necessaria per i peccati commessi dagli altri: il sacrificio della carne diviene un elemento essenziale nell’economia della salvezza.
La sequenza che va tenuta a mente è la seguente: Passione (manifestata attraverso le stigmate) – sacrificio e dolore – espiazione – Redenzione. Cristo è dunque il prototipo di colui che, attraverso la propria sofferenza, resa visibile attraverso le stigmate, compie un sacrificio espiatorio atto a redimere l’umanità dai peccati e permettere quindi la salvezza dell’anima di molti. Che il dolore abbia avuto, nel corso della storia cristiana, un ruolo di primo piano è cosa certa. Basti pensare alle innumerevoli esperienze di ascetismo e privazione, ma anche di pratiche penitenziali volontarie sanguinolente che hanno costellato l’esperienza religiosa di molti, dagli albori dell’era cristiana all’età contemporanea (i predicatori popolari gesuiti che seguono il modello di Paolo Segneri Senior, 1624-1694, ancora nell’Ottocento, sono un esempio noto). I prodromi del fenomeno delle anime espianti vanno però cercati nel Seicento.
A partire dalle apparizioni del Sacro Cuore testimoniate dalla visitandina Marguerite-Marie Alacoque (1647-1690), prendono progressivamente forma in modo sistematico le idee di riparazione del Sacro Cuore di Gesù e di anima espiante [6]. Il cuore – l’organo emozionale per eccellenza [7] – appare alla Alacoque circondato dalle fiamme e trafitto dalle spine (uno degli arma Christi, strumenti di supplizio della Passione); è un cuore sofferente, che sanguina; un cuore che Gesù stesso si strappa teatralmente dal petto. La domanda è quindi quale sia la causa scatenante della sofferenza profonda di Gesù, che si concretizza nel dolore della carne, nel suo cuore sanguinante. La risposta non può essere che una: i peccati degli uomini. Lo slancio mistico della Alacoque, così profondamente connesso alla sfera del peccato, getta le sue radici nella vita interiore di una donna schiacciata da quella cultura della colpa che tanta parte ha avuto nel dipanamento del cattolicesimo moderno, attraverso l’uso sistematico di strumenti di controllo inquisitivi, primo tra tutti il confessionale. Come confida al padre gesuita Claude de la Colombière (1641-1682), sua guida spirituale, Marguerite-Marie si sente schiacciata dal senso di peccato e dal timore di avere offeso Dio. In un processo di rimorso e autoaccusa, anima inquieta e in preda all’ansia, come la stessa si definisce, la donna si volge a pratiche penitenziali dolorose, soffre a causa di una serie di disturbi fisici e nella propria autobiografia professa il proprio desiderio di soffrire e la consolazione e il piacere trovati nel dolore della croce e nella propria identificazione con il Cristo sofferente (O’Brien 2017, 170-1, 174).
Nell’esperienza mistica della Alacoque, l’espiazione personale emerge come la via privilegiata per poter curare il cuore sanguinante di Cristo. L’idea si sviluppa pienamente nell’Ottocento in concomitanza con un rinnovamento del culto del Sacro Cuore (basti pensare alla costruzione della monumentale chiesa ad esso dedicata, a Montmartre, Parigi) [8]: prima, con le apparizioni parigine di Rue du Bac di cui si rende protagonista Catherine Labouré (1806-1876), con la conseguente produzione della cosiddetta medaglia miracolosa recante tra gli altri simboli il Sacro Cuore trafitto da una spada; poi, con la parabola religiosa di Thérèse di Lisieux (1873-1897), che fa della sofferenza e di quella che chiama la “piccola via” – ovvero la piccolezza umana come ambito in cui si fa visibile la misericordia divina, ma anche l’esercizio delle virtù eroiche nella piccolezza della quotidianità – strumenti di perfezione cristiana [9]. Nel 1895, Thérèse si offre come vittima all’amore misericordioso di Dio con l’intenzione di scontare in parte i peccati di coloro i quali non praticavano atti di espiazione. Si fa, cioè, anima espiante [10].
Il fenomeno delle anime espianti, ossia di coloro i quali o le quali (con una predominanza di donne) decidono consciamente e volontariamente – per usare un’immagine visiva molto chiara – di aiutare Cristo a portare la croce attraverso la quale redime l’umanità, si sviluppa appieno nel mondo cattolico tra Ottocento e inizio Novecento, parallelamente alla ripresa di vigore di fenomeni mistici di varia natura, che la Chiesa indaga a fondo attraverso indagini locali o veri e propri processi inquisitoriali [11]. A inizio Novecento, a testimonianza della diffusione del fenomeno, negli Stati Uniti d’America si sviluppa perfino quello che verrà denominato victim movement, un movimento che incitava i ferventi cattolici ad offrirsi come anime espianti per sollevare almeno parzialmente Cristo dalla sofferenze causate dai peccati degli uomini; per tamponare e curare, cioè, il cuore sanguinante e coronato di spine apparso alla Alacoque secoli addietro. L’atto redentivo è costituito dalla sottomissione obbediente alla sofferenza, piuttosto che dalla sofferenza di per sé, a imitazione di Cristo e della sua totale accettazione della volontà di Dio Padre (Kane 2002, 83) [12].
Tali esperienze di espiazione sposano bene l’immagine che la Chiesa, con varie modalità (per esempio la promozione del modello agiografico martiriale con l’apertura e felice chiusura di cause di canonizzazione di numerosi martiri moderni), vuole dare di sé nell’Ottocento; l’immagine, cioè, di una Chiesa sofferente, in balia di un mondo sempre più secolarizzato nel quale si legge l’intervento del diavolo, come ben comprendiamo dalla pubblicazione del Sillabo da parte di Pio IX, nel 1864 [13]. È una Chiesa che si sente assediata su più fronti: culturale, politico, religioso. Il modello comportamentale e teologico dell’anima espiante che soffre con Cristo nel tentativo di ricucire il suo cuore martoriato dai peccati degli uomini non potrebbe essere più calzante.
Miserentissimus Redemptor (1928) e i “mali” dei tempi
Nel 1928 Pio XI pubblica l’enciclica Miserentissimus Redemptor nella quale promuove l’atto riparatorio da offrire al Sacro Cuore di Gesù, allo scopo di «risarcire gli oltraggi in qualsiasi modo recatagli» e definisce teologicamente ragioni, prassi e valore dell’offerta sacrificale delle anime espianti. Protagonista è ancora una volta quel cuore martoriato dalle spine, o trafitto da una spada, che può però essere almeno parzialmente consolato attraverso la compartecipazione ai suoi dolori, attraverso atti di penitenza che soli possono ristabilire l’ordine violato di giustizia e amore. La domanda che ci si dovrebbe porre riguarda come possa avvenire tale compartecipazione alla sofferenza di Cristo e del suo cuore attraverso la penitenza. Nel corpo di colui che soffre, e lo fa volontariamente come vittima, si compie «quello che manca dei patimenti di Cristo a favore del corpo di Lui, che è la Chiesa», intesa qui non solamente come istituzione ma nel suo significato etimologico di assemblea dei fedeli. Nulla di nuovo. Pio XI si rifà a Paolo di Tarso (4-64/67), il quale nella lettera ai Colossesi (Col. 1, 24) scrive: «Ora sono lieto di soffrire per voi; e quel che manca alle afflizioni di Cristo lo compio nella mia carne a favore del suo corpo che è la chiesa».
Dinnanzi alla sempre crescente perversità degli uomini, scrive Pio XI nella sua enciclica, aumenta contemporaneamente anche il numero di coloro i quali «si sforzano di dar soddisfazione al Divin Cuore per tante ingiurie recategli, ed anzi non temono di offrire se stessi a Cristo come vittime».
La Miserentissimus Redemptor viene composta a pochi anni da uno dei più traumatici eventi della storia contemporanea, la Prima Guerra Mondiale: un conflitto su scala globale nel quale vengono utilizzate per la prima volta armi dagli effetti atroci e devastanti – basti pensare al filone letterario inglese delle poesie dedicate agli effetti del gas –, unite allo strazio della trincea.
Solamente supereroi dello spirito, ovvero una élite di vittime scelte da Dio, potrebbero espiare le atrocità perpetuate – che altro non sono che peccati commessi – scrive Paula Kane, richiamando uno dei primi testi scritti sul tema delle anime espianti dal sacerdote francese Paulin Giloteaux (Kane 2002, 92) [14].
