Un manuale di storia per le superiori deve oggi tenere conto di due esigenze opposte e non facilmente conciliabili. Da un lato deve aprirsi ad ambiti tematici e geografici sempre più vasti: parlare dunque non solo di politica, di economia e di istituzioni, ma anche di tecnologia e di vita materiale, di religione e di cultura; e deve superare, soprattutto per quanto riguarda le epoche recenti, un’impostazione eurocentrica che da tempo non corrisponde più alla reale configurazione degli equilibri mondiali. Dall’altro lato è chiamato imperiosamente a fornire le basi informative e le categorie interpretative necessarie perché gli studenti possano essere consapevoli delle loro radici e sviluppare un minimo di senso di appartenenza alla loro comunità (nazionale, ma anche subnazionale e sovranazionale). La questione ovviamente non è nuova, ma si pone con particolare urgenza nei tempi che stiamo vivendo: tempi di globalizzazione economica e culturale e di emersione di nuovi protagonisti della scena mondiale in aree geografiche lontane; ma anche di riscoperta delle identità nazionali, soprattutto ove queste appaiano sbiadite o minacciate.
A rendere il problema più complicato c’è poi un dato di fatto dal quale non si può prescindere: un testo scolastico (così come il monte-ore complessivo a disposizione dell’insegnante di storia) è un sistema a somma zero, ovvero non può essere esteso a piacimento. Se si aggiunge qualcosa da una parte – e il procedere degli eventi e della stessa ricerca storica aggiunge materiale in continuazione, anche a non voler inseguire la mera attualità – bisogna togliere da un’altra. Togliere non significa ovviamente cancellare interi pezzi di storia: significa però rivedere in continuazione le gerarchie di rilevanza, adottare ove necessario tagli più svelti e più sintetici.
È quanto è accaduto in Italia nell’ultimo decennio del secolo scorso: quando il convergere di un’esigenza didattica largamente avvertita (lasciare spazio adeguato allo studio del Novecento, troppo spesso sacrificato per il solo fatto di trovarsi al termine di un percorso di studi organizzato cronologicamente) e di una proposta di periodizzazione storiografica (quella lanciata nel 1996 dal libro di Hobsbawm The Age of Extremes, titolato nella traduzione italiana Il secolo breve) ha portato a una nuova scansione dei programmi di storia: quella introdotta nel ’97 dal ministro Berlinguer (ma già anticipata qualche anno prima in via sperimentale dalla cosiddetta “Commissione Brocca”) che riservava al solo Novecento l’ultimo anno di studi, e quindi l’ultimo volume dei manuali scolastici.
Allora molti protestarono contro un’innovazione che sconvolgeva i tradizionali – e teorici – cicli di studio preesistenti; che rompeva, assieme all’unità della storia contemporanea tradizionalmente intesa (in realtà già da tempo la scansione di fine Settecento era stata abbandonata in favore di altre e meno convincenti date periodizzanti: 1815, 1848, 1870) anche quella del medioevo; che rendeva indefiniti i confini dell’età moderna; che sacrificava eventi capitali come la Rivoluzione francese (titolare di uno spazio amplissimo nei manuali degli anni Cinquanta e Sessanta); ma che soprattutto, risucchiando di fatto l’Ottocento nell’area della storia moderna, toglieva inevitabilmente spazio e centralità al secolo delle rivoluzioni nazionali: compresa, ovviamente, quella italiana. Naturalmente, nessuno dei critici della riforma si dava la pena di spiegare come si sarebbe altrimenti potuto lasciare spazio allo studio della storia più recente, in particolare a quella successiva alla seconda guerra mondiale (considerata evento contemporaneo anche mezzo secolo dopo la sua conclusione e in quanto tale designata a segnare le colonne d’Ercole oltre le quali non sarebbe stato prudente spingersi). E pochi ricordavano come le periodizzazioni scolastiche (ma anche quelle usate dagli studiosi, così come i confini delle discipline accademiche) siano sempre state largamente arbitrarie, convenzionali e comunque mobili, continuamente ritoccate dal trascorrere del tempo e dal progresso degli studi. Un esempio, che scelgo non a caso fra i tanti possibili: lo spazio esagerato attribuito alle guerre del Settecento – difficilissime da raccontare e da memorizzare anche per gli addetti ai lavori – nei manuali di impianto monarchico-sabaudista concepiti negli anni Trenta e spesso rimasti in vita in età repubblicana. Spazio che serviva a glorificare le gesta di casa Savoia e a retrodatare significativamente l’inizio dell’epopea risorgimentale.
