Perché un libro su Camillo Pellizzi oggi?
Il significato della biografia intellettuale di Camillo Pellizzi scritta da Mariuccia Salvati è già espresso nel sottotitolo del volume: Un intellettuale nell’Europa del Novecento. La scelta dell’approccio biografico non ha come finalità tanto la ricostruzione di una coerenza interna, di pensiero, per quanto il filo rosso socio-politologico sia quello della ricerca sulle élites, ma di collocare le scelte intellettuali di Camillo Pellizzi «dentro la cultura politica europea» (p. 10). Nasce, in altri termini, dal «bisogno di interpretare il ’900 italiano in una prospettiva europea». La convinzione di Mariuccia Salvati è che la storia individuale di Camillo Pellizzi si inserisca in una fase specifica della storia del Novecento, contribuendo ad illuminarla. «Una biografia – scrive Salvati nell’introduzione – è l’incontro tra la vita e la storia» (p. 12). Significativamente, un paragrafo è intitolato Una vita, quasi due, in quanto la vita di Pellizzi è divisa in due momenti che segnano altrettanti periodi storici fondamentali: i decenni che seguono la Prima e quelli che seguono la Seconda guerra mondiale. Ciò che viene colto da Salvati è la capacità di autoriflessione e di analisi storico-sociologica di due crisi politiche, economiche e culturali che, per la loro ampiezza, oltrepassano la vicenda nazionale.
L’aspetto che trovo più originale e affascinante di questo volume su Pellizzi, autore già trattato da Danilo Breschi e Gisella Longo (2003), principalmente in chiave di ricostruzione del suo pensiero, è quello di mostrare, attraverso un’analisi molto approfondita delle fonti, un percorso intellettuale che connette la competenza alla convinzione, l’impegno nella politica nazionale e l’orizzonte europeo di un personaggio che aveva completamente aderito al fascismo. Quest’ultimo è inteso come forza politica – piuttosto che come regime – più idonea a realizzare un cambiamento radicale della classe dirigente italiana e delle istituzioni destinate a formarla, in primis la scuola. Risulta quindi particolarmente rilevante la ricostruzione dei rapporti stretti con l’Inghilterra, soprattutto per quanto riguarda l’innesto compiuto da Pellizzi del corporativismo fascista sul socialismo, in cui risulta, tra gli altri, molto importante l’apporto di Cole e del suo socialismo libertario e anarchico.
Mi soffermerò, da sociologa, su due aspetti rilevanti di questo lavoro che colmano una lacuna nella cultura sociologica attuale: il ruolo di Pellizzi come intellettuale e la sua “svolta” sociologica.
Un intellettuale militante
Il quadro in cui si colloca il giovane Pellizzi è quello di un rapporto inedito tra ceti intellettuali e fascismo, in cui emerge la centralità dell’intellettuale-politico. Dal primo conflitto mondiale era uscita una generazione disillusa, sfiduciata della classe politica, desiderosa di cambiamenti radicali. In un libro del 1951 il sociologo Rudolf Heberle aveva parlato dell’emergere di una vera “generazione sociale” che, sulla scorta della nota definizione di Karl Mannheim, è composta da persone che hanno più o meno la stessa età e che hanno condiviso alcune esperienze politicamente e storicamente rilevanti. Una generazione di questo tipo, con una specifica identità, è quella che aveva tra i 18 e i 33 anni quando si verificò la catastrofe del 1918. L’esperienza della guerra fu decisiva per la formazione della loro cultura politica. Qualunque fosse il partito a cui scelsero di appartenere, adottarono una concezione della politica come lotta e come conflitto, fondamentalmente diversa dalla concezione in termini di mediazione e di compromesso tipica della generazione d’anteguerra.