For in the darkest hours of this world’s history, when godlessness is rife or immorality parades itself before men’s eyes, it pleases God to summon certain souls to sacrifice themselves, freely in imitation of the Crucified, for the advantage of the Church and the salvation of the world.
Infatti, nelle ore più buie della storia di questo mondo, quando l’empietà dilaga o l’immoralità sfila davanti agli occhi degli uomini, piace a Dio chiamare alcune anime a sacrificarsi, liberamente a imitazione del Crocifisso, a vantaggio della Chiesa e la salvezza del mondo.
Offrirsi vittima per espiare i peccati di coloro i quali non se ne curano significa medicare il cuore sanguinante di Cristo, ma anche guarire il mondo pervaso dal male. Il fenomeno delle anime espianti di età contemporanea e la spinta alle pratiche espiatorie, a farsi cioè vittime compartecipi dei dolori di Cristo, va certamente compreso nel quadro storico-sociale dell’epoca. Offrirsi vittima si configura in questo senso come possibile risposta ai mali (i peccati) del XX secolo. Il victim movement coinvolge uomini (notoriamente la figura del victim priest, il sacerdote vittima) [15], donne, religiosi e religiose, laici e laiche (Kane 2002, 92, 113). Pensiamo al caso di religiose che osservano chiuse nelle mura del proprio istituto gli avvenimenti che si consumano all’esterno, o a mogli e madri che attendono impotenti l’incerto ritorno di mariti e figli dalla guerra. Per ferventi cattolici e cattoliche, offrirsi vittima poteva apparire come una valida alternativa all’attendere inermi. La victim spirituality si diffonde attraverso il victim movement, anche grazie all’uso della stampa, ma quest’ultimo offre semplicemente struttura ad una spiritualità esistente da secoli, che caratterizzava molte figure che non avevano alcun tipo di collegamento con il movimento [16].
Il paradosso delle stigmate: un fenomeno al femminile?
Esiste una distinzione forte e necessaria tra coloro che decidevano consapevolmente di dedicarsi alle pratiche auto-penitenziali (digiuno, auto-punizioni corporali, forme di rinuncia di vario tipo), coloro che, colpiti o colpite dalla malattia, offrivano le proprie sofferenze in sacrificio per l’espiazione dei peccati, e coloro che invece manifestavano il segno delle stigmate – e in quest’ultima categoria dovrebbe essere aperta una parentesi dedicata ai casi di autolesionismo accertati dall’autorità ecclesiastica poiché ricadono potenzialmente sotto la categoria inquisitoriale di affettata santità.
Certamente le anime espianti, in tutte le loro declinazioni, sono accomunate dall’adeguamento al modello cristologico della Passione. Cristo prototipo di espiazione e sacrificio redentivo, Cristo primo martire, Cristo che dà ragione alla sofferenza, facendone veicolo di salvezza. Benché il fenomeno delle stigmatizzazioni otto-novecentesche vada contestualizzato in un mondo nuovo, secolarizzato, pervaso dalle trasformazioni socio-culturali e da azioni belliche mai osservate, il modello di riferimento resta il medesimo: il Christus patiens che, a più riprese, in diversi contesti religiosi ed epoche, ha ispirato pratiche penitenziali e movimenti spirituali – si pensi all’ascesi medievale o alla Devotio Moderna – che, seppur molto diversi tra loro, si ritrovavano a gravitare attorno al culto dell’immagine di Cristo [17]. Se il misticismo è un fenomeno fuori dal tempo poiché si relaziona con ciò che è al di là del tempo e dello spazio, i mistici di per sé non sono atemporali, ma rispecchiano o rispondono allo stato della società loro contemporanea (Priesching 2012, 79-80; Van Osselaer 2021, 88-9).
È stato ipotizzato che la popolarità degli stigmatizzati nell’Ottocento sia legata a un revival di questa mai sopita enfasi cristocentrica. Attraverso i secoli, la stigmatizzazione è stata associata all’insorgere e allo sviluppo di correnti spirituali che esaltavano l’imitatio Christi. Considerata la diffusione di immagini rappresentanti la crocifissione, l’uccisione di martiri e le raffigurazioni della mater dolorosa, i cattolici del XIX secolo avrebbero certamente guardato a corpi sofferenti come pieni di significato. Si potrebbe parlare addirittura di un vero e proprio culto della sofferenza, incentivato dalla diffusione di pratiche devozionali in cui il corpo è centrale, come il culto eucaristico o quello verso i Sacri Cuori. Inoltre, nell’Ottocento l’elenco dei beati e santi era stato arricchito da tre donne stigmatizzate, che potevano pertanto essere di esempio per i devoti, ovvero Veronica Giuliani (1660-1727), Maria Francesca delle Cinque Piaghe (1715-1791) e Chiara da Montefalco (1268-1308) (Van Osselaer 2021, 83-4).
Cristo: un uomo. Così come, si diceva in apertura, i più noti stigmatizzati della storia. Eppure, in età contemporanea (e non solo), fatta eccezione per Pio da Pietrelcina, le stigmate appaiono come un fenomeno prettamente al femminile. Ci troviamo dunque a riflettere sulla difficoltà della Chiesa – un’istituzione costruita al maschile – di rappresentare, forse accettare, una donna come immagine vivente di Cristo, che è non solo un modello maschile, ma anche e soprattutto sacerdotale.
È sulla croce, infatti, che Cristo diviene il primo sacerdote dell’umanità e, in un atto carico di sacramentalità, compie quel sacrificio eucaristico di cui le stigmate sono segno. Il valore sacramentale della morte di Gesù in croce è così teologicamente rilevante che Giovanni, nel suo Vangelo, omette il racconto della consacrazione del pane e del vino durante l’Ultima Cena, che verrà in seguito assunto a base scritturale della transustanziazione (ossia la trasformazione della sostanza del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo attraverso la consacrazione del sacerdote durante la messa), e riserva alla sola morte in croce il valore di sacrificio eucaristico.
Quanto detto finora apre a una serie di domande cruciali. Primo, come deve essere considerato il corpo di una stigmatizzata? Nell’Ottocento, quando le donne vengono associate fortemente al corpo, così come gli uomini alla mente, sembra naturale pensare che esse esprimano il proprio entusiasmo religioso attraverso la carne (ivi, 91). D’altra parte, ci si trovava di fronte alla difficoltà di comprendere un corpo femminile recante i segni della sofferenza della croce (Herzig 2013).
Secondo, le stigmatizzate, che soffrono i dolori del Cristo della Passione, ripropongono il sacrificio eucaristico della croce così come i sacerdoti ripropongono il sacrificio come presentato da Gesù nell’Ultima Cena? Hanno, pertanto, un ruolo sacramentale? Se la risposta fosse positiva, potenzialmente si potrebbe aprire uno scenario fatto di sacerdozio femminile, di cui negli ultimi anni tanto si è discusso e si continua a discutere nel mondo cattolico.
La questione dei ruoli di genere nella cristianità e nella gestione dell’apparato del sacro è centrale nell’esclusione delle donne dal sacerdozio [18]. Diversi autori hanno messo in relazione il divieto di sacerdozio femminile nella cattolicità con la tradizionale esclusione delle donne dalla stessa imago Dei (Børresen 1991), che trova la propria base scritturale in passaggi quali Genesi 1, 27 («Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò») e 1 Corinzi 11, 7 («L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo»). O, forse, sarebbe più corretto parlare dell’esclusione delle donne dall’imago Christi: l’immagine del Dio fatto non solo umano, ma uomo, che compie sulla croce il sacrificio eucaristico. Le anime espianti, che soffrono con Cristo, non incarnano però alcun ruolo sacramentale, poiché solamente il sacerdote può farsi alter Christus. Questa interpretazione semplicistica pone tuttavia, a mia opinione, dei problemi. Le stigmate riconfigurano infatti il rapporto tra femminilità e sacro, ma anche tra donne e gerarchia ecclesiastica, attraverso il corpo sul quale sono visibili i segni tangibili del sacrificio eucaristico – e quindi dell’atto sacramentale – compiuto da Cristo sulla croce.
