Nella storia del Pci, fra i contatti sviluppati con i paesi dell’Europa orientale tra gli anni Sessanta e Ottanta, quelli con Polonia e Romania rivestono un particolare interesse in quanto seppero offrire degli spunti di riflessione all’elaborazione teorica che il Pci portò avanti in quegli anni, mettendo in evidenza la crescente distanza esistente fra l’idea di comunismo propria della classe dirigente del partito italiano e la sua realizzazione pratica nei paesi del «socialismo reale»[1]. La Romania, costruendo in modo piuttosto conseguente un proprio “comunismo nazionale” allo scopo di ampliare i propri spazi di autonomia nei confronti dell’Unione Sovietica, trovò con il Pci, per un certo periodo, una consonanza di vedute in politica internazionale, pur permanendo un forte dissenso sull’idea del pluralismo politico. La Polonia, da parte sua, pose il comunismo italiano di fronte al trauma di un governo popolare contestato dalla stessa classe sociale sulla rappresentanza dei cui interessi aveva fondato la propria ragion d’essere. Dopo la netta condanna dell’invasione della Cecoslovacchia e soprattutto con l’inizio della segreteria Berlinguer, i comunisti italiani si posero nei confronti del "socialismo reale" in modo sempre più critico, tanto da decretare la fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre.
L’epoca del “disgelo”: gli anni Sessanta
Gli anni Sessanta, che si aprivano nella prospettiva della distensione fra Est ed Ovest, costituirono per i partiti comunisti un periodo di lenta maturazione del messaggio che Chruščëv aveva lanciato nel corso del XX congresso del Pcus del febbraio 1956. La condanna espressa in quella sede del culto della personalità di Stalin e la moderata apertura all’idea di possibili vie al socialismo diverse da quella sovietica, misero in moto dinamiche fino ad allora impensabili. Il Pci, che, tramite l’ultimo documento ufficiale lasciato da Togliatti nel 1964, il cosiddetto Memoriale di Yalta, aveva criticato apertamente l’Urss, soprattutto per quanto riguardava la lentezza del suo processo di destalinizzazione, aveva manifestato l’intenzione di allacciare legami di nuovo tipo con i paesi del "socialismo reale", su base bilaterale e senza specifiche consultazioni con Mosca. Si guardò in modo particolare al Partito comunista romeno, il cui segretario, Gheorghiu-Dej, stava realizzando in quegli anni un progressivo allontanamento da un controllo sovietico ritenuto troppo oppressivo. La Romania non aveva tuttavia impostato tale nuova politica su presupposti di maggiore democrazia interna e la condanna che Dej dava dello stalinismo non si riferiva tanto al culto autoritario di una sola persona, ma mirava piuttosto a colpire la pretesa dell’Urss staliniana di controllare dispoticamente i paesi satelliti. Tale linea giustificava anzi la creazione in Romania di un potere forte, rappresentato da Dej e dal suo entourage, che, nel nome di un nuovo “comunismo nazionale”, avrebbe potuto far valere le ragioni di Bucarest di fronte all’alleato sovietico. La “destalinizzazione” romena si risolse quindi in una serie di processi intentati contro i membri del partito che avevano avuto più stretti rapporti con l’Urss – che aveva dato loro rifugio durante la guerra – come il ministro delle Finanze Vasile Luca, il ministro degli Interni Teohari Georgescu e il ministro degli Esteri Ana Pauker, accusati di «deviazionismo di destra» e di «attività antipartito». Tali processi, che erano delle “purghe” nel più tipico stile staliniano, costituivano per il governo romeno la prova che la destalinizzazione era ormai realizzata e che non vi era più nulla da correggere [Fejtö 1971, 99-100; Guerra 1986, 123]. È stato osservato a tale proposito che il cambiamento impresso da Dej in politica estera restava limitato al «perimetro della tolleranza sovietica», in quanto «non aveva messo in pericolo le fondamenta del regime comunista, non aveva posto in discussione la validità, la necessità o l’opportunità del modello sovietico […], non aveva tentato una riforma radicale o un cambio della natura del regime» e non aveva quindi minacciato seriamente «gli interessi vitali sovietici nella zona» [Marin 2008, 512]. La linea “nazionale” inaugurata dalla dirigenza romena nei primi anni Sessanta, continuata poi con rinnovato vigore da Ceauşescu nella seconda metà del decennio, non fu osservata con attenzione soltanto dal Pci, ma da diversi ambienti del governo e dell’economia italiana, ansiosi di avviare nuovi rapporti di collaborazione con i paesi nell’Est [Caroli 2009, 429-483]. Il terzo congresso del Pmr[2], tenutosi nel 1960, aveva gettato le basi per una progressiva autonomia della Romania nell’ambito del Comecon e tale linea fu ribadita dal comitato centrale del partito nell’aprile 1964, mentre già nel 1958 Gheorghiu-Dej aveva ottenuto il ritiro delle truppe sovietiche dal paese. Contemporaneamente, la Romania si aprì al commercio con l’occidente, incrementando il proprio interscambio con i maggiori paesi europei, fra cui l’Italia [Fejtö 1971, 153-154; Agosti 1999, 247-248].