Ma veniamo all’oggi. Le polemiche mosse contro il decreto Berlinguer alla fine degli anni Novanta, e successivamente affievolitesi a fronte di un adeguamento abbastanza rapido e convinto da parte del mondo della scuola, hanno ripreso vigore in coincidenza con le riflessioni – di segno per lo più pessimistico – suscitate dalle celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Oggi ci si impegna nel recupero, in sé meritorio ma talvolta acritico e indiscriminato, dei simboli e delle icone risorgimentali: dall’inno nazionale alla bandiera, dai monumenti alle biografie dei padri della patria. Si lamenta la progressiva marginalizzazione dello studio del Risorgimento nelle scuole e si denuncia la diffusa ignoranza degli eventi, dei personaggi e dei problemi legati alle origini del nostro Stato unitario.
La denuncia non è priva di fondamento: ognuno di noi insegnanti può constatarlo con qualche semplice domanda agli studenti (pochissimi, ad esempio, sanno che cosa sia davvero accaduto alla data, peraltro solo oggi riscoperta, del 17 marzo 1861). E non c’è dubbio che, almeno in parte, questa ignoranza sia da addebitarsi alla “retrocessione” del Risorgimento dall’ultimo al penultimo anno del ciclo scolastico, dunque più lontano dalla scadenza istituzionale dell’esame di maturità. Ma non credo che questa sia una buona ragione per tornare ai tempi in cui le lotte per l’indipendenza italiana, prolungate fino alla conclusione del primo conflitto mondiale, costituivano una sorta di conclusione del percorso di studio della storia; e la Storia del Risorgimento teneva, nelle università, il luogo di una Storia contemporanea che ancora non godeva di autonomia didattica e dignità accademica.
La soluzione non sta, a mio parere, in qualche circolare ministeriale che promuova una sorta di controriforma delle scansioni attualmente in vigore; ma è affidata in primo luogo alla preparazione e al buon senso degli insegnanti e, secondariamente, all’equilibrio di autori ed editori dei manuali. Si studi quindi il Risorgimento, se necessario richiamandone alcuni tratti salienti anche nell’ultimo anno di corso. Ma lo si studi con modalità diverse da quelle in uso nelle scuole ai tempi in cui la mia generazione frequentava le elementari e le medie (parlo degli anni Cinquanta del Novecento): meno retorica, meno patrie battaglie, meno armistizi Salasco e “Obbedisco”. Maggiore attenzione, viceversa, al quadro europeo, al dibattito politico all’interno del movimento nazionale, alla cultura di matrice romantica in cui maturarono le lotte per l’indipendenza, ai problemi concreti con cui dovettero misurarsi gli artefici dell’Unità; e soprattutto alla costruzione materiale dello Stato, operazione il cui sostanziale successo illustra meglio di qualsiasi icona patriottica il senso del percorso compiuto dal Risorgimento a oggi. Il tutto inserito saldamente nel contesto di un “lungo Ottocento” che oggi ci appare come un’epoca ricca e affascinante, carica di legami col presente ma anche irrimediabilmente lontana: più di quanto non indichi il semplice scarto cronologico.
Quanto ai manuali – tema che mi vede particolarmente interessato in quanto coautore di testi scolastici – non credo ci sia da inventare granché di nuovo. La soluzione migliore è quella adottata dai più: dare alla storia nazionale (non solo a quella dell’Italia unita) uno spazio proporzionalmente assai più ampio di quello che le assegnerebbe un ipotetico studioso proveniente da un altro pianeta. E dedicare all’Italia, per quanto possibile, capitoli specifici, anche a costo di turbare un’ideale sequenza cronologica e tematica: così mi sono regolato nella stesura del mio manuale, salvo che per le guerre mondiali, che vedono le vicende italiane inserite nel quadro politico-militare dei due conflitti. Studiare bene il nostro passato, come parte del corso generale degli eventi storici, è il modo più efficace, oltre che il più corretto, per far acquisire ai ragazzi la necessaria consapevolezza delle loro radici. Senza bisogno di ricorrere a retoriche invecchiate o a controproducenti forzature pedagogiche.
Il Libro:
Sabbatucci, Vidotto, Storia contemporanea, Roma-Bari: Laterza