Gemma Galgani (1878-1903) e Therese Neumann
(1898-1962)
Pensiamo alle esperienze di due donne come Gemma Galgani (1878-1903) e Therese Neumann (1898-1962). Il modello agiografico di Gemma è quello di una giovane vergine che si offre vittima di sacrificio e soffre terribilmente nella carne; un modello dal quale, nel processo di canonizzazione, scompaiono altri tratti – quelli di una donna che media tra la Chiesa, incarnata dal proprio confessore, e Dio – a favore di una santità costruita su un modello di genere: è il confessore stesso, il passionista Germano Ruoppolo di San Stanislao (1850-1909), ad assegnare a Gemma i tratti tipici della umile religiosità femminile tardo ottocentesca [19], che Gemma negozia e talvolta respinge, come apprendiamo dalle sue lettere (Posillico 2021, 70-1). Gemma è portatrice di una spiritualità cristologica forte, come emerge dalla sua autobiografia, nella quale afferma per esempio che l’angelo custode le avrebbe rivelato che gli unici gioielli appropriati per la sposa di un re crocifisso fossero la croce e le spine (Galgani 1958, 235, cit. in Mazzoni 2006, 32). Il desiderio di conformarsi a Cristo come uomo dei dolori e di condividerne le sofferenze fisiche la porta a meditare sulla Passione e, secondo gli agiografi, innesca il manifestarsi continuo di malattie, in particolar modo la tubercolosi, che la porterà alla morte. La malattia viene interpretata, sulla scia di Thérèse di Lisieux, come segno di elezione divina e via privilegiata di espiazione e santità (Caffiero 2000). Come anima espiante, che dà ragione e scopo alle proprie sofferenze naturali, Gemma afferma di sperimentare anche la compartecipazione alla Passione di Cristo, manifestando la stigmatizzazione.
Se Gemma vive senza scalpore la propria esperienza religiosa, Therese Neumann diventa invece un fenomeno religioso sensazionale nella Germania della seconda metà degli anni Venti, con una media di duemila visitatori a settimana, talvolta in un singolo giorno, dando vita a una vera e propria carriera spirituale, fatta di estasi, digiuni e stigmate sanguinanti, dipanatasi nell’arco di circa trentacinque anni (O’Sullivan 2018, 53). Le stigmatizzate operanti a cavallo tra Otto e Novecento sono d’altra parte state definite come celebrità religiose (Graus 2017), sebbene questa definizione non possa essere applicata a tutti i casi noti. Soprattutto, le stigmatizzate veicolano il messaggio dell’intervento divino nel mondo. Nel contesto della Repubblica di Weimar, caratterizzata dal declino delle pratiche religiose, la Neumann conduce la propria esperienza al di fuori della struttura formale di potere e autorità della Chiesa tedesca, creando il proprio circolo di devoti e sperimentando una forma di misticismo e religiosità che si avvale in maniera minore della mediazione ecclesiastica (O’Sullivan 2018, 55); che si riconosce, tuttavia, nel modello agiografico di Thérèse di Lisieux, arrivando a collocare la sua inspiegabile guarigione da un trauma alla colonna vertebrale nel giorno in cui si celebrava la canonizzazione della carmelitana francese (ivi, 60). Il Venerdì Santo del 1926, Therese manifesta per la prima volta le stigmate, che la accompagnano per tutto il corso della vita assieme ad una serie di visioni di natura cristologica e le ondate di pellegrini che bussano alla sua porta. Un’esperienza che richiama quella di una mistica italiana recente, Natuzza Evolo (1924-2009), considerata una santa viva e fatta oggetto di uno straordinario moto di devozione popolare.
Seppur con esperienze tra loro molto diverse, anche in termini di durata – Gemma muore giovanissima – Therese e Gemma ben rappresentano due declinazioni del fenomeno otto-novecentesco delle anime espianti. Sono, innanzitutto, donne che soffrono terribilmente nella carne e aderiscono al modello cristologico della Passione. Non si tratta di una semplice sequela Christi di natura morale o comportamentale, ma della sperimentazione nel proprio corpo delle piaghe di Cristo. Torniamo pertanto alla domanda cruciale che proponevo poc’anzi: in che modo e attraverso quali categorie va interpretata la sofferenza del corpo femminile stigmatizzato, che si adegua all’immagine del Cristo crocefisso?
Il corpo della stigmatizzata
La Miserentissimus Redemptor detta le linee guida per risolvere una questione delicata, nella quale il genere costituisce un elemento problematico nell’ottica delle gerarchie maschili della Chiesa. Questo non significa che gli stigmatizzati di genere maschile siano considerati in modo meno diffidente dall’autorità ecclesiastica, ma che l’insorgere frequente di casi di stigmatizzazione femminile ha innescato una serie di riflessioni urgenti legate al tema della sacramentalità e dell’amministrazione della sacramentalità eucaristica, poiché, di fatto, le donne ne sono escluse. Perlomeno a livello teorico, pertanto, sembra più semplice accettare la presenza delle piaghe di Cristo sul corpo maschile di un sacerdote, che di per sé si pone come alter Christus durante la consacrazione del pane e del vino nel rito della messa.
Il problema viene risolto con una certa perdita di individualità da parte di quelle donne che presentano le stigmate: il corpo della stigmatizzata, infatti, diventa parte integrante del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa [20]. In altre parole, la stigmatizzata non compie sacrificio eucaristico di per sé, ma offre i propri dolori al corpo di Cristo e ne è continuazione. Le stigmate superano la carne femminile, così come il sangue che da esse sgorga, che ha in certa misura valore redentivo e salvifico, non è sangue femminile: è una rinascita in Cristo (Osselaer 2021, 91; Dresen 1998, 86, 101). D’altra parte, la prudenza della Chiesa nell’approcciarsi alle stigmate femminili si ripropone con frequenza. Basti pensare al caso di Caterina da Siena (1347-1380): Pio II non menziona nemmeno le stigmate di Caterina – espressione di autorità carismatica – nella bolla di canonizzazione; nondimeno, si sviluppa un indebito culto popolare che troverà soddisfazione solamente nel 1727, dopo una serie di tentativi di proibizione del culto di Caterina come stigmatizzata (Van Osselaer 2021, 190).
L’evoluzione delle vicende di cui le stigmatizzate si rendono protagoniste, poi, diverge molto da caso a caso. In misura più o meno approfondita vengono generalmente aperte indagini ecclesiastiche, diocesane e inquisitoriali, ma anche investigazioni per possibili cause di canonizzazione. Gemma Galgani è stata elevata all’onore degli altari nel 1940. Per Therese Neumann tentativi di apertura di una causa sono ancora in corso. In altri casi, la tattica adottata dalle autorità ecclesiastiche è quella del silenzio, nell’attesa che il movimento devozionale si spenga, una volta accertata la non sussistenza dei fatti straordinari. Si tenga poi presente il fatto che nemmeno nel caso di Pio da Pietrelcina – accusato prima di simulazione, poi canonizzato, in una parabola che porta dal tribunale del Santo Ufficio all’onore degli altari che non è certamente un unicum – le stigmate hanno costituito un elemento particolarmente rilevante ai fini della canonizzazione, che in età tardo-moderna e contemporanea, sin da Benedetto XIV, sempre si basa sull’accertamento delle virtù eroiche o del martirio (Lambertini 1738; Giovannucci 2004 e 2018; Ponzo e Rai 2019).
Il Novecento, presumibilmente complici gli elementi di incertezza portati dalla guerra e dal passaggio definitivo ad una nuova era nella storia dell’umanità, ricca di nuovi stimoli su tutti i fronti, trabocca di stigmate, accertate o meno dall’autorità ecclesiastica. In Italia troviamo diversi casi di donne che manifestano il fenomeno della stigmatizzazione, da Gemma Galgani a inizio secolo fino a Natuzza Evolo, morta negli anni 2000, passando per Elena Aiello (1885-1961), Luisa Piccarreta (1865-1947) e altre. Prenderemo in esame ora due casi di studio: il primo, quello di suor Tomasina Pozzi (1910-1944), è poco noto; il secondo, quello di Margherita (1908-?), semplicemente sconosciuto [21].