Fu in tale contesto che iniziarono a svolgersi alcuni periodici incontri fra esponenti del Pci e del Pmr, che sarebbero continuati, fra alti e bassi, fino agli anni Ottanta. Nel 1962 fu Emanuele Macaluso ad incontrare a Bucarest Nicolae Ceauşescu, allora numero due del Pmr, per discutere sulle conseguenze di lungo periodo che il XX congresso del Pcus stava avendo sul movimento comunista internazionale. La Romania, che stava muovendo i primi cauti passi in direzione di un proprio “comunismo nazionale”, se da un lato osservava il Pci di Togliatti con un certo interesse, dall’altro temeva una linea eccessivamente critica nei confronti dell’Urss. Macaluso si premurò quindi di evidenziare il fatto che i rappresentanti dell’ala “antisovietica” del partito, capeggiati da Antonio Giolitti, non facevano più parte del Pci e che la formula del «policentrismo», che avrebbe potuto far pensare ad una messa in discussione del ruolo privilegiato del Pcus nel movimento comunista, era stata abbandonata, e che comunque non si era mai voluto «riconoscere la possibilità dell’esistenza di più centri nel movimento operaio» [AN, 1][3]. Due anni più tardi, nel settembre 1964, aveva avuto luogo un nuovo incontro, a cui presero parte, fra gli altri, Mario Alicata, Arturo Colombi, Nicolae Ceauşescu e Chivu Stoica. Togliatti era da pochi giorni deceduto in Crimea, prima di incontrare Chruščëv, a cui avrebbe voluto manifestare le proprie perplessità sulla lentezza della destalinizzazione e sulla gestione dei rapporti di Mosca con gli altri partiti comunisti, in particolare quello cinese, con cui vi era ormai un’aperta rottura. La delegazione italiana trovò una certa sintonia con i romeni, i quali concordavano sulla necessità di garantire a tutti i partiti comunisti una via autonoma al socialismo. Affermava infatti Ceauşescu che
le relazioni fra i paesi socialisti si devono basare […] sul principio del rispetto della sovranità e dell’indipendenza nazionale, sull’eguaglianza di diritto, sulla non ingerenza negli affari interni e su tutto ciò che sia fondato sul principio dell’internazionalismo proletario [AN, 2].
La linea dei comunisti romeni era evidente: opponendosi all’integrazione economica nel Comecon e rivendicando una loro autonomia dall’Urss, essi avevano appena proclamato ufficialmente che non potevano esistere «un partito “padre” e un partito “figlio”», partiti «superiori» e partiti «subordinati» e che era «diritto sovrano di ogni Stato socialista elaborare, scegliere o cambiare le forme e i metodi della costruzione socialista». Nei rapporti riservati che il Pci dedicava alla Romania, l’originalità di quel partito comunista veniva messa in debito risalto:
Non sono disposti ad accettare di essere soltanto un serbatoio di materie prime e di prodotti agricoli, e di restare un paese agrario industriale. Stanno restringendo in parte i consumi per incrementare l’esportazione verso i paesi capitalisti in modo da poter intensificare gli investimenti industriali. […]
Nel Partito si sottolinea in modo particolare […] la «autonomia», il rispetto della «sovranità nazionale», il «reciproco interesse», ecc.
Si sente, anche se molto contenuto, un atteggiamento polemico nei confronti dell’attuale gruppo dirigente sovietico [FIG, 1].
Anche la Polonia pareva imboccare una propria via, nazionale e autonoma, al socialismo: nel 1956, in seguito alle imponenti contestazioni operaie di Poznań, ritornò al potere Władisław Gomułka, ex segretario del partito comunista polacco, arrestato alla fine degli anni Quaranta per «deviazione nazionale verso destra» [Fejtö 1971, 111-116; Boffa 1990, 245-252]. Terminata dunque l’epoca stalinista rappresentata da Bolesław Bierut, sembrava che la Polonia, tra l’entusiasmo della popolazione, fosse riuscita ad ottenere pacificamente quello che in Ungheria era invece costato la dura repressione sovietica. In realtà, non si trattava dell’inizio di una «via polacca al socialismo», ma della Realpolitik di Chruščëv, persuaso da Gomułka che il cambio al vertice del Pzpr[4] non avrebbe messo in discussione – come invece aveva fatto Nagy in Ungheria – l’appartenenza della Polonia al Patto di Varsavia e che, allo stesso modo, non si sarebbe attentato alle basi leniniste del regime polacco. Il nuovo segretario del Pzpr riuscì quindi a contemperare le aspirazioni al rinnovamento di larga parte del popolo polacco con una politica cauta nei confronti dei sovietici, che accettarono le novità del nuovo corso avviato da Gomułka. Furono così destituiti il ministro della Difesa Rokossovskj, che, pur essendo nato a Varsavia, aveva servito per molti anni nell’esercito sovietico, insieme a diversi altri ufficiali sovietici che erano stati incorporati alla fine della guerra nell’esercito polacco, furono allontanati dal partito gli stalinisti, abbandonata la collettivizzazione dell’agricoltura, liberato il primate cardinale Wyszyński – incarcerato dal 1953 per attività anticomunista – e concessa maggiore libertà di stampa [Fejtö 1971, 117-130; Biagini e Guida 1994, 72-75; Guerra 1986, 137-174]. Una delegazione del Pci in Polonia nel 1958 si era espressa in termini piuttosto positivi sulla gestione di Gomułka, che aveva «ottenuto grandi risultati nel restaurare la autorità del partito e dello Stato» e che aveva saputo migliorare i rapporti con l’Urss al punto che «non c’è forse cittadino polacco il quale non annetta all’alleanza di Varsavia un fondamentale valore di pace e di difesa della esistenza, oltre che dell’indipendenza della nazione polacca». Nella relazione stilata dalla delegazione, si affermava che il Pzpr aveva saputo chiudere con lo stalinismo, evitando nel contempo pericolose derive di tipo «revisionista» [FIG, 2].
