Riccardo Rao è autore di numerosi contributi su risorse collettive e governo del territorio che segnano un percorso progressivo verso questa articolata monografia regionale. La definizione del campo d’indagine si basa su una lettura della storiografia comunale relativa all’area piemontese in cui emerge il ruolo di snodo della scuola medievistica torinese, nata grazie al magistero di Giovanni Tabacco, che ha promosso una rinnovata sensibilità su temi istituzionali e sociali che emerge negli studi dei suoi allievi Renato Bordone ed Enrico Artifoni.
L’a. attribuisce un contributo decisivo in merito alla riflessione sui comunia al volume di Tabacco, I liberi del re (1966), dove si separavano per la prima volta i concetti di arimannia e beni collettivi, operando in tal modo una revisione profonda dei modelli che avevano guidato i lavori di Gian Piero Bognetti sull’origine dei comuni rurali (1926), di Paul Schaefer sulla Svizzera ticinese nel Medioevo (1931) e di Giovanni Cassandro sulle terre comuni nell’Italia meridionale (1943), oltre a quelli degli storici del diritto quali Enrico Besta e Pier Silverio Leicht. In anni più recenti, la costante attenzione che i giuristi (Paolo Grossi, Ugo Petronio ed Emanuele Conte) hanno dedicato al tema e l’accelerazione del dibattito nell’ambito della storia sociale e istituzionale, a partire dalla premessa di Jean-Claude Maire Vigueur a I beni comuni nell’Italia comunale: fonti e studi (1987), non sembrano aver rafforzato il dialogo tra i due campi disciplinari: proprio il superamento della ridotta permeabilità tra indirizzi di ricerca diversi è uno degli obiettivi che il volume si propone.
Constatata la continuità di pratiche di sfruttamento comunitario di terre dai secoli X e XI e di attestazioni di beni comuni tra XII e XV, l’indagine si concentra sulle terre collettive e su quelle che entrarono a far parte dei patrimoni municipali. L’a. sviluppa il concetto di “risorse collettive” considerando, oltre alle terre, anche strade, mulini, castelli e fiscalità e ne valuta l’incidenza sulla politica di città e borghi piemontesi ai quali sono dedicati approfonditi quadri monografici. L’a. propone di considerare i beni comuni come uno degli indicatori, accanto a fiscalità, scritture e giustizia, per analizzare la politica comunale e i cambiamenti istituzionali.
Ampio spazio è dedicato alle modalità di recupero dei comunia – e in alcuni casi all’acquisizione di terreni in precedenza non oggetto di uso collettivo – da parte dei comuni cittadini e dei borghi nel corso del XII secolo, operazioni che determinano la trasformazione dei beni collettivi in beni comunali. Le forme di gestione – inchieste, scritture e magistrature – rivelano una crescente tendenza alla registrazione, segno del controllo dell’autorità pubblica e sono analizzate dall’a. per cercare linee interpretative che avvicinino le diverse situazioni locali: emergono così analogie presenti già nella fase genetica della formazione dei patrimoni municipali e destinate poi a consolidarsi nel corso del secolo XIII, grazie anche alla circolazione del medesimo personale politico nei diversi centri e alla conseguente condivisione di modelli di governo, un processo che caratterizza anche le pratiche amministrative degli ufficiali imperiali nell’area.
L’a. valorizza infine la centralità del ruolo delle società popolari che contendono ai milites il controllo dei beni comuni e ne centralizzano la gestione sottraendola alle circoscrizioni territoriali, porte e vicinie, cui in precedenza spettava. L’affermarsi dei regimi di popolo segna un rapporto ambiguo con le proprietà collettive: a una più articolata relazione tra finanze comunali, fiscalità, efficacia amministrativa e tutela degli incolti, si accompagnano significative campagne di alienazioni che impoveriscono il patrimonio comune.