«Il male del Paradiso». Tomasina Pozzi (1910-1944)
Tomasina Pozzi è stata una religiosa italiana della Sacra Famiglia di Mese, una congregazione fondata nel 1898 in Val Chiavenna, dedita alla cura di malati, anziani e bambini. L’esperienza mistica di Tomasina può essere ricostruita attraverso due fonti principali: l’agiografia scritta da Giovanni Libera (1944), indice della devozione nata attorno a Tomasina, tuttora nutrita all’interno dell’ordine, con velleità di canonizzazione; e il diario redatto da suor Maria Giacinta [22], che aveva avuto l’incarico di seguire e documentare l’esperienza mistica di Tomasina durante un suo soggiorno a Milano voluto dal pro-vicario generale dell’Arcidiocesi Melchiorre Cavezzali (1865-1944), che era anche responsabile delle comunità religiose femminili dell’Arcidiocesi, allo scopo non solo di monitorare una situazione che stava evidentemente sfuggendo di mano, ma di farlo attraverso uno degli uomini più presenti nelle investigazioni ecclesiastiche in materia di simulazione di santità di quegli anni: Agostino Gemelli (1878-1959), francescano, medico, psicologo, fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e tenace oppositore – per intenderci – di Padre Pio. Si aggiunga la valutazione del caso espressa da Gemelli in una lettera a Cavezzali. Ai fini di questo studio, che non guarda all’immagine costruita dagli agiografi bensì all’esperienza personale della donna e alle sue motivazioni, il diario (Piccole osservazioni sulla condotta di Suor Tomasina della Sacra Famiglia) costituisce la fonte chiave. Il documento copre il periodo tra il 18 febbraio e il 1 aprile 1939 – quaresima – con brevi aggiunte risalenti all’ottobre 1942.
L’esperienza testimoniata da Tomasina è simile a quella di altre donne all’incirca sue contemporanee che hanno sperimentato fenomeni ritenuti di natura mistica: le stigmate, ma anche apparizioni o visioni cristologiche o mariane. Si pensi per esempio all’esperienza di Maria Valtorta (1897-1961), modellata su quella della Lisieux, e per la quale è stato fatto un fallimentare tentativo di apertura di una causa di beatificazione. Tomasina, costretta a letto e seguita costantemente da Maria Giacinta, viene visitata per tre volte da Gemelli, che di lei dà un giudizio insolitamente magnanimo.
Da un lato il diario testimonia il precario stato di salute di Tomasina, che faticherebbe a reggersi in piedi, colpita da mancamenti durante i momenti di preghiera comunitaria. Colpisce il labile confine tra problema fisico ed evento mistico-soprannaturale, come si desume dall’uso interscambiabile dei termini “svenimento” e “estasi” per descrivere gli eventi, come accade il 19 febbraio 1939; “estasi” che appaiono legate al sacramento dell’Eucarestia quando avvengono dopo che Tomasina viene comunicata o in concomitanza con l’adorazione del Santissimo Sacramento, ad indicare una chiara e profonda connessione tra la donna e il Cristo della Passione. Con particolare enfasi vengono ripetutamente descritte le stigmate sulla fronte: ferite sanguinanti simili a punture di spilli – ed effettivamente si trattava proprio di quello – che rimandano alla coronazione di spine: era, scrive Maria Giacinta, «l’impronta precisa delle piaghe di nostro Signore in Croce» (23 febbraio 1939) [23].
È nel continuo dialogo con Gesù – in un’alternanza di atteggiamenti familiari e solenni –, talvolta sotto forma di ostia, che Tomasina rivela di essersi fatta anima espiante, scelta da Gesù stesso per la sua ignoranza; una dichiarazione che richiama i tratti tipici del veggente otto-novecentesco, sulla scia di Bernadette Soubirous (1844-1879) a Lourdes e di Lúcia dos Santos (1907-2005), Jacinta (1910-1920) e Francisco Marto (1908-1919) a Fatima. Va notata anche una certa incoerenza da parte di Tomasina, che in una pratica di auto-discernimento si interroga – e interroga Gesù – sulla possibilità che le stigmate che porta sul proprio corpo possano essere un’illusione demoniaca [24]; un interrogativo che si scontra con il fatto che dai dialoghi con Gesù comprendiamo che è Gesù stesso a confermare l’origina divina delle stigmate (3 marzo 1939).
Nelle pagine del diario ritroviamo molteplici riferimenti al dolore, al sacrificio e al sangue versato da Cristo e da Tomasina: le stigmate sono «il male del paradiso» (17 marzo 1939). La sofferenza ha valore salvifico, secondo quanto Gesù avrebbe comunicato: «Il dolore è molto salutare per l’anima che vive di fede, essa rientra in se stessa, esamina la sua coscienza, e la fa progredire mediante il mio aiuto nella via della perfezione» (12 marzo 1939). Non solo. Forse la più importante tra le rivelazioni attribuite a Cristo ci riporta al dibattito circa la possibile rivalutazione del corpo della stigmatizzata in senso sacramentale e sacerdotale (11 marzo 1939):
O Gesù secondo il mio attuale desiderio non invidierei più i Sacerdoti, perché come mi fai capire potrei anch’io essere un Sacerdote, offrirti anch’io la mia Messa unita a quella del tuo Sacerdote; dal mio letto posso benissimo offrirti i battiti del mio cuore, l’Ostia, e il Calice del tuo Sangue. Gesù, l’anima mia sia un’ostia vivente, che il mio sangue sia offerto a te fino l’ultima stilla. Che il mio letto diventi un altare mediante la tua grazia con la vita intima con te. Che nessuno, Gesù, disturbi il Tuo riposo in me.
Risulta difficile valutare lo spessore teologico di tale affermazione. Possiamo però cogliere il lato più umano. Tomasina parla infatti di invidia nei confronti dei sacerdoti – uomini – che avevano il monopolio della gestione del sacro e della sacramentalità. La stigmatizzazione diventa così un’alternativa alla celebrazione della messa come sacrificio eucaristico. Non solo: Tomasina afferma l’interscambiabilità del corpo e del sangue di Cristo con la propria carne e il proprio sangue, quando si auspica che la propria anima diventi un’ostia vivente e che il proprio sangue sia offerto a Dio sino all’ultima goccia. L’unione mistica – intima, dice Tomasina – con Cristo rende il letto della cella un altare dal quale celebrare il sacrificio eucaristico attraverso le sofferenze della carne (che, si ricordi, non è più carne di donna ma è carne rinata in Cristo), come Gesù sulla croce; la cella del convento assume le sembianze di un tabernacolo in un processo cristomimetico che va oltre la visione e compartecipazione della Passione e morte in croce (10 marzo 1939), ma diviene identificazione del corpo di Tomasina con quello di Cristo: un’identificazione che si fa concreta quando Tomasina, descrivendo la visione della crocifissione, racconta che gli angeli sarebbero discesi dal cielo per baciare tanto le piaghe sul corpo di Gesù quanto la ferita sul cuore della donna stessa.
Già presente in Thérèse di Lisieux, il desiderio di sacerdozio da parte di una anima espiante non era una novità. E sulla scia di Thérèse, Tomasina stabilisce una connessione tra la propria esperienza e il benessere delle anime dei sacerdoti per cui prega. Se Thérèse diviene dopo la sua canonizzazione patrona dei missionari, Tomasina offre le proprie sofferenze ai sacerdoti: «Il mio vivere, ed il mio morire sia tutto per le anime sacerdotali» (23 marzo 1939). I sacerdoti, comunica Tomasina a Cavezzali e ad un sacerdote che lo accompagna durante una visita a Mese nel 1942 – il quale scrive una relazione dalla quale attingiamo queste informazioni –, sono descritti da Gesù come «le pupille dei miei occhi» (Relazione dell’Assistente di Melchiorre Cavezzali 1942, 1) [25]: i sacerdoti che commettono peccati causano pertanto particolare sofferenza a Cristo.
Si ritrova inoltre nell’esperienza di Tomasina il tema della guerra – siamo negli anni della Seconda Guerra Mondiale – di cui la donna discuterebbe con Cristo stesso durante le sue apparizioni. Le stigmate si configurano come strumento espiatorio per i mali del conflitto. Leggiamo nella relazione sopracitata: «Il Signore mi ha fatto vedere i nostri soldati che combattono. Ho visto i nostri soldati volare al Cielo e Gesù mi dicce [sic]: “Questi sono i miei martiri”» (ivi, 4). Perché martiri? Si chiedono Cavezzali e compagno. «Perché credono, sono cristiani, hanno l’intenzione di essere nella fede. I soldati russi, che cosa terribile!» (ibid.).