Già alla fine degli anni Cinquanta, tuttavia, Gomułka aveva impresso alla propria politica una svolta in senso conservatore, spaventato dall’attivismo di gruppi dell’intelligencija polacca, i quali chiedevano l’ampliamento degli spazi di libertà che il nuovo corso aveva promesso [Agosti 1999, 248-249; Fejtö 1971, 207-208]. Negli stessi anni, il Pci aveva avviato invece una riflessione critica che, sulla scia dell’ultimo Togliatti, stava portando ad una progressiva rivalutazione del metodo democratico all’interno del partito. Inoltre, iniziavano a farsi sentire, a livello di discussione interna, voci critiche su determinati aspetti, eccessivamente autoritari, dei paesi del "socialismo reale". La delegazione polacca all’XI congresso del Pci del gennaio 1966 – il primo dopo la morte di Togliatti – aveva espresso «preoccupazione» per «le note e gli accenti critici» della stampa comunista italiana sulla «vita interna» e sui «rapporti tra paesi socialisti» [AAN, 1]. Particolare apprensione suscitavano le posizioni della «sinistra» comunista di Ingrao, che sosteneva – si leggeva nel rapporto dei polacchi – «una democrazia più ampia dentro il partito», «la trasparenza di tutte le discussioni» e di conseguenza «la difesa della libertà della lotta delle correnti all’interno del partito» [AAN, 2]. Tali differenze di posizione emersero anche in occasione dell’incontro fra Luigi Longo, nuovo segretario del Pci dopo Togliatti, e Gomułka, che lamentava un’incomprensione da parte dei comunisti italiani della situazione specifica dei paesi socialisti e criticava quello che riteneva essere un pericoloso scivolamento verso posizioni «opportunistiche» e «revisioniste». In particolare, il segretario del Pzpr ammoniva Longo a non proseguire nella direzione di una «socialdemocratizzazione», che avrebbe portato all’accettazione del sistema democratico borghese. A Longo, che criticava la mancanza di democrazia interna nei partiti comunisti del "socialismo reale", riferendosi in particolare alla destituzione di Chruščëv, Gomułka replicava che «quando ci sono due campi nel mondo, non si possono dare tutti i motivi di certe decisioni» [FIG, 3].
I rapporti della sezione esteri del Pzpr, del resto, erano molto eloquenti sulla netta divaricazione che si era creata fra la Polonia di Gomułka e il partito di Longo. Di questo si denunciavano i «fenomeni di nazionalismo», gli «atteggiamenti che sottovalutano gli apporti del patrimonio di esperienze di chi è al potere», «un graduale allontanamento dalle posizioni di appoggio sostanziale alla politica della comunità socialista», «la contrapposizione delle proprie esperienze alle esperienze degli altri partiti» [AAN, 3]. D’altra parte, i comunisti italiani credevano che ormai «la linea del partito polacco pareva segnare una svolta involutiva e Gomułka non era più in grado di portare avanti quel rinnovamento della società polacca e del partito che aveva promesso» [Galluzzi 1983, 57-71][5].
Una posizione di netta chiusura era stata espressa dal governo polacco anche sul sostegno del Pci all’Ostpolitik di Willy Brandt, che mirava ad una progressiva distensione fra i due blocchi tramite un riavvicinamento fra la Repubblica federale tedesca, la Polonia e la Repubblica democratica tedesca. In occasione della conferenza dei partiti comunisti di Karlovy Vary del 1967, Longo aveva apertamente preso posizione a favore della distensione e per un ruolo autonomo che l’Europa avrebbe dovuto giocare in tale direzione, individuando nella collaborazione fra comunisti, socialdemocratici e progressisti un presupposto indispensabile per questo processo [Timmermann 1974, 23-52; Rubbi 1994, 122; Mammarella 1976, 224]. Il governo polacco si era mostrato a tale proposito molto freddo, tanto che, nella riunione preparatoria alla conferenza, la delegazione polacca aveva giudicato la politica di Bonn «più pericolosa di quella passata» [FIG, 4].
Con l’ascesa al potere di Ceauşescu nel 1965, la Romania aveva accentuato la propria collocazione del tutto particolare sulla scena internazionale, da un lato rimarcando il carattere del proprio “comunismo nazionale” e l’autonomia dall’Urss, dall’altro intensificando i rapporti economici e diplomatici con i paesi occidentali [Guida 2009, 260-263] e, parallelamente, le relazioni con alcune forze politiche di questi, fra cui il Pci. L’atteggiamento del Pci verso il Pcr era duplice: se a livello ufficiale si sottolineavano le convergenze sui temi di politica estera, come l’autonomia dei partiti comunisti, la distensione, il disarmo, il rifiuto di “scomuniche” nei confronti della Cina, nei rapporti riservati emergevano sempre più con il passare degli anni le differenze sul problema della democrazia interna e del pluralismo politico. In particolare, poi, dall’inizio degli anni Sessanta gli osservatori del Pci mettevano in rilievo la pesante cappa di censura che gravava sulla Romania: benché il paese si stesse muovendo in modo piuttosto autonomo all’interno del movimento comunista, si rilevava che «sulla stampa romena non appare nulla» e che «persino il problema della pace viene presentato in un modo come se tutti fossero d’accordo». In sostanza, si raffigurava il «campo socialista» come un’«unità monolitica» e non si faceva «nessun accenno alle divergenze», «giustificando tutto ciò con il fatto che questi sono problemi interni che interessano i singoli paesi». Infine, non solo c’era una «politica di chiusura» sul dibattito relativo ai «problemi dell’ampliamento della democrazia socialista», ma si riscontravano delle «punte nazionaliste che consistono nell’esaltare in alcuni settori tutto ciò che è romeno» [FIG, 5].
In occasione dell’incontro fra Longo e Ceauşescu del settembre 1967, si registrò una completa sintonia sulle questioni internazionali, con una sfumatura più decisamente polemica verso l’Urss da parte del leader romeno. Commentando l’esito della «guerra dei sei giorni», Ceauşescu sostenne che il conflitto sarebbe stato evitabile se non si fossero esasperati i rapporti con Israele e criticò l’Urss per aver addossato l’intera responsabilità al governo di Gerusalemme e per aver poi voluto una rottura delle relazioni diplomatiche del «blocco socialista» con Israele. Anche sull’Ostpolitik di Bonn, con cui la Romania aveva stabilito relazioni diplomatiche [King 1980, 143], i due si trovarono d’accordo e Ceauşescu sottolineò l’importanza della collaborazione fra forze comuniste, socialdemocratiche e progressiste in generale per la sicurezza e il disarmo in Europa. I comunisti italiani erano rimasti particolarmente colpiti dal fatto che i romeni avessero usato in più occasioni «l’armamentario classico della socialdemocrazia nel loro giudizio sulla politica sovietica verso il Medio Oriente» e, più in generale, giudicavano preoccupante «la polemica con l’URSS che viene sviluppata su ogni questione» [FIG, 6].
