Anthony Kaldellis, “The Byzantine Republic. People and Power in New Rome”, Cambridge MA, Harvard University Press, 2015, 290 pp.
Non è facile presentare brevemente un volume che si propone sulla scena degli studi in maniera potenzialmente tanto dirompente come The Byzantine Republic di Anthony Kaldellis: l’autore intende infatti ridiscutere non solo la forma di governo dell’Impero Romano d’Oriente, ma anche la sua società e, in un certo senso, la sua essenza.
Prima ancora di chiedersi come Bisanzio possa essere stata concretamente retta da un ordinamento repubblicano, occorre domandarsi che significato l’autore dia al termine «republic» e in questo modo affrontare una delle prime problematicità di questo studio. In un percorso logico che parte dalla definizione di “ideologia” come un insieme di valori condivisi tra governanti e sudditi riguardo agli aspetti normativi di un determinato sistema politico (p. 2), Kaldellis suggerisce che l’ideologia della Roma repubblicana sia sopravvissuta e abbia prosperato, in una linea di continuità ininterrotta, nella πολιτεία Bizantina. Essa si presenterebbe dunque come una comunità fondata su valori condivisi e governata da un regime che – nel rispetto della tradizione romana – trovava la sua legittimazione nell’attenzione costante al benessere dei cittadini (p. 13): stanti queste premesse, la πολιτεία bizantina non sarebbe che una traduzione del latino res publica (p. 19) e, conseguentemente, republic la naturale resa inglese del termine. Un significato intermedio dunque tra quella res publica che fin dal liceo gli studenti imparano a tradurre come “stato” e un utilizzo odierno nel quale con repubblica si fa riferimento a un sistema politico in cui il potere è esercitato da tutti i cittadini direttamente o per mezzo di rappresentanti scelti (eletti), sebbene risulti evidente che l’imperatore non sia mai stato una carica elettiva; nella definizione del termine rientrano poi, come chiarito a p. 98, anche le teorie rousseauiane, secondo le quali sarebbe da considerare repubblica ogni forma di stato governato da leggi, indipendentemente dal tipo di regime al potere.
Fermi restando i dubbi su un’effettiva continuità di una tradizione di questo tipo in età imperiale, Bisanzio sarebbe stata repubblicana innanzitutto in quanto dotata di leggi (ἔννομος πολιτεία): non si può fare a meno di notare, però, come l’imperatore si ponesse al di sopra di esse in quanto carica suprema, avendo la possibilità di modificarle qualora il bene comune lo richiedesse e potendo scegliere autonomamente se rispettarle o meno. Se è chiaro che un ossequio volontario della legalità da parte del sovrano non possa connotare un ordinamento come repubblicano, restano comunque da chiarire gli spazi di azione riservati al popolo: essi sono individuati nella liceità della disobbedienza a un imperatore che avesse governato contro gli interessi della πολιτεία (p. 79), ma soprattutto nella stessa possibilità di agire al di fuori delle leggi, ribellandosi e rovesciando un monarca che ambisse a spingersi oltre la posizione di mero servitore dello stato (p. 88). Richiamando G. Agamben, Kaldellis sviluppa pertanto l’idea che sia l’imperatore che il popolo potessero spingersi oltre l’ordine costituito, creando degli «states of exceptions» (p. 86).
L’originalità di questa posizione impone alcune riflessioni. Come si può concepire concettualmente una «lawful polity» (pp. 62 e ss.) di stampo repubblicano se le sue componenti possono legittimamente agire contro le regole che essa stessa si pone? Seguendo questi criteri, anche uno stato come la Russia zarista (la cosiddetta terza Roma) può essere considerato quindi una repubblica, vedendo nelle rivolte guidate da Emel’jan Pugačëv un’espressione della volontà popolare? O per essere considerate tali le ribellioni devono interessare la capitale? E in questo caso, se Bisanzio era la continuazione di Roma, come si manifestava il volere del popolo nella città eterna, dove non si ebbero mai moti dal basso in grado di rovesciare gli imperatori? Bastano due deposizioni a seguito delle rivolte di Costantinopoli in sette secoli (quelle di Michele V e di Andronico I) per poter parlare di funzionamento istituzionalizzato di una monarchia repubblicana?
Per concludere, l’opera ha senza dubbio il merito di proporre una seria riflessione sulla natura, sui caratteri e sulla complessità della monarchia bizantina; interessante anche l’attenzione verso il popolo, le cui prerogative e potenzialità sono state troppo spesso trascurate. Meno convincenti risultano le conclusioni, provocatorie, ma difficilmente accettabili nonostante un ampio ricorso a testimonianze storiografiche di supporto, che però mancano di un’efficace contestualizzazione. Non è sicuramente elegante segnalare in una recensione cosa l’autore avrebbe dovuto dire rispetto a quello che effettivamente propone; ma come già rilevato da altri risulta eccessivamente sminuito il ruolo delle élites, militari o aristocratiche, che tanto invece avevano un ruolo nel tessere trame fuori e dentro la corte e nel dirigere l’opinione del popolo, più spesso guidato dall’alto e meno coeso e consapevole di quanto proposto da Kaldellis.