Il riferimento alle truppe sovietiche e pertanto implicitamente al comunismo ateo non sorprende, così come il fatto che, pressata dalle domande circa la fine del conflitto (un leitmotiv anche nell’esperienza di Pio da Pietrelcina), Tomasina risponde vagamente e sminuisce la gravità della guerra: «Oh, un peccato è ben più grave cosa che tutte le guerre» (ibid.).
Il dolore e il sangue si configurano come protagonisti assoluti della vicenda di Tomasina. Sono le suore che la accudiscono ad estrarre in più occasioni i «ferri, che sono numerosi», dalla sua carne: aghi da cucito di lunghezza variabile, fino a dodici centimetri (ivi, 3). Un dolore, tuttavia, che Tomasina si autoinfligge. Suor Maria Giacinta, su indicazione di Cavezzali, aggiunge infatti in calce al diario, nel 1942, una nota nella quale afferma di aver cominciato a dubitare della soprannaturalità dei fenomeni osservati dopo aver trovato spilli insanguinati nascosti negli abiti di Tomasina. Una volta requisiti, i fenomeni di sanguinamento sarebbero immediatamente cessati. Afferma Maria Giacinta a conclusione del diario, nel 1942: «Non è in me costante la sicurezza e volendo riscrivere non avrei la stessa certezza di affermare cose viste».
Tomasina è stata un’anima espiante – poiché sincero era certamente il desiderio di soffrire con Cristo – che potremmo definire artificiale ma non affettata, per richiamare il linguaggio inquisitoriale che per secoli ha definito casi come quello della religiosa di Mese come esempi di simulata, o appunto affettata, santità. Tomasina si fa vittima artificialmente, inserendosi in una tendenza novecentesca che vede una ondata di anime espianti femminili che va di pari passo con la predominanza di donne in casi di studio di pazienti affette da dolori cronici o protagoniste di episodi di autolesionismo. Risulta ad oggi difficile comprendere al di là di ogni ragionevole dubbio sia le ragioni di tale sovrapposizione sia il moto psicologico ed emotivo che possa aver spinto molte donne cattoliche a performare atti autolesionistici in un conclamato processo cristomimetico che non può essere letto semplicisticamente come ricerca di attenzione. Tomasina sembra trovare una ragione di vita, una personale collocazione nella storia della salvezza. La religiosa si ferisce volontariamente per dare soddisfazione ad un desiderio di imitazione di Cristo che trova nella profusione di sangue e nel dolore la propria espressione. L’autolesionismo in questo caso va pertanto letto come risposta ad una spiritualità cristologica profonda, come risposta ai mali del mondo contemporaneo e come mezzo per trovare una propria collocazione nel mondo. Come, certamente, alternativa più o meno consapevole e anticipatamente pensata ad un sacerdozio femminile negato.
Il 22 marzo 1939, Agostino Gemelli indirizza una lettera a Cavezzali, nella quale espone le proprie conclusioni sulla religiosa.
È da escludersi in modo assoluto che le piaghe che la detta Suora presenta alle mani e al costato siano di origine soprannaturale. Suor Tomasina è una povera creatura sia fisiologicamente che psichiatricamente; è tubercolosa ma in non elevato grado; è di limitata intelligenza tanto da potersi ritenere di livello inferiore al normale; presenta caratteristica limitazione dell’ambito della coscienza tanto da far ritenere che si tratta di soggetto isteroide; essa presenta segni di facile suggestibilità ed emotività, così che riesce facile spiegarsi come, per una imprudente direzione spirituale [Gemelli si riferisce al parroco di Mese], ha sopra di essa esercitato una azione suggestiva l’idea della santità e delle manifestazioni esterne della santità […] vi è una azione non intelligente da parte di chi ha diretto spiritualmente questa povera creatura, frutto di questa falsa direzione è la costruzione della sua personalità pseudomistica. Le piaghe sono state senza dubbio procurate, il che però non deve essere attribuito come colpa alla Suora; questa non può essere ritenuta una simulatrice nel senso comune della parola […] (Agostino Gemelli a Melchiorre Cavezzali, 22 marzo 1939).
E ancora, facendo riferimento al ritrovamento di forbici insanguinate nella stanza di Tomasina: «Ripeto che alla Suor Tomasina non deve essere dell’uso de la forbice imputato a colpa quasi fosse una simulatrice. Concludo: la diagnosi è: fenomeni pseudomistici in soggetto deficiente» (ivi).
Una mano anonima annota a fianco del testo dattiloscritto che le forbici erano state utilizzate per tagliare le bende insanguinate e che, nonostante fossero state ritirate, la profusione di sangue non si era arrestata, a testimonianza di una visione alternativa. La stessa mano sembra voler rispondere alle critiche di Gemelli circa la scarsa intelligenza di Tomasina quando annota che la religiosa, interrogata su questioni dottrinali, aveva risposto come un teologo.
La questione della direzione spirituale, sollevata da Gemelli, è antica [26]. I processi inquisitoriali in materia di affettata santità di età moderna e tardo-moderna ci insegnano che il rapporto tra penitente e padre spirituale in casi di simulazione era fondamentale e spesso conosceva una sovversione di ruoli [27]: il confessore, che avrebbe dovuto dirigere la propria penitente, ne diventava figlio e la penitente si riconfigurava come madre spirituale. Il rapporto confessore-penitente è protagonista anche del secondo caso di studio di cui ci occuperemo e che bussa quasi alle porte del XXI secolo.
Margherita
Nella Milano di inizio anni Sessanta si consuma la vicenda di un’altra anima espiante: una laica, vedova e madre, sotto la direzione spirituale di un domenicano di Santa Maria delle Grazie, morto nel 2016, che chiameremo con lo pseudonimo di Padre Sella. Il dossier attraverso cui ho ricostruito le vicende di questa donna, che chiameremo Margherita per garantire la riservatezza necessaria data la vicinanza degli eventi, è conservato presso l’Archivio Storico Diocesano di Milano e include un memoriale composto da Padre Sella e indirizzato nell’aprile 1963 al canonico del Duomo di Milano Francesco Delpini. Il testo narra i pretesi fatti straordinari di cui si rende protagonista Margherita, i quali possono essere ricondotti a tre categorie principali: la comparsa di stigmate, i miracoli eucaristici e le apparizioni mariane. È sulle prime due categorie che concentrerò l’attenzione per la loro importanza nella costruzione del profilo cristologico di anima espiante di Margherita.
Nel 1962 Sella chiarisce la sua posizione: «Non vi sono pazzi da curare in questa faccenda» (Padre Sella a [presumibilmente] Francesco Delpini, 31 dicembre 1962, 2). Questo certamente il rischio maggiore in cui una donna come Margherita poteva incorrere: l’essere additata come pazza o come isterica. L’associazione tra donne simulatrici e isteria non era certo una novità. Dal tardo Ottocento, al concetto di isteria intesa come malattia legata all’utero si era sostituito quello di isteria psichiatrica.
La vita di Margherita è costellata da una serie di prodigi eucaristici che hanno origine, secondo quanto confidato a Sella, durante l’infanzia. Nell’agosto 1919, due notti prima di ricevere la Prima Comunione in provincia di Roma, Margherita ha un sogno, che ricorda le visioni di alcune mistiche otto-novecentesche, quale Natuzza Evolo. Margherita vede Gesù adolescente che porta una croce sulla spalla. È quello il momento in cui, secondo i suoi ricordi, inizia la sua parabola di sacrificio e dolore; un processo a cui si sottopone liberamente per aiutare Cristo a portare la croce.
Io avrei voluto andargli incontro, ma non osavo e poi mi sentivo come paralizzata, ed allora fu Gesù a parlare: Ricorda creatura – mi disse – che non esiste l’amore senza il dolore, perciò se mi vorrai amare dovrai pur tanto soffrire. Poi mi chiese: Avrai paura del dolore? – Io non riuscivo a rispondere, ma gli andai incontro e cercai di togliergli la croce, poi come ispirata dissi: Ti vorrò amare sempre, Gesù, anche se dovrò sempre soffrire (Memoriale di Padre Sella 1963, 6).
Due giorni dopo, il 15 agosto 1919, Margherita non si sente bene. Suda, ha mal di testa. Le pare di avere aghi conficcati nella fronte, ma di nuovo le appare Gesù, fanciullo, che porta la croce e al quale Margherita rinnova il proprio voto. Il primo prodigio eucaristico è proprio l’apparizione di una visione edulcorata del Cristo della Passione in concomitanza con la Prima Comunione di Margherita. Ma i prodigi eucaristici si faranno sempre più concreti e andranno di pari passo con il presentarsi di stigmate che compaiono o si acuiscono ogni anno durante la Settimana Santa.