Le prospettive di una «terza via»
Di fronte alla brusca interruzione della «primavera di Praga» da parte dei carri armati del Patto di Varsavia, fra il 20 e il 21 agosto 1968, comunisti italiani e romeni si trovarono nuovamente d’accordo nella condanna della politica sovietica. Già il 21 agosto l’ufficio politico del Pci aveva espresso «grave dissenso» e «riprovazione» per l’invasione, riaffermando «la propria solidarietà» con il partito comunista cecoslovacco [Tonchio et al. 1968, 312; Höbel 2001, 1153]. Lo stesso giorno, in una seduta congiunta del comitato centrale del Pcr, del consiglio di stato e del governo romeno, Ceauşescu aveva condannato la «violazione flagrante della sovranità nazionale» della Cecoslovacchia da parte dei paesi del Patto di Varsavia (la Romania non aveva partecipato). Il leader romeno definì l’invasione «un grande errore e un grave pericolo per la pace in Europa» e «per la sorte del socialismo nel mondo», in quanto non era giustificabile per alcun motivo un’intromissione di tale genere nelle questioni interne di uno «stato socialista fratello» [Marin 2008, 531]. Tuttavia, se il Pci aveva manifestato verso il «nuovo corso» cecoslovacco una certa «simpatia» fin dall’inizio, il Pcr, non particolarmente incline ad effettuare riforme di carattere liberale, deplorava l’intervento sovietico principalmente allo scopo di riaffermare i propri spazi di autonomia [Höbel 2010, 517-550; Pons 2006, 3-19; Tonchio et al. 1968, 310-361]. Il 20 settembre, durante un incontro fra le delegazioni dei due partiti, Gian Carlo Pajetta aveva comunque rilevato «la particolare concordanza di posizioni […] sui fatti di Cecoslovacchia e sulle conseguenze nel movimento operaio» [FIG, 7]. Da parte loro, i romeni, confermando la propria condanna dell’«intervento brutale» del Patto di Varsavia, del tentativo di «compromettere il gruppo dirigente» del PC cecoslovacco e di «screditare il compagno Dubček», esprimevano una solidarietà «permanente» nei confronti di quel partito. E, in modo rivelatore, aggiungevano: «se non ci fosse stata la condanna di molti partiti comunisti è difficile dire se i sovietici a questo punto non sarebbero già intervenuti militarmente contro la Romania» [FIG, 8].
Sull’invasione della Cecoslovacchia avevano espresso un parere completamente opposto i comunisti polacchi. Il Pzpr, che aveva appoggiato con convinzione l’intervento militare del Patto di Varsavia [Bertone 1981, 237], osservava con crescente incomprensione il dibattito interno al Pci e la polemica con l’Urss portata avanti dalla direzione del partito italiano; scelte, si scriveva nei rapporti della sezione esteri del PC polacco, non comprese dalla stessa base del partito [AAN, 4]. Comunque, il XII Congresso del Pci, tenutosi nel febbraio 1969, sembrava circoscrivere i termini del dissenso con Mosca. Se da un lato Berlinguer – nominato allora vice-segretario – aveva confermato tutte le critiche formulate all’indirizzo dell’Urss fino a quel momento, rivendicando «piena autonomia di giudizio» e ricordando gli «ordinamenti in parte limitativi della libertà e della democrazia» vigenti in quel paese, dall’altro era stato netto nel rifiutare «l’antisovietismo in tutte le forme in cui esso si presenti» [Berlinguer 1969, 749-752]. Per i polacchi continuavano tuttavia a permanere «tante ambiguità», che affondavano le proprie radici nell’idea che si potesse costruire una «via italiana al socialismo» diversa da quella dei paesi del «socialismo reale». La linea eccentrica del Pci si doveva – secondo gli osservatori polacchi – al fatto che tale partito era inserito da anni «nel sistema della democrazia parlamentare borghese», di cui costituiva «in pratica uno dei […] componenti». Tale «fatto oggettivo» aveva un’influenza determinante sull’elaborazione ideologica dei comunisti italiani, allontanandoli in modo sensibile dall’ortodossia marxista-leninista, tanto da fare loro credere che «la costituzione italiana sia la migliore del mondo» e che il principale obiettivo dei comunisti italiani dovesse essere «la sua pratica realizzazione». Insomma, il Pci non aveva «un programma realmente rivoluzionario» e aveva anzi contribuito a razionalizzare le forze del capitalismo italiano, alla stregua di un partito socialdemocratico [AAN, 5]. La relazione di Longo al Congresso aveva confermato i timori dei polacchi, per cui «la sottolineatura del carattere fraterno» del rapporto con il Pcus e con gli altri paesi socialisti «era piuttosto formale e contrastava con la posizione nella questione cecoslovacca», giudicata «molto lontana dai principi dell’internazionalismo proletario» [AAN, 6; AAN, 7]. Il deterioramento del rapporto fra italiani e polacchi era risultato evidente a Pajetta, presente al congresso del Pzpr del 1969, il cui intervento, l’unico a nominare i fatti cecoslovacchi, fu accolto con freddezza e in parte censurato dal segretario del comitato centrale del partito polacco, Zenon Kliszko [Pajetta 1982, 150-151]. Proprio allo scopo di ristabilire buoni rapporti con i polacchi, Carlo Galluzzi aveva avuto nel mese di novembre un incontro a Varsavia con il responsabile della sezione esteri del Pzpr e con Kliszko. I polacchi rimproveravano al Pci la posizione critica tenuta dagli italiani verso i paesi socialisti e, in modo particolare, il fatto che tali opinioni fossero espresse pubblicamente [AAN, 8].
