Un dibattito sulle ricerche di Ildar Garipzanov e Antonella Ghignoli
Garipzanov, Ildar:
——— 2008. The Symbolic Language of Authority in the Carolingian World (c. 751-877). Leiden-Boston: Brill.
——— 2015. “The Rise of Graphicacy in Late Antiquity and the Early Middle Ages.” Viator 46 (2): 1-21. https://doi.org/10.1484/J.VIATOR.5.105359.
——— 2018. Graphic Signs of Authority in Late Antiquity and the Early Middle Ages (300-900). Oxford: Oxford University Press.
———, Goodson, Caroline, e Henry Maguire, a cura di. 2017. Graphic Signs of Identity, Faith, and Power in Late Antiquity and Early Middle Ages. Turnhout: Brepols.
Ghignoli, Antonella.
——— 2016. “Writing Texts, Drawing Signs. On Some Non-alphabetical Signs in Charters of the Early Medieval West.” Archiv für Diplomatik 62: 11-40. https://www.degruyter.com/view/journals/afd/62/1/article-p11.xml.
——— 2019. “The NOTAE Project: a Research between East and West, Late Antiquity and Early Middle Ages.” Comparative Oriental Manuscript Studies Bulletin 5 (1): 27-41. https://www.aai.uni-hamburg.de/en/comst/pdf/bulletin5-1/29-42.pdf.
———, e François Bougard. 2011. “Elementi romani nei documenti longobardi?” In L’héritage byzantin en Italie (VIIIe-XIIe siècle). I. La fabrique documentaire, a cura di Jean-Marie Martin, Annick Peters-Custot e Vivien Prigent, 241-85. Roma: Ècole Française de Rome (CEFR 449).
ERC project: NOTAE: NOT A writtEn word but graphic symbols. An evidence-based reconstruction of another written world in pragmatic literacy from Late Antiquity to early medieval Europe, P.I. A. Ghignoli (“Sapienza” Università di Roma): http://www.notae-project.eu.
Quando uno studioso o anche un semplice curioso osserva attentamente gli oggetti che il medioevo ci ha tramandati, molto spesso individua strani segni sulle loro superfici: una croce con una piccola ansa in alto sul muro di una chiesa, un rettangolo con all’interno lettere sovrapposte sopra un anello d’oro, una sigla composta dalla sequenza greca ΧΜΓ in calce a un documento notarile e altro ancora. Fino a ieri tanto lo studioso quanto il curioso avrebbero indugiato un poco nell’interpretarli, e con ogni probabilità avrebbero abbandonato il proposito pensando a quei segni come a decorazioni estemporanee di scrittori o scalpellini medievali distratti. Oppure, con maggiore cautela, come espressioni inaccessibili della religiosità dell’epoca. Oggi invece sono entrambi fortunati, perché grazie alle nuove ricerche di Ildar Garipzanov e Antonella Ghignoli questi segni sono divenuti un oggetto d’indagine storiografica; sono diventati cioè un fenomeno storico che possiamo ricostruire, osservare e comprendere da molteplici prospettive: religiose e politiche, ma anche sociali e culturali.
Cosa sono allora quei segni all’apparenza indecifrabili? Per dirla con Garipzanov e Ghignoli, dobbiamo anzitutto sottolineare che essi sono dispositivi visuali che spesso accompagnano scritture e alle volte fanno uso anch’essi di segni alfabetici, ma che non rientrano perfettamente nell’ambito della cultura scritta così come la conosciamo. Sono invece espressioni dell’attività umana che non capiamo se, per interpretarle, adottiamo aprioristicamente uno schema mentale “alfabetocentrico”, tipico delle società moderne. Ce lo sconsiglia anche un osservatore tardoantico del fenomeno, il senatore Simmaco, vissuto