Il dolore è al centro dell’esperienza mistica della donna e la stigmatizzazione completa ne costituisce l’apoteosi, con particolare enfasi sulla ferita del costato che, secondo la testimonianza di Sella, sanguina spesso e copiosamente.
Il domenicano ne tratta brevemente in un capitolo del memoriale che intitola significativamente «La prediletta di Gesù – La vittima di amore», limitandosi ad accertare la sussistenza dei fatti, ovvero la presenza fisica delle ferite. «Resta vero e provato però, che Margherita “realmente” soffre e soffre in unione con Gesù per la salvezza delle anime. […] Suo scopo è salvare tante anime, strapparle dalle mani di Satana. Suo ultimo desiderio morire sulla croce con Gesù. Essa è una vera vittima» (ivi, 13).
Se le stigmate non vengono indagate particolarmente, ma attentamente documentate con un reportage fotografico, i miracoli eucaristici propriamente detti ricevono maggiore attenzione. Di che cosa si tratta? Sella descrive la comparsa improvvisa e inspiegabile di un’ostia, talvolta macchiata di sangue, nella bocca di Margherita al momento di essere comunicata, durante la messa, oppure al suo confessionale, o ancora in altri luoghi e persino a letto. Scrive proprio Margherita in una lettera datata 7 aprile 1957, riportata da Sella nel memoriale:
Ecco l’elevazione: da un fascio di luce il mio Padre leva in alto l’Ostia Santa che brilla come neve al sole, ma poco a poco non distinguo più bene né l’altare né il celebrante, nulla. Ho gli occhi che bruciano e cerco di scostarmi pensando che ho il sole in pieno viso, ma no, una gioia grande penetra in me e la distinguo bene, è quella che solo Gesù con la presenza reale sa portare in me. Non sogno; no, la piccola Ostia LA SENTO [sic] sulla lingua e faccio fatica a rimanere immobile per farcela rimanere il più a lungo possibile (ivi, 19).
I fatti narrati talvolta non hanno testimoni, talvolta testimoni diretti sono lo stesso Sella o alcune donne, descritte come timorate di Dio, che assistono in vario modo Margherita. I casi in cui i testimoni sono donne, scrive Sella, potrebbero creare problemi per la poca attendibilità del genere femminile. E sarebbe proprio per questo motivo – universalmente riconosciuto? – che Dio, il 24 marzo 1963, avrebbe operato un miracolo eucaristico in Margherita alla presenza di un uomo, di professione medico (ivi, 37). L’ostia apparsa sulla lingua di Margherita avrebbe in questo caso presentato delle macchie di sangue. L’ostia era intatta, non sciolta dalla saliva, a dimostrazione del fatto che non si trovava nella bocca della donna da molto tempo. Le mani di Margherita non erano state perse di vista nemmeno per un momento. La donna era stata messa alla prova. Si prevedeva - non sono chiare le dinamiche - un miracolo eucaristico e Sella, ansioso di dimostrare inconfutabilmente che non potesse esservi stato alcun inganno, aveva fatto in modo che Margherita fosse controllata a vista da testimoni attendibili.
Il profilo che di Margherita emerge dalla narrazione degli eventi prodigiosi, esposta in un vano tentativo di imparzialità che però trasuda la devozione di Sella nei confronti della sua penitente, è quello di una sorta di tabernacolo vivente, cosa che ci porta nuovamente a riflettere sul ruolo sacramentale e sacerdotale delle anime espianti. La comparsa dell’ostia insanguinata nella bocca di Margherita è sintomo di una consacrazione misteriosa che avviene nel corpo stesso della donna: il sacrificio eucaristico, il fenomeno stesso della transustanziazione è evidente dalla presenza del sangue sulla particola, che è pane eucaristico consacrato e transustanziato, reale corpo di Cristo che sanguina. Ci troviamo di fronte alla costruzione dell’immagine di una donna che non solo porta nella propria carne i segni visibili della Passione e della morte di Cristo, ma che per volontà divina assume le prerogative sacerdotali maschili della consacrazione del pane eucaristico che, proprio in virtù delle parole di consacrazione del sacerdote il quale ripropone le parole di Gesù durante l’Ultima Cena, cambia l’intera sostanza di cui è costituito e diviene corpo di Cristo. Né, secondo la narrazione di Sella, il cambiamento della sostanza della particola può essere imputata alle parole di consacrazione del celebrante durante la messa, in quanto i ripetuti prodigi eucaristici avvengono anche al di fuori della liturgia.
Nel 1962, Sella dà conto della particolare elezione di Margherita in una lettera al pontefice Giovanni XXIII, nella quale il domenicano identifica la sua penitente come una
vittima di amore […] incompresa, umiliata, calunniata, tormentata dal demonio su cui ha prevalso […] eroica creatura […] ha accettato ogni giorno, nel silenzio, inaudite sofferenze per la salvezza delle anime (Padre Sella a Giovanni XXIII, 18 ottobre 1962).
L’inchiesta diocesana viene affidata a Francesco Delpini, che esprime le proprie conclusioni in una relazione datata 22 maggio 1963. Tre sono gli elementi salienti nel giudizio di Delpini: primo, la direzione spirituale. Margherita è stata oggetto di una sconveniente direzione da parte di un religioso – Sella – non solo ingenuo e facilmente suggestionabile, ma anche imprudente nella sua assidua frequentazione della casa della donna. Sella viene allontanato da Milano (destinazione Modena) e separato così dalla sua penitente:
Sarà opportuno che né P. Sella né altri Padri o Sacerdoti tengano relazione personale od epistolare o telefonica con Margherita, da trattarsi come tutti gli altri fedeli e con precauzione (Relazione di Francesco Delpini, 22 maggio 1963, 2).
Secondo, la non sussistenza dei fatti. Delpini attribuisce quanto narrato da Sella ad autosuggestione, forse frutto «di imbroglio isterico». Il canonico del Duomo non è cioè certo se Margherita si sia autoconvinta di essere un’anima eletta, se sia vittima di un problema psichiatrico o se, invece, sia una simulatrice – l’affettazione forse causata dall’isteria. L’uso di termini quali «imbroglio» e «montatura» fanno ragionevolmente pensare che Delpini dubitasse della buona fede di Margherita, nonostante i tentativi di Sella di garantire per lei affermando che si trattasse di «[...] una trama che difficilmente una donna – per quanto abile – può architettare» (Memoriale di Padre Sella 1963, 16).
Terzo, il silenzio: Margherita viene lasciata sola, priva della propria guida spirituale, e la sua vicenda posta sotto silenzio. L’indifferenza avrebbe aiutato ad un ritorno alla normalità (Delpini 1963, 2). Non è però dato sapere se Margherita sia effettivamente tornata alla normalità: d’altra parte, cos’è la normalità per una donna che afferma di aver vissuto esperienze mistiche per tutto il corso della propria vita? Una donna che, indipendentemente dall’origine delle proprie piaghe, soffriva e sanguinava in un processo cristomimetico di cui si nutriva ogni giorno e che era divenuto fulcro della sua intera esistenza? Fatta cadere nell’oblio – questo l’unico dato certo – che ne è stato di Margherita?
È infine il cardinal Alfredo Ottaviani (1890-1979), allora segretario (dal 1965 prefetto, dal febbraio 1966 pro-prefetto) del Santo Ufficio, a comunicare all’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, che di lì a poco sarebbe salito al soglio pontificio con il nome di Paolo VI, che il Santo Ufficio, esaminato il memoriale di Sella, «è giunto alla conclusione che i pretesi “fatti straordinari” presentati dal Padre Sella non meritano assolutamente di essere presi in seria considerazione (Alfredo Ottaviani a Giovanni Battista Montini, 17 maggio 1963). E ancora:
Questa Suprema Congregazione […] prega l’Eminenza Vostra di voler ancora vigilare con paterna fermezza gli pseudo-veggenti […] veda l’Eminenza Vostra se sia possibile indurre Margherita ad accettare, come Direttore Spirituale, un Sacerdote […] poco proclive alle deleterie suggestioni pseudomistiche (ibid.) [28].