In realtà, l’invasione della Cecoslovacchia segnò una svolta precisa per il Pci, che da quel momento fino al suo autoscioglimento, alla fine degli anni Ottanta, mise definitivamente in chiaro che la propria via al socialismo sarebbe stata per forza radicalmente diversa da quella dei paesi del "socialismo reale" e fece del pluralismo politico un punto fermo della propria identità. D’altra parte, continuò a permanere, allo stesso tempo, un vincolo identitario fra il Pci e il «campo socialista», per cui la rottura con quei partiti, criticati per l’autoritarismo e la gestione burocratica del potere, non fu mai portata fino alle estreme conseguenze. Insomma, il fatto che la «terza via» non sarebbe stata quella del «socialismo reale» ma nemmeno quella della «socialdemocrazia», avrebbe perpetuato un’ambiguità ideologica e strategica del partito di Berlinguer [Pons 2006, 247-258; Mammarella 1976, 215-217]. La posizione antiautoritaria scelta dal Pci portò la direzione del partito a criticare apertamente il governo Gomułka, quando la rigida politica deflazionistica adottata alla fine degli anni Sessanta avviò un nuovo ciclo di scioperi e sommosse popolari nei porti del Baltico, che portarono, il 20 dicembre 1970, alle dimissioni del segretario del Pzpr e alla sua sostituzione con Edward Gierek. L’ufficio politico del Pci aveva deplorato il fatto che si fosse creata «una situazione di così acuto disagio economico», ammonendo il governo polacco sul fatto che «i problemi del consolidamento e sviluppo dei paesi socialisti possono essere risolti solo attraverso la piena affermazione della democrazia socialista, di cui è momento essenziale […] un profondo legame del partito con le masse popolari» [Comunicato dell’Ufficio politico del PCI, 1970].
Il nuovo segretario del PC polacco mise in atto una serie di riforme che avrebbero dovuto rendere più efficiente il sistema produttivo del paese, coinvolgendo i lavoratori in tale processo tramite i consigli operai, concedendo aumenti salariali e bloccando allo stesso tempo l’inflazione [Bertone 1981, 242-252]. In realtà, tale fase riformatrice, che si esaurì nel giro di alcuni anni non appena, anche a causa della crisi petrolifera del 1973, l’economia polacca tornò in difficoltà, aveva evidenziato una dinamica molto simile a quella del 1956 e del ritorno di Gomułka, visto allora come una grande speranza da tutti gli avversari del “dogmatismo” e dello stalinismo[6]. Il Pci, guidato dal 1972 da Berlinguer, seguiva l’evoluzione della situazione polacca con una certa cautela, pur riconoscendo che Gierek aveva avviato un nuovo corso rispetto agli ultimi anni. Pajetta, dopo una serie di incontri con la nuova dirigenza, aveva evidenziato il «nuovo modo di lavorare», che consisteva «in contatti più intensi con gli operai», osservando però che «le notizie che ci hanno dato sul modo come questo sviluppo della democrazia possa e debba realizzarsi sono rimaste tuttavia assai vaghe» [FIG, 9]. Che la linea politica del Pci riguardo ad alcuni temi, quali il superamento dei blocchi e soprattutto l’accettazione del pluralismo politico, impedisse una reale comprensione fra i due partiti, fu confermato dalle critiche sollevate dall’intervento di Pecchioli al VII Congresso del Pzpr, tenutosi nel dicembre 1975. L’affermazione di Pecchioli che il Pci intendeva costruire una società socialista la quale avesse come «fondamenti irrinunciabili» il pluralismo politico e «il pieno rispetto delle libertà democratiche» era stata censurata dall’organo del Pzpr «Trybuna Ludu», in quanto giudicata «un attacco» al partito [FIG, 10; FIG, 11]. Nel 1976 la Polonia dovette affrontare l’ennesima crisi: quando il governo, per far fronte al deficit aggravatosi negli ultimi anni, annunciò nel giugno un drastico aumento dei prezzi, si verificarono scioperi e manifestazioni, repressi duramente dalla polizia. I licenziamenti degli scioperanti e i processi che seguirono suscitarono fin dall’inizio le critiche della dirigenza del Pci, messe per iscritto in una lettera indirizzata al comitato centrale del Pzpr:
le notizie che sono pervenute sui processi, le condanne e le misure di polizia in seguito ai recenti movimenti di protesta contro l’annuncio di aumento dei prezzi […] hanno destato preoccupazione in larghi strati dell’opinione pubblica del nostro stesso partito. L’informazione è stata insufficiente, frammentaria. […]
Noi pensiamo però che il fatto che non sia stata possibile o non sia stata ricercata la presenza di giornalisti stranieri ai processi abbia rappresentato un elemento negativo, impedendo che fossero conosciuti i termini del procedimento per i reati che in quella occasione sono stati commessi [FIG, 12].
Queste prese di posizione suscitarono la reazione indignata dei polacchi, che accusarono in particolare «l’Unità» di essersi posta «sulla scia della propaganda borghese» e invitavano il Pci a rivolgersi alle autorità diplomatiche polacche prima di diffondere notizie, allo scopo di avere «più elementi a disposizione» [FIG, 13]. Il primo consigliere dell’ambasciata polacca, in particolare, osservò che la mancanza di un corrispondente de «l’Unità» da Varsavia impediva al Pci di avere «un’adeguata informazione sulla situazione in Polonia» e quindi portava i comunisti italiani a formulare «valutazioni distorte», che non si distinguevano sostanzialmente dalla «stampa borghese» [FIG, 14].
Nel novembre del 1976, Antonio Rubbi, responsabile della sezione esteri del Pci, incontrò Adam Michnik, fondatore, insieme a Jacek Kuroń, dell’organizzazione dissidente Kor (Comitato per la difesa dei lavoratori). Michnik affermò in tale occasione che il Pci era «l’unica speranza per l’avvenire dell’Europa» e un punto di riferimento per la dissidenza polacca, tanto che «quando fanno le perquisizioni in Polonia, le prime cose che si portano via sono i documenti del vostro partito, gli scritti e i discorsi di Berlinguer». Il leader del Kor, che aveva invitato i comunisti italiani a «fare di più» per la causa del pluralismo politico in Polonia, non aveva tuttavia riscosso la fiducia di Rubbi, che in una nota per Berlinguer si mostrò piuttosto scettico nei confronti della dissidenza, paragonata alla sinistra extraparlamentare italiana. Al responsabile della sezione esteri del Pci era infatti sembrato di «avere a che fare con uno di “Lotta Continua”» e le idee esposte da Michnik furono liquidate come «una accozzaglia, dove si mischiano assieme intellettualismo e radicalismo piccolo-borghese e trozkismo». Rubbi espresse un parere negativo sull’utilità di questo tipo di contatti: «Non so fino a che punto possiamo trovare affinità tra il reale malcontento operaio e queste posizioni […]. Credo che non sarebbe male se si discutesse sul comportamento che dobbiamo tenere con questi dissidenti e sui rapporti che cercano con noi. La cosa, oltreché imbarazzante, può prestarsi a cattive e nocive strumentalizzazioni» [FIG, 14].