Una comune koinè che rigettava il liberalismo e il parlamentarismo, antiborghese e innovatrice, caratterizzava questa generazione a livello europeo. Ma se in Francia, Germania e Inghilterra queste istanze radicali restarono in mano ai partiti socialisti, in Italia trovarono un canale di massa nel fascismo. Un’idea precisa di che cosa potesse significare questo fenomeno ce la fornisce l’autrice, definendo Pellizzi un «fascista “libertario”» (206). La diffusa critica all’economia di mercato sfocia nella proposta del corporativismo fascista (prospettiva che aveva caratterizzato universi ideologici diversi e opposti), che Pellizzi vede come mezzo di formazione di una nuova élite competente. Queste convinzioni animano il Pellizzi giornalista, saggista, che diventa intellettuale politico, militante, nel senso soprattutto di un ruolo portatore di valori morali. Esso riveste quindi una funzione pedagogica intesa a costruire un ethos comune, fortemente carente in Italia, che mira a educare le masse, soprattutto attraverso la scuola, rimpiazzando la cultura egemone dell’Italia liberale.
La sua disillusione rispetto alla realizzazione del corporativismo del regime totalitario si esprimerà in un’opera del 1949, Una rivoluzione mancata, una sorta di auto-riflessione critica delle vicende culturali e politiche del Ventennio, ripubblicata dal Mulino nel 2009, con un’introduzione di Mariuccia Salvati. Per Pellizzi il fascismo italiano fu, dunque, nel complesso «una rivoluzione mancata», nel senso che non riuscì a risolvere il problema, pur affrontato con molte velleità, della conciliazione fra le esigenze del lavoro e quelle del capitale. E, tanto meno, riuscì a realizzare la «rivoluzione manageriale» descritta dall’americano James Burnham. Piuttosto che sul fascismo come sistema politico, Pellizzi si sofferma sull’ordinamento corporativo, immaginato come alternativa alla strutturazione della società politica in senso liberale e come soluzione storica ai problemi socio-politici dell’Italia dell’immediato dopoguerra.
Nelle sue “due vite”, Pellizzi rappresenta, però, almeno tre tipi di intellettuale, quattro se consideriamo anche l’intellettuale ideologo come distinto da quello militante: l’intellettuale militante, l’intellettuale funzionario – organizzatore di cultura e dirigente istituzionale (come quando ottenne la presidenza dell’Istituto nazionale di cultura fascista) – e l’intellettuale distaccato, “studioso puro”, che non è mai passato all’antifascismo. Dopo gli anni dell’epurazione, l’ottenimento di una cattedra universitaria di Sociologia, la prima in Italia, e l’ampiezza degli studi non hanno fatto dimenticare agli ambienti universitari e intellettuali la sua adesione mai rinnegata al fascismo. Forse anche per questo Pellizzi resta un autore trattato marginalmente, quasi misconosciuto da parte della sociologia italiana, pur essendo il fondatore di una delle più importanti riviste di sociologia, la Rassegna Italiana di Sociologia. Resta, inoltre, per alcuni storici autorevoli soprattutto un “ideologo” del fascismo, «uno dei più interessanti» scrive Emilio Gentile, in quanto ne afferma alcuni caratteri essenziali come il primato dell’azione politica e lo Stato come «lo strumento sociale per la realizzazione di un mito» (Gentile 2005, p. 182).
La svolta sociologica
Nel libro di Salvati si dà il giusto risalto allo studioso della società, delle dinamiche sociali di formazione dell’élite politica. Si parla di “svolta” sociologica di Camillo Pellizzi: da intellettuale fascista militante a studioso “puro”, da interessi filosofici e letterari a quelli per la sociologia. Si tratta di una svolta, se si guarda alla militanza e agli aspetti più disciplinari dei suoi studi. Tuttavia, si osserva anche una continuità col periodo tra le due guerre nell’approccio sociale con cui già prima affrontava gli aspetti istituzionali e politici del regime fascista. Sociologica è, ad esempio, la prospettiva con cui guarda al punto di riferimento centrale della sua analisi, ossia al dibattito che si svolse, soprattutto all’inizio degli anni Trenta, attorno al concetto di corporativismo e, in modo particolare, attorno all’idea della “corporazione proprietaria” lanciata dal filosofo Ugo Spirito nel 1932. Il corporativismo di Pellizzi non è propriamente quello di Ugo Spirito, anche se Spirito rappresenta un punto di partenza, perché per lui sarebbe stato necessario conciliare il corporativismo con una vena anarco-sindacalista che avrebbe evitato, o comunque bilanciato, il rischio di uno sprofondamento nel dirigismo e nello statalismo totali.