Nel giugno 1963, solo una manciata di giorni prima della sua elezione, Montini risponde ad Ottaviani: «Prendo nota con soddisfazione che i pretesi fatti straordinari in questione sono stati autorevolmente dichiarati privi di serio fondamento» (Giovanni Battista Montini ad Alfredo Ottaviani, 11 giugno 1963).
Poche righe, scambiate tra il Santo Ufficio e Montini, centro e periferia, che dipingono il quadro di una Chiesa che, nel cuore degli anni Sessanta, guardava alle esperienze mistiche o pseudomistiche come ad un problema da tenere sotto controllo. D’altra parte, senza nemmeno uscire dai confini della Penisola Italiana, il Novecento si configura come un secolo ricco di vicende come quelle di Tomasina e Margherita, sintomo di un’ansia religiosa, soteriologica e sociale profonda che attraversava il mondo cattolico del Concilio.
Conclusioni
Le vicende di Tomasina e Margherita, pur tra loro diverse e consumatesi in momenti storici differenti, presentano tratti in comune con le esperienze di altre donne che, in età moderna o alle soglie della contemporaneità, hanno manifestato doni soprannaturali di natura cristologica, quali Marguerite-Marie Alacoque, Thérèse di Lisieux o Gemma Galgani; o di donne che avrebbero sperimentato fenomeni simili nel corso del Novecento, come Therese Neumann o Natuzza Evolo. Ritroviamo contenuti e dinamiche simili, pur in contesti e modalità differenti dovuti alle contingenze dei tempi: il ruolo del dolore e del sangue, che significano connessione profonda e carnale con la Passione; l’idea che, in tale modalità, la sofferenza umana sia espiatoria, medicina per i peccati e il male imperversanti; il ruolo del corpo, anche e soprattutto femminile; il legame delle anime espianti con i padri spirituali; le indagini ecclesiastiche atte ad accertare eventuali frodi piuttosto che la devozione della comunità religiosa di appartenenza; le apparizioni di Cristo e di Maria, corredate da straordinarie rivelazioni.
Nel caso di Tomasina, forse più gestibile nelle indagini poiché incardinata in un ordine religioso, emerge con chiarezza la sempre maggior importanza della medicina nelle investigazioni ecclesiastiche [29]; un processo nato in età moderna e sviluppatosi appieno nel tardo Ottocento, con la nascita della psichiatria, la trasformazione del concetto di isteria da disturbo dell’utero a malattia mentale, e l’uso fondamentale di analisi scientifiche nelle indagini per l’accertamento del miracolo nelle cause di canonizzazione e della soprannaturalità (o della artificialità) di fenomeni quali le stigmate in casi di supposto misticismo. La figura di Agostino Gemelli è emblematica e assurge a simbolo di questo modus operandi della Chiesa.
Nel sanguinamento della ferita del costato di Margherita ritroviamo la tensione emotiva del culto del Sacro Cuore trafitto dalle spine, che rimanda ai peccati del genere umano, così come si era sviluppato a partire dalle apparizioni alla Alacoque all’incirca tre secoli prima, conoscendo un importante rinnovamento nell’Ottocento. La vicenda di questa laica dimenticata ci parla anche del delicato rapporto tra penitente e confessore. Mai, anche in età contemporanea, viene meno un’approfondita indagine circa la direzione spirituale ricevuta, a riprova di un’attenzione mai sopita verso quel rapporto tra padre e figlia spirituale che ritroviamo al centro di secoli di processi inquisitoriali per affettata santità.
L’ipotesi che le manifestazioni mistiche di donne come Tomasina e Margherita siano di natura psichiatrica è frequente. L’idea che esse siano simulatrici è forse proposta meno assiduamente rispetto all’età moderna, complice a mio avviso lo sviluppo della psichiatria e della psicanalisi come bacini da cui attingere risposte.
Tuttavia, le vicende di Tomasina Pozzi e Margherita lasciano anche aperte una serie di domande che trascendono la storia religiosa: vi è, a mio avviso, un problema sociale e una questione di genere che vanno indagate per una comprensione più profonda del fenomeno delle anime espianti. Ci troviamo dinnanzi a donne che vivono esperienze di profondo dolore, in contesti molto diversi. Poco importa in questo senso che si tratti di dolore autoinflitto in piena coscienza o meno. Sono invece le ragioni alla base della scelta di sottoporsi alla sofferenza, o i meccanismi attraverso cui la sofferenza viene spiegata, o ancora la comprensione della sofferenza come elemento soteriologico da replicare sulla propria carne a imitazione di Cristo, a rendere le anime espianti protagoniste di un contesto socio-religioso novecentesco ancora in gran parte da scoprire. Che cosa resta di queste donne, una volta che le indagini ecclesiastiche sono concluse, i confessori allontanati (secondo una prassi comune) e il ritorno alla cosiddetta normalità imposto?
Si è aperto questo saggio con due uomini, Francesco d’Assisi e Pio da Pietrelcina, ma si è poi parlato solamente di donne, poiché il panorama del misticismo cristologico delle stigmate è prettamente femminile. Si potrebbero avanzare diverse ipotesi circa le ragioni di questa dimensione di genere. L’Ottocento è stato definito come un secolo di femminilizzazione del culto, con lo sviluppo di devozioni emozionali tipicamente associate al mondo domestico, in primis quelle ai Sacri Cuori [30]. La spinta di Benedetto XV, nei primi anni del Novecento, al culto del Sacro Cuore nelle famiglie ha senz’altro contribuito a sensibilizzare devoti e devote alla drammatica immagine dei dolori di Cristo e della gravità del peccato. Tradizionalmente le donne sono state usate come veicolo di disciplinamento familiare attraverso la direzione spirituale e possiamo pertanto ragionevolmente supporre che i padri confessori abbiano incentivato la diffusione del culto del Sacro Cuore e di questa sensibilità cristologica.
Inoltre, l’esperienza delle stigmate può a mio parere essere associata al tentativo di parte del mondo femminile cattolico di assumere prerogative maschili – cristologiche e sacerdotali – che gli erano precluse; non attraverso una lotta concreta ed esplicita per il sacerdozio femminile ma, in modo più intimo e personale, attraverso la compartecipazione ai dolori della Croce e l’autoidentificazione con Cristo. Tra le mura di un monastero o di un convento, questa prassi aveva il pregio di fornire alle religiose maggiori responsabilità (e, spesso, visibilità). L’auto-espiazione, poi, poteva essere praticata anche da coloro le quali, in contesti bellici, attendevano inermi il ritorno a casa degli uomini; si configurava cioè, secondo quanto propugnato anche nel contesto del victim movement, come un’arma potentissima contro il male della guerra e i peccati degli uomini.
Ciò che, in ultima analisi, dovremmo chiederci è: che cosa ne è stato di queste donne, al termine delle indagini? Alcune, come Luisa Piccarreta o Natuzza Evolo, non hanno mai abbandonato la propria attività di mistiche, complice forse la straordinaria devozione popolare. Altre, come Tomasina, hanno vissuto una breve parabola di fama all’interno delle mura del proprio convento. Altre ancora, come Margherita, sono cadute nell’oblio. Sono proprio casi come quest’ultimo a stimolare una riflessione di natura sociale circa le sorti di chi si era ritrovata improvvisamente sola a gestire una situazione che, dopo molti anni, era evidentemente sfuggita di mano. Nulla si sa di cosa sia stato di Margherita, delle difficoltà concrete ed emotive che certamente si è trovata ad affrontare dopo l’allontanamento di Sella, dell’isolamento sociale di cui una simile figura, priva di protezione, sia presumibilmente divenuta vittima. Possiamo solo ipotizzare che cosa sia stata la vita per Margherita – colei che presentava le stigmate, colei che veniva comunicata prodigiosamente, colei che riceveva apparizioni mariane su base giornaliera – dal maggio 1963, fermo restando che mai le fonti fanno riferimento alla necessità di verificare le condizioni di salute della donna.
Certamente, la straordinaria diffusione otto-novecentesca della pratica femminile dell’espiazione dell’anima, lascia presagire la necessità di ampliare lo studio di questo fenomeno attraverso non solo il filtro del genere, ma anche nell’ottica della storia sociale di quegli ambienti cattolici nei quali il dolore assurgeva ad elemento chiave per interpretare la vita sulla terra in prospettiva soteriologica. Si pensi al fiorire otto-novecentesco di santuari mariani quali quelli di Lourdes e Fatima, che hanno fatto del dolore – della ricerca del miracolo come soluzione, ma anche della comprensione del dolore stesso – il proprio centro gravitazionale. Il dolore è un elemento portante della storia del Cristianesimo, così come più in generale della storia dell’uomo (Bourke 2014).