Queste posizioni rispecchiavano la strategia adottata dal Pci: si trattava di cercare di far valere la propria influenza presso i partiti comunisti al potere in Europa orientale allo scopo di sensibilizzarli in una direzione favorevole ad una progressiva liberalizzazione di quei regimi. Ciò presupponeva di non puntare sui gruppi della dissidenza, visti con sospetto per la loro possibile azione destabilizzatrice nei confronti dei partiti comunisti, e di esercitare piuttosto su questi ultimi «una funzione critica, ma senza rottura» [Napolitano 2006, 112]. Resta il fatto che, se la nozione di «vie nazionali» al socialismo era ormai generalmente condivisa da tutti i partiti comunisti dell’Europa orientale, l’idea berlingueriana di «terza via» non poteva essere approvata, perché presupponeva l’accettazione del pluralismo politico e quindi del dissenso: secondo Edward Babiuch, della segreteria del Pzpr, «la formulazione “terza via”» era «incomprensibile ed erronea», in quanto «non esiste una via socialdemocratica al socialismo, in nessun paese del mondo» [FIG, 15]. Anche Ceauşescu, discutendo sulla «scelta pluralistica» del Pci, spiegò a Berlinguer che, comprendendo come il «problema della democrazia» venisse affrontato in Italia o in Francia, rifiutava tuttavia di considerarlo «una verità assoluta con validità universale» [FIG, 16]. In definitiva, se i polacchi respingevano senza appello l’idea del pluralismo, i romeni la relativizzavano, facendo rientrare la sua accettazione o meno nella sfera dell’autonomia dei singoli partiti: soluzione evidentemente strumentale, caratteristica del “comunismo nazionale” di Ceauşescu – che nel frattempo aveva migliorato i propri rapporti con Mosca – per tutti gli anni Ottanta.
L’impossibile riforma del "socialismo reale"
Nel corso degli anni Settanta, Berlinguer tentò di collegare la strategia del «compromesso storico», da lui lanciata dopo il golpe cileno del 1973, che prevedeva una collaborazione fra comunisti e cattolici sulla base di una piattaforma di riforme democratiche, e quella della creazione di un campo comunista occidentale, ciò che fu chiamato «eurocomunismo», capace di rappresentare un’alternativa pluralista al «socialismo reale» nel nome di un’Europa «né antisovietica né antiamericana». L’impostazione di Berlinguer presupponeva una concezione «dinamica» della distensione, tesa al superamento dei blocchi e alla legittimazione del comunismo «occidentale», che si scontrava con quella dell’Urss di Brežnev, che puntava viceversa ad un mantenimento del sistema bipolare. Criticando la visione chruščëviana di «coesistenza pacifica», dalla fine degli anni Sessanta l’idea della distensione, secondo il governo di Mosca, avrebbe infatti dovuto poggiare su una parità strategica sul piano militare nella prospettiva di tutelare e possibilmente rafforzare, a livello globale, il «campo socialista» [Pons 2006, 21-92; Pons 2003, 63-87]. L’ostilità sovietica verso la politica di Berlinguer comportò quindi un costante aumento della distanza che separava il Pci dal Pcus e dai partiti comunisti dell’Europa orientale. Anche la Romania di Ceauşescu sembrava meno incline a comprendere la linea del Pci, che associava ormai in modo evidente la realizzazione di una via europea al socialismo alla critica del modello del "socialismo reale". Ghizela Vass, della sezione esteri del Pcr, aveva a tale proposito accusato i comunisti italiani di avere una concezione «neutrale» della democrazia, in quanto «non legata alla esigenza di una precisa affermazione delle classi popolari» [FIG, 17].
La crisi polacca dell’estate 1980, che vide scendere in sciopero i portuali di Danzica guidati da Lech Wałęsa e la fondazione del primo sindacato indipendente Solidarność, approfondì ulteriormente la frattura che divideva il Pci dagli altri partiti comunisti. Il partito di Berliguer fu infatti «l’unico partito comunista a respingere la raffigurazione della Polonia come un paese sull’orlo della contro-rivoluzione, dipinta da Mosca e dal Patto di Varsavia». Tuttavia, l’appoggio ad un processo di liberalizzazione in Polonia fu limitato dalla diffidenza che il Pci continuò a nutrire nei confronti del dissenso e dalla sua perdurante fiducia in un processo di riforme «dall’alto», gestito direttamente dai partiti comunisti al potere. Ciò impedì al Pci di comprendere che le dinamiche del cambiamento all’Est erano ormai nelle mani di forze esterne rispetto all’establishment [Pons 2006, 186-187]. La legalizzazione di Solidarność e la sostituzione di Gierek con Stanisław Kania furono visti con favore da Berlinguer, che espresse al nuovo segretario del Pzpr «vivi auguri affinché la Polonia superi positivamente la difficile situazione che sta attraversando e sviluppi le sue conquiste socialiste attraverso una espansione della vita democratica» [Rubbi 1994, 202]. Il Pci aveva in particolare accolto «con soddisfazione» l’accordo concluso a Danzica fra Solidarność e il governo polacco, affermando che
Il riconoscimento del diritto di sciopero, dei sindacati autogestiti con libere elezioni e dei diritti di informazione rappresenta un successo delle lotte di massa, un risultato della responsabilità delle parti, una prova della necessità, in ogni momento della vita sociale, da Est ad Ovest, delle trattative, della rinuncia all’intolleranza, del rinnovamento dei rapporti economici e politici [Rubbi 1994, 199].