Lo stato corporativo svolse, d’altro canto, una “funzione surrogatoria” nei confronti della sociologia, in quanto da un lato si contrapponeva all’individualismo dell’economia classica, dall’altro offriva una visione della società che, in opposizione al marxismo, non era divisa in classi, ma articolata in corporazioni. A conferma dell’interesse dei sostenitori del corporativismo per la sociologia sta il fatto che fu proprio Ugo Spirito ad accogliere nel 1931-32, in una rivista da lui diretta insieme a Luigi Volpicelli, Nuovi studi di diritto, economia e politica, il saggio di Max Weber, uno dei padri fondatori della sociologia, su L’etica protestante lo spirito del capitalismo (Rossi 2003, 102).
Stupisce in realtà non solo la scarsa attenzione della storia della sociologia per questo autore, ma anche la scarsa presenza di studi sulla cultura sociologica in generale durante il fascismo. Si parla di completa interruzione dello sviluppo della sociologia da parte del fascismo, di un suo inabissamento e riemersione solo dopo il 1945 (Barbano 1998). Una interpretazione più articolata si trova in uno dei pochi saggi sociologici dedicati ai rapporti tra sociologia italiana e fascismo, il saggio di Marta Losito e Sandro Segre (1992), in cui si tende a sfatare la credenza diffusa che la “vera” sociologia sia per natura oppositiva e quindi costitutivamente antagonista al fascismo. Numerosi intellettuali affermati, in realtà, hanno continuato a occuparsi di sociologia durante il fascismo e a sentirne il fascino, anche se solo Roberto Michels e Vilfredo Pareto si definivano sociologi. Dai primi anni Venti alla metà degli anni Quaranta la sociologia, in realtà, guadagnò un graduale riconoscimento ufficiale, anche se la sua crescita teorica fu in parte ostacolata dalla politica culturale del regime fascista e solo dopo la Seconda guerra mondiale avvenne il consolidamento e il pieno riconoscimento della disciplina. Anche la tesi secondo cui sia stata decisiva per la sociologia la condanna da parte dell’idealismo crociano – che l’aveva definita l’“inferma scienza” – non è del tutto convincente. Un fattore importante fu lo sviluppo ineguale e intermittente di una cultura sociale positivista dalla metà del XIX secolo in poi, che non fu in grado di dare basi teoriche serie alla disciplina come avvenne invece in altri paesi, la Francia ad esempio. La sociologia quindi continuò a svilupparsi durante il fascismo, anche se in maniera debole e carente, nonostante l’opposizione di Croce e nonostante la convinzione largamente presente, tra i sociologi del Secondo dopoguerra, che la sociologia fosse intrinsecamente critica del fascismo. L’esperienza intellettuale di Corrado Gini (e della sua scuola), che spaziò dalla statistica alla demografia alla sociologia, mostra il contrario. Egli è l’esempio di uno studioso serio che faceva parte dell’élite culturale del regime e che, oltre ad aver costruito il noto coefficiente che misura la disuguaglianza, è stato il portavoce dell’eugenetica, disciplina accolta con entusiasmo dal fascismo e dal nazismo. Tra gli intellettuali che svilupparono l’approccio sociologico durante il fascismo uno dei nomi più importanti è quello di Gaetano Mosca. Questi, avverso al fascismo dopo il delitto Matteotti, considerato uno tra i maggiori scienziati politici, nel suo programma scientifico intreccia l’analisi istituzionale e procedurale con la considerazione sociologica dei gruppi e delle dinamiche sociali che presiedono alla composizione e al ricambio della classe politica. Si pensi, inoltre, a Vilfredo Pareto (morto però troppo presto nel 1923), e naturalmente a Roberto Michels.
Resta vero il fatto che solo dagli anni Cinquanta alla sociologia viene riconosciuto lo status scientifico. Si deve alla filosofia, ormai critica verso l’idealismo, un nuovo inizio. Nel 1951 il filosofo Nicola Abbagnano e il sociologo Franco Ferrarotti fondano i Quaderni di sociologia. Nel 1957 viene costituita L’Associazione italiana di scienze sociali (presidente Renato Treves). Nel 1960 è fondata da Camillo Pellizzi la Rassegna Italiana di Sociologia. Ma già prima Pellizzi, come sostiene Salvati, affronta in Una rivoluzione mancata (1949) temi molto dibattuti a livello internazionale nelle scienze sociali, sulla scia dell’influente opera di James Burhnam, The Managerial Revolution (1941), tradotto in italiano proprio da Camillo Pellizzi e punto di riferimento della sua opera. Giustamente l’autrice ci ricorda, nella sua introduzione a Una rivoluzione mancata, che in Italia ci fu un rigetto del libro di Burnham che suona come una «condanna di un dibattito sui problemi delle società industriali che si era avviato all’interno del progetto istituzionale del corporativismo fascista» (Salvati 2009, pp. 17-18).
