La sterminata messe di ricerche e approfondimenti dedicate ai temi delle identità a confronto, dei sentimenti di appartenenza, del revival etnico o nazionalistico, hanno generalmente indicato, a partire almeno dall'ultimo ventennio, un variegato percorso metodologico comparativo e interdisciplinare dai tratti innovativi e fecondi. A questo genere di lavori può ricondursi la raccolta curata da Isenburg e Pasta: invero un volume che, almeno rispetto alle attese suscitate dall'accattivante titolazione, solo a fatica offre organiche prospettive di studio, proponendo piuttosto una pluralità di temi ed approcci scarsamente correlati.
Un impercettibile filo rosso è da ricondurre non tanto all'analisi o rappresentazione delle immagini d'Europa o d'Italia, quanto invece al tema generale dei confini o meglio delle frontiere, intese nella proteiforme e cangiante proiezione identitaria: da un lato le frontiere politico-diplomatiche e geografiche, dall'altro le frontiere religiose e culturali.
Il concetto di "confine" - giuridicamente inteso come demarcazione della sovranità - si afferma progressivamente entro i caratteri di definizione dello Stato modernamente inteso, come attesta Paolo Marchetti, nella sua interessante rassegna dedicata a I giuristi e i confini: dalla elaborazione dei canonisti in età medievale collegata al principio del privilegium, al progressivo indebolimento dei legami vassallatici che produce la prima delimitazione dei confini, sino all'organizzazione amministrativa e ripartizione territoriale della Chiesa di Roma che avrebbe poi ispirato le origini e le evoluzioni dello Stato moderno. Per offrire una visione pragmatica, svincolata da automatici rinvii all'epifania e affermazione dello Stato moderno, l'autore segnala l'atteggiamento dei giuristi che legittimano gli assestamenti territoriali sedimentati e riconosciuti nel tempo.
Ne deriva un'interessante valutazione generale: «sono più le abitudini, i comportamenti consolidati, le occupazioni quotidiane, gli spostamenti a determinare il tracciato delle linee di confine che non l'atto d'imperio del princeps» (p.19). Una premessa che fa da sfondo a numerosi ed eterogenei contributi in cui il tema della mobilità e fluttuazione delle frontiere viene declinato in contesti e periodi affatto difformi.
La determinazione dei confini orientali d'Europa richiama il fondamentale contributo di Federico Chabod sui temi della coscienza europea e il suo lascito metodologico relativo alle parabole identitarie nazionali: la storia della cultura e degli intellettuali, la letteratura e la poesia, le immagini e l'autocoscienza, rappresentano elementi maggiormente rilevanti rispetto alle tradizionali visioni politiche, storiche o diplomatiche. Su questa scia si attesta il saggio di Giulia Cecere (L'«Oriente d'Europa»: un'idea in movimento - sec. XVIII) che, seguendo l'evoluzione della cartografia e le spedizioni scientifico-geografiche, indica le tappe della percezione della Russia nella coscienza europea e le barriere orientali del continente dall'età di Pietro I al primo Ottocento. Una tematica che si sovrappone all'analisi innovativa di Sergueï Karp sulle relazioni culturali tra autocrazia russa e Lumi francesi: a partire dall'interpretazione semiotica si aprono interessanti prospettive per l'intera storia delle frontiere culturali d'Europa, le modalità e i caratteri della cosiddetta transplantation, il profilo dei protagonisti (Diderot, Voltaire, Caterina II) e soprattutto degli intermediari culturali (Grimm prima, Romme poi). Anche grazie a questi fenomeni la Russia entra a pieno titolo, nel Settecento, nel concerto europeo, riconosciuta da quella scienza dello Stato tedesca impegnata nell'analisi comparativa dei sistemi giuridici nazionali entro la primordiale definizione dello ius publicum europaeum, retaggio delle elaborazioni di Grotius e Pufendorf. Una storia che non è solo di incontri, influenze e contaminazioni ma è soprattutto un confronto serrato di culture, religioni, Stati e istituzioni che spesso sfocia in violenti conflitti.
Epitome di questa complessa interrelazione sono la frontiera mobile del Mediterraneo e i rispettivi avamposti, come raccontano le vicende del Vicereame di Maiorca nel cuore dell'età moderna. Il contributo di Natividad Planas (Conflits de compétences aux frontières. Le contrôle de la circulation des hommes et marchandises dans le Royaume de Majorque au XVII siècle) ci consegna un quadro di conflitti di competenza tra autorità civili (locali e centrali) e ancor più tra queste e l'autorità inquisitoriale sugli assi intersecanti del commercio, della cultura e della fede. Uno scontro che l'Europa trasferisce nella sua proiezione coloniale entro le vicende territoriali e culturali del Nuovo Mondo, in un lascito odioso e problematico: dalle complesse ma ricomposte questioni della frontiera tra Brasile e Guiana britannica - soggette all'arbitrato di Vittorio Emanuele III di Savoia e ricostruite da Isenburg (Separare e unire. Appunti sulle frontiere brasiliane fra Otto e Novecento: il caso della Guiana britannica) - ai problemi culturali, sociali e umani della schiavitù che hanno segnato la storia plurisecolare tra le due sponde dell'Atlantico, oggetto dell'analisi interdisciplinare di Jürgen Osterhammel (Atlantic slavery: a problem of cross-boundary history).