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Lucy Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe

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Impostato su un orizzonte internazionale che tiene conto delle relazioni diplomatiche come delle “amicizie politiche” sviluppatesi in sedi extra-istituzionali, il lavoro di Riall affronta la genesi e le evoluzioni del primo eroe politico italiano. Discorsi, autorappresentazioni, manipolazioni e censure sono gli ingredienti di una costruzione che coinvolse in prima istanza proprio il Nizzardo e che acquista maggior emblematicità in quanto riguarda un soggetto distante dai luoghi del potere. Garibaldi non fu capo politico, né ebbe una collocazione indiscussa come capo militare: tuttavia, per una vasta opinione pubblica fu l’Eroe dei Due Mondi, il Generale dei volontari, e persino l’uomo forte da cui attendere la rinascita politica e morale della nazione.

Riall colloca la genesi di questa costruzione nella confluenza di cultura giacobina e “religione” mazziniana, ma anche nella tempestiva promozione che dell’eroe dell’America latina operò Mazzini presso i media britannici. Da lì, parte una vicenda di appropriazioni, ibridazioni e camaleontiche trasformazioni, coerenti col mutevole contesto politico-diplomatico. Il caudillo e il gaucho cari all’immaginario romantico fanno bella mostra di sé nel Lungo Quarantotto, ma poi l’eccentricità – che presso gli oppositori lo declassava a “bandito” – si dissolve in un miglior dosaggio di elementi popolari e borghesi. Il declino del Partito d’Azione suggerì una ri-costruzione di sé più rassicurante, nel solco dell’alleanza democrazia-monarchia sanzionata dalla Società Nazionale. Nel 1859 Garibaldi era sì comandante di volontari, ma con la divisa di ufficiale dell’esercito regio. All’autodisciplinamento non faceva però eco un discorso pubblico che investiva ancora sulla declinazione sudamericana/popolaresca: il marinaio, il gaucho, il popolano dall’esorbitante generosità, il geniale stratega…  Del resto, Garibaldi stesso aveva preparato differenti versioni della sua autobiografia, senza lesinare esagerazioni e autocensure.

Con la spedizione dei Mille la risonanza mediatica fu ancor più massiccia, contribuendo a enfatizzare l’immagine del Generale come alternativa allo Stato moderato che si stava costruendo. La divisa regia lasciò il posto alla camicia rossa; la funzione ausiliaria alla Dittatura dall’ampio programma riformista. Da notare, come sottolinea Riall, che l’apogeo della mitizzazione non procedeva di pari passo con le prestazioni militari che, al contrario, decrebbero in qualità e quantità. Fu piuttosto il risultato dell’impegno profuso dal protagonista nel trattare con i giornalisti, nel preparare proclami, nel gestire i rapporti col clero e col notabilato e – complice Dumas – nell’occultare l’endemica illegalità che scandiva la marcia delle sue truppe. In breve, dopo il 1860, Garibaldi era non solo il Generale della “Nazione Armata”, ma anche il Santo, il nuovo Redentore, e – ripristinata la collaborazione con Mazzini - l’Apostolo di un’Italia dei giovani e delle plebi. Il trattamento ingeneroso riservato ai suoi volontari nel passaggio all’esercito nazionale (sul tema si veda Eva Cecchinato: Camicie rosse, Roma-Bari, Laterza, 2007) doveva accentuare la faccia eversiva di questa immagine complessa. Fu la stagione di Sarnico, Aspromonte, Mentana… Ancora una volta, Garibaldi lavorò sul proprio stile e sulla propria immagine, ergendosi a leader di una internazionale giovanile radicale, che avrebbe avuto sia una pacifica versione parlamentare sia una indomita vocazione al volontariato armato.

Un Garibaldi ripetutamente re-inventato si prestava – in vita e dopo la morte – a una quantità di usi disparati: dalla religione civile di età crispina alle iperboli anti-sistema del Partito Repubblicano; dall’agenda riformista del radicalismo cavallottiano alla fagocitazione dannunziana del 1914. Nato come eroe militare, Garibaldi ebbe una fortuna postuma soprattutto in un campo politico che cercava nuova legittimazione in vista della democratizzazione e del riposizionamento nell’ordine internazionale. Riall ha ricostruito questo percorso tramite un’ampia ricognizione nella stampa americana, inglese e francese, nella letteratura romanzesca e nella messe di biografie che invase i mercati europei e americani fin dal 1850. Il lavoro si inserisce in un già fecondo cantiere di ricerca internazionale sulla costruzione degli eroi politici (è ricordato anche il lavoro di Kershaw sul mito di Hitler), che fa tesoro sia delle “classiche” riflessioni di Weber sia dell’antropologia simbolica di Geertz.