Di fronte all’avversione sovietica per lo sviluppo degli eventi polacchi e nel timore di un’invasione che potesse ripetere i fatti del 1956 e del 1968, la direzione del Pci approvò il 20 novembre una nota riservata diretta ai partiti comunisti del Patto di Varsavia in cui sostenne la necessità di un nuovo corso riformatore in Polonia e condannò preventivamente sia «una politica “di forza”» imposta al governo polacco dall’Urss, sia «un intervento esterno»:
I comunisti italiani non potrebbero capire e considerare tollerabile una qualsiasi interferenza che rendesse difficili le soluzioni che i polacchi, seguendo la propria via, cercano di trovare. Il PCI si opporrebbe con chiarezza e con ferma volontà a qualsiasi intervento esterno le cui conseguenze sarebbero catastrofiche.
I comunisti italiani auspicano che tutti operino per contribuire ad una soluzione dei problemi polacchi che corrisponda alla volontà della sua classe operaia e del suo popolo, agli interessi della pace, della democrazia, e del socialismo e che escluda ogni azione di forza [FIG, 18].
Il Pci continuò tuttavia a guardare ai fatti polacchi secondo un metro non più attuale, rifacendosi ancora al modello del 1968, quando il partito comunista cecoslovacco era stato capace, per mezzo di Dubček, di farsi promotore di una politica riformatrice. In Polonia, invece, era Soldarność ad avere assunto la guida del processo riformatore, mentre il governo di Kania sembrava incapace di una sua azione autonoma, oscillante fra l’idea di limitate concessioni al sindacato di Wałesa e il timore di una propria graduale delegittimazione o di un intervento sovietico. Il disorientamento dei comunisti italiani in proposito era stato testimoniato chiaramente da Pajetta che, nella riunione di direzione del 20 novembre, ricordando che nel 1968 il Pci si era schierato con Dubček, si chiedeva chi si dovesse appoggiare in Polonia fra Wałesa e Kania [Pons 2006, 190-191]. Il 5 dicembre, nel corso di un vertice dei paesi del Patto di Varsavia tenutosi a Mosca, tutti i leader comunisti concordarono con Brežnev sul fatto che la crisi polacca rappresentasse una minaccia per la «comunità socialista» e che fosse necessario salvaguardare il carattere «socialista» del regime. Anche l’ungherese Kádár e Ceauşescu, tradizionalmente più moderati, si dissero d’accordo, pur auspicando che i problemi polacchi potessero essere risolti autonomamente da quel partito, senza interventi esterni [Pons 2006, 192-193]. Rubbi, a Varsavia fra il 4 e il 6 dicembre con il compito di spiegare ai dirigenti del Pzpr le recenti prese di posizione del Pci, trovò i polacchi «assai reticenti» e sostanzialmente ostili alla risoluzione del 20 novembre. Il responsabile della sezione esteri Pjatkowski aveva espresso una «netta disapprovazione», in quanto nel documento del Pci i fatti polacchi erano presentati «solo in modo negativo», con «apprezzamenti […] assai parziali e non sorretti da una giusta visione di classe». Rubbi invitava, per parte sua, a risolvere la crisi politicamente, con una collaborazione fra il Pzpr, la Chiesa e Solidarność [FIG, 19]. Riferendo in direzione alcuni giorni dopo, Rubbi parlò di un «tono duro, pregiudiziale» verso le posizioni del Pci, aggiungendo però che i polacchi avevano riconosciuto la crisi in cui versava l’economia del paese e il fatto che Solidarność fosse considerato «una vera espressione del movimento operaio polacco». Al nuovo sindacato si rimproverava tuttavia di non voler farsi carico «dei problemi dell’economia nazionale», di non combattere a sufficienza «gli elementi eversivi» e di farsi strumentalizzare «dalle Centrali Sindacali mondiali» [FIG, 20].
Ma l’atmosfera fra Pci, Pzpr, Pcus e l’intero «campo socialista» era destinata ad avvelenarsi ulteriormente: il 16 dicembre 1980 era stato lo stesso comitato centrale del partito comunista polacco a condannare senza appello la risoluzione del 20 novembre, giudicata «un atto di ingerenza nelle questioni interne del nostro Partito», bollando poi come «unilaterali e errate» le valutazioni contenute nel documento. Il Pzpr, pur riconoscendo di avere commesso degli errori, accusava il Pci di trattare «in un modo inammissibile i rapporti tra i Paesi socialisti fratelli» nel momento in cui la Polonia si trovava «sulla linea dell’urto di classe fra le forze dell’imperialismo e del socialismo» [FIG, 21]. Questo comunicato seguiva di alcuni giorni una durissima presa di posizione del Pcus, che aveva definito la risoluzione del Pci «una ingerenza […] negli affari interni della Polonia popolare». Per i sovietici, il «senso oggettivo» del documento consisteva «non nel sostenere il socialismo realmente esistente in Polonia, ma nell’esprimere solidarietà alle forze che conducono un attacco contro di esso», le quali «rivolgono adesso una critica globale a tutti i risultati dello sviluppo della Polonia socialista, al regime sociale e statale esistente in questo paese» [FIG, 22]. Anche la tradizionale vicinanza del Pci con i comunisti romeni sul tema dell’autonomia e delle «vie nazionali» era venuta meno, poiché Ceauşescu temeva possibili ricadute dei fatti polacchi sul suo regime. Nel dicembre 1980, incontrando una delegazione italiana guidata da Bufalini, il leader romeno aveva messo in guardia su «circoli che tentano di approfittare di questi avvenimenti per gettare discredito sul socialismo in generale», manifestando sorpresa per come «dei partiti comunisti occidentali hanno commentato gli avvenimenti polacchi». A suo parere, in Polonia non si stava verificando «un processo di sviluppo nuovo del socialismo» ed era un errore appoggiare, come faceva il Pci, la legalizzazione di sindacati indipendenti, poiché questi erano in realtà uno strumento antisocialista controllato da forze esterne e dalla Chiesa cattolica. Ceauşescu negava inoltre, a differenza del Pci, che vi fossero somiglianze fra i fatti cecoslovacchi del 1968 e quelli polacchi, in quanto «la direzione cecoslovacca aveva approvato un programma per uno sviluppo socialista organizzato e consapevole», mentre in Polonia il partito comunista aveva «perso il controllo della situazione». Pur sostenendo che il governo polacco dovesse risolvere autonomamente la crisi, Ceauşescu riteneva «inevitabile» un intervento militare sovietico allo scopo di «impedire il rovesciamento del potere socialista in Polonia» [FIG 23; FIG 24]. Peraltro, sulle questioni internazionali, come l’Afghanistan, il leader romeno continuava a mantenere delle posizioni improntate ad un certo antisovietismo, unitamente ad un ostentato disprezzo per la classe dirigente sovietica, composta da «uomini anziani, malati, sempre più “chiusi” e isolati dalla realtà» [FIG 25].
La nuova crisi polacca del 1981 avrebbe sancito la presa di distanza definitiva del Pci dal modello del "socialismo reale" e quindi interrotto il dialogo con i romeni, che comunque si era sostanzialmente esaurito dall’inizio degli anni Settanta. La “normalizzazione” in Polonia iniziò nel febbraio 1981, con la nomina a primo ministro dell’ex ministro della Difesa, generale Jaruzelski, il quale assunse fra il 16 e il 18 ottobre anche la carica di segretario del partito comunista al posto di Kania. L’Urss, che aveva scartato l’idea di una soluzione militare, per le sue imprevedibili conseguenze, impose all’esitante governo polacco un giro di vite autoritario e, nella notte fra il 12 e il 13 dicembre, fu proclamata in Polonia la legge marziale [La Mantia 2006, 295-298]. Il 15 dicembre «l’Unità» condannò con forza la scelta dei dirigenti comunisti polacchi, scrivendo che «il potere assunto dai militari è il risultato e la prova del fallimento di un intero strato dirigente della società polacca organizzato nel POUP» e ricordando che – nella visione del Pci – il socialismo era incompatibile con «stati d’assedio» e «imposizioni autoritarie» [La riflessione deve andare fino in fondo, 1981]. Il 30 dicembre la direzione del Pci pubblicò una risoluzione in cui, dopo aver ribadito la «convinzione che democrazia e socialismo sono indissolubili», si prendeva atto che la «fase di sviluppo del socialismo che ebbe inizio con la Rivoluzione d’ottobre ha esaurito la sua forza propulsiva», individuando nel «superamento» della logica dei blocchi la condizione per un cambiamento democratico nell’Europa orientale [Risoluzione della Direzione del Partito comunista italiano, 1981].
Questa ennesima presa di distanza dal socialismo di tipo sovietico, definita polemicamente da Cossutta uno «strappo» rispetto alla storia del Partito comunista italiano, non implicò tuttavia una rottura con l’Urss, che, pur non costituendo più un «punto di riferimento», rappresentava comunque «un contrappeso alla forza e all’aggressività dell’imperialismo americano» [Conclusioni di Berlinguer al CC, 1982]. Si continuò piuttosto a teorizzare una «terza via», alternativa sia al modello del «socialismo reale» che a quello delle socialdemocrazie, accentuando la peculiare collocazione del Pci nel panorama internazionale, quale unico rappresentante di un «comunismo riformatore», che aveva l’ambizione di spendere la propria influenza – evidentemente sopravvalutata – per favorire un’evoluzione democratica nell’Urss e nei paesi dell’Est [Gualtieri 2001, 94-96]. L’idea di una riforma del comunismo, sostenuta da Berlinguer attraverso l’eurocomunismo all’estero e il «compromesso storico» come sua applicazione alla politica nazionale, si scontrò quindi con l’impraticabilità di una rottura con l’Urss e il «campo socialista» anche nel momento stesso in cui più forte fu la critica nei confronti di quelle realtà. Alla base di tale stallo ideologico, oltre al motivo identitario, vi fu anche una perdurante fiducia della dirigenza e della base del partito sulla capacità dell’Urss di riformarsi per raggiungere una conciliazione fra comunismo e democrazia. Questa speranza, che sembrò concretizzarsi con l’ascesa al potere di Gorbačëv e l’avvio della perestrojka, si rivelò tuttavia effimera e vide congiunti per l’ultima volta i destini del comunismo italiano e del "socialismo reale", con la scomparsa di quei regimi e l’autoscioglimento del Pci fra il 1989 e il 1991 [Guerra 2005, 320-338; Telò 1996, 217-233; Lomellini 2010, 215-224].
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Note
[1]Sui rapporti fra Pci e Romania cfr. Santoro 2007 e Pommier Vincelli 2005.
[2]Partidul Muncitoresc Român (Partito Operaio Romeno), che nel 1965 fu ribattezzato Partidul Comunist Român (Partito Comunista Romeno).
[3]Sul «policentrismo» il Pcus aveva criticato la posizione tenuta dal Pci dopo il XXII Congresso del partito sovietico: cfr. Agosti 1996, 522 e l’articolo Togliatti precisa sul «policentrismo», 1961. Su questo tema, cfr. Sassoon, 162-203.
[4]Polska Zjednoczona Partia Robotnicza (Partito Operaio Unificato Polacco), creato nel dicembre 1948 con l’unione dei partiti comunista e socialista. In questa sede si è scelto l’acronimo polacco, tuttavia in Italia il partito è anche conosciuto come Poup e così viene citato in alcuni documenti usati nel presente saggio.
[5]Rievocando quegli anni, Gian Carlo Pajetta scriveva che «il gruppo di Gomulka e dei suoi si dimostrò chiuso, capace […] nel difendere la dignità polacca, ma incapace di rispondere alle esigenze di una Polonia nuova»: Pajetta 1982, 149.
[6]Fejtö ha preso spunto da questi fatti per dimostrare la «ciclicità insita nella storia delle democrazie popolari», la quale «sembra svolgersi con moto circolare, ripetendo lo stesso copione con personaggi diversi e sfondi appena modificati»: Fejtö 1971, 583.