Teologicamente, la vita umana non raggiunge la sua potenziale pienezza senza la Passione (Ratzinger 1988, 101). È infine anche nella prospettiva della comprensione del dolore in senso cristologico, come biglietto di ingresso ad una sfera sacramentale e sacerdotale tipicamente maschile, che le stigmatizzate di età contemporanea vanno guardate. Un dolore esposto che, tuttavia, condanna queste donne ad essere a maggior ragione sospettate, diffidate, isolate ed escluse dalla gestione del sacro, non di loro competenza, anche qualora questo sembri concretizzarsi nelle ferite dei loro corpi. Restano la difficoltà di identificare nella carne di una donna l’immagine di Cristo e l’incertezza nel ripensare i ruoli di genere nella gestione del sacro.
Fonti
Fonti d’archivio
- Archivio Storico Diocesano di Milano (ASDM), Carte riservate del Vicario generale, Tomasina Pozzi, in particolare:
- Agostino Gemelli a Melchiorre Cavezzali, 22 marzo 1939.
- Piccole osservazioni sulla condotta di Suor Tomasina della Sacra Famiglia, tenuta in Casa delle Piccole Serve del Sacro Cuore in Milano Via Zenale 8 (Diario), 1939-42.
- Relazione dell’Assistente di Melchiorre Cavezzali, 1942.
- Archivio Storico Diocesano di Milano (ASDM), Carte riservate del Vicario generale, Margherita, in particolare:
- Padre Sella a Giovanni XXIII, 18 ottobre 1962.
- Padre Sella a (presumibilmente) Francesco Delpini, 31 dicembre 1962.
- Memoriale di Padre Sella, 1963.
- Relazione di Francesco Delpini, 22 maggio 1963.
- Alfredo Ottaviani a Giovanni Battista Montini, 17 maggio 1963.
- Giovanni Battista Montini ad Alfredo Ottaviani, 11 giugno 1963.
Documenti papali
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- Pio XII, Mystici corporis Christi, 1943.
- Paolo VI, Lumen Gentium, 1964.
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Note
1. Su Padre Pio, Luzzatto 2007; su Francesco d’Assisi, Merlo 2003.
2. Sul ruolo dei mass-media nella creazione e pubblicizzazione di profili di santità, Palmieri 2014.
3. Sugli stigmatizzati in età contemporanea, innanzitutto Van Osselaer 2021.
4. Sulla figura del servo sofferente e le interpretazioni di Is 53 nella tradizione cristiana, ad esempio, Bock e Glaser 2012.
5. Su queste tematiche, Decock 2019.
6. Sulla Alacoque, ad esempio, O’Brien 2017.
7. Sul tema del cuore e le sue rappresentazioni storiche e letterarie nell’Europa medievale e moderna, Barklay e Reddan 2019.
8. Sulla devozione al Sacro Cuore in chiave politica, religiosa e culturale è stato scritto molto. Ad esempio, Rosa 1999, Jonas 2000 e Menozzi 2001.
9. Sulla spiritualità della Lisieux, Langlois 2016.
10. Thérèse di Lisieux è stata autrice di diversi scritti, anche autobiografici. Ad esempio, l’edizione ebook dell’autobiografia (2005).
11. Benché in letteratura si ritrovi spesso l’espressione “anime vittime” o “victim souls”, propendo personalmente per l’uso di “anime espianti”: un termine che rende molto bene l’idea della continuità nel tempo degli atti espiatori, che spesso accompagnavano per tutta la vita chi si dedicava a tale pratica.
12. Paula Kane ha contribuito molto allo studio del fenomeno della stigmatizzazione tra Otto e Novecento, con particolare attenzione alla sua declinazione di genere (Kane 2013 e 2014). Su misticismo e genere, anche Jantzen 1995.
13. Il Sillabo appare come appendice all’enciclica Quanta Cura (8 dicembre 1864). Si presenta come la condanna di un elenco di ottanta proposizioni che rappresentano i principali “errori” del tempo, tra i quali, per esempio, razionalismo, panteismo, socialismo e liberalismo.
14. Kane cita Giloteaux 1927/1922, ix.
15. Sulla possibile connessione tra il victim priest e il masochismo maschile in età contemporanea, Stewart-Steinberg 2018.
16. Si ricordi l’opera di promozione della spiritualità delle vittime del benedettino prussiano Joseph Kreuter che, tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento, dal proprio monastero in Minnesota, dedica mensilmente al tema una colonna sulla rivista Sponsa Regis (Kane 2002, 92).
17. Per una storia delle stigmate nella longue durée, Klaniczay 2013.
18. Sul tema, Pasture e Beuman 2012.
19. Numerosi studi si sono concentrati sulla cosiddetta femminilizzazione del cattolicesimo ottocentesco. Ad esempio, Schneider 2012.
20. Pio XII diffonde più ampiamente il concetto di Chiesa come corpo mistico di Cristo con l’enciclica Mystici corporis Christi (1943). Con la costituzione dogmatica Lumen Gentium (1964), Paolo VI sancisce l’universalità del corpo mistico come Chiesa di cui fanno potenzialmente parte tutti gli uomini.
21. Ringrazio l’Archivio Storico Diocesano di Milano, in particolare Bruno Bosatra e Fabrizio Pagani, per l’importante supporto che mi hanno offerto nel corso degli anni, sin da quando ho mosso i primi passi nel mondo della ricerca storica. Un ringraziamento particolare per la gentile concessione di pubblicare alcune delle immagini che contribuiscono a ricostruire, anche visivamente, i casi di Tomasina Pozzi e Margherita.
22. Non sempre è possibile risalire ai dati biografici delle figure coinvolte nella vicenda di Tomasina e Margherita. Qualora manchino dettagli, lo si deve all’impossibilità di rinvenire informazioni certe.
23. I contenuti del diario verranno indicati nel corpo del testo di questo saggio con l’indicazione della data riportata nel diario stesso.
24. La lotta con il diavolo rientra spesso nei racconti degli stigmatizzati, Padre Pio incluso. Il 20 marzo 1939, Tomasina racconta di aver visto un uomo vestito di nero dall’aspetto rabbioso nella propria stanza. Secondo la suora l’uomo – figura demoniaca che però potrebbe ricordare anche un uomo in abiti religiosi – vorrebbe distruggere il diario. Tomasina racconta che il diavolo le apparirebbe talvolta come uomo, talvolta come bestia, secondo un topos consolidato
25. Le citazioni sono tratte da una relazione anonima, datata 13 ottobre 1942. Sappiamo che l’autore è un sacerdote che assiste Melchiorre Cavezzali durante la visita a suor Tomasina a Mese (9 ottobre 1942). È senz’altro propenso a credere alla soprannaturalità dei fenomeni sperimentati dalla suora. Conclude infatti la relazione scrivendo: «Si lascia la casa con nostalgia, con il senso del soprannaturale» (Relazione dell’Assistente di Melchiorre Cavezzali 1942, 16).
26. Sul tema del foro interno e della sollicitatio ad turpia, ovvero l’adescamento in confessionale, ad esempio Sarrión Mora 1994, Haliczer 1995, Prosperi 1996, Brambilla 2006 e Mancino e Romeo 2013.
27. Su santità e simulazione di santità si veda, ad esempio, Zarri 1991.
28. Non è dato sapere se effettivamente Margherita sia stata seguita da un nuovo padre spirituale.
29. Su santità e medicina si segnalano gli studi di Giorgio Cosmacini, ad esempio Cosmacini 2016.
30. Si tenga però presente che alcuni culti associati alla sfera emotiva, come quello al Sacro Cuore di Gesù, vanno anche letti in una dimensione propriamente politica. Il culto del Sacro Cuore è legato alle riflessioni sulla sovranità di Cristo tanto sul piano simbolico quanto su quello politico, con una connotazione post-rivoluzionaria e reazionaria. Si connette, da Pio IX in poi, alla regalità sociale di Cristo e della sua Chiesa sul mondo. Menozzi 2001 – tr .