Forse tale rigetto rappresenta una prima ragione di una così scarsa attenzione al Pellizzi sociologo. La narrazione più comune è che la ripresa della sociologia si debba soprattutto a studiosi con un background antifascista, o almeno intellettualmente estranei all’esperienza del fascismo e quindi perfettamente in linea con il grande sforzo di ricostruzione dell’Italia e delle sue istituzioni nel dopoguerra. Anche se ciò è solo in parte vero, questa narrazione ha marginalizzato l’apporto di Pellizzi. La seconda ragione riguarda il contenuto dei suoi scritti più direttamente sociologici. Mentre l’attenzione della sociologia era rivolta soprattutto alla sociologia economica e all’organizzazione scientifica del lavoro, Pellizzi aveva prodotto studi pionieristici nell’ambito della sociologia della cultura e della comunicazione. Si pensi ai suoi studi innovativi su Simbolo e società (1950) e Socialità simbolo semplice e mito (1954), raccolti poi insieme ad altri in Rito e linguaggio (Pellizzi 1964). Gli interessi sociologici e semiologici di Pellizzi, pur essendo anticipatori di importanti indirizzi sociologici, come l’interazionismo simbolico americano, in quel momento apparivano marginali e di scarsa rilevanza.
Concludendo, resto anch’io convinta che il rapporto tra sociologia e fascismo andrebbe ripreso e studiato in maniera approfondita. La figura di Camillo Pellizzi è stata indubbiamente rivalutata da questo imponente volume di Mariuccia Salvati. Devo ammettere che anch’io avevo una conoscenza superficiale di Pellizzi, pur facendo parte della rivista da lui fondata. Questo libro insegna molto su un autore che ha cercato caparbiamente, e in maniera ancora oggi attuale, di ricostruire le ragioni della crisi della politica che accompagna l’ascesa del fascismo (che è crisi dell’intero sistema politico liberale e borghese), trovando nell’alternativa corporativa la soluzione storica a questa crisi, e nell’essere essa stata un esperimento sociale incompiuto le ragioni del suo fallimento.
Bibliografia
- Barbano, Filippo. 1998. La sociologia in Italia. Storia, temi e problemi. 1945-1960. Roma: Carocci.
- Breschi, Danilo, e Gisella Longo. 2003. Camillo Pellizzi, La ricerca delle élites tra politica e sociologia. Soveria Mannelli: Rubbettino.
- Burnham, James. 1941. The Managerial Revolution. New York: Jonh Day.
- Gentile, Emilio. 2005. Fascismo. Storia e interpretazione. Roma-Bari: Laterza.
- Heberle, Rudolf. 1951. Social Movements: An Introduction to Political Sociology. New York: Appleton Century Crofts.
- Losito, Marta, e Sandro Segre. 1992. “Ambiguos Influences. Italian Sociology and the Fascist Regime.” In Sociology responds to Fascism, a cura di Dirk Kasler e Stephen Turner, 42-87. London-New York: Routledge.
- Pellizzi, Camillo. 1949. Una rivoluzione mancata. Il primo libro che studia il fascismo nei suoi aspetti positivi e negativi, senza insulti e senza retorica. Milano: Longanesi.
- –– 1964. Rito e linguaggio. Roma: Armando.
- Rossi, Pietro. 2003. “Il ritorno alla sociologia. Un confronto tra sociologia italiana e sociologia tedesca nel dopoguerra.” Quaderni di sociologia 33: 101-20. https://doi.org/10.4000/qds.1169.
- Salvati, Mariuccia. 2009. “Introduzione.” In Una rivoluzione mancata, di Camillo Pellizzi, a cura di Mariuccia Salvati, 7-46. Bologna: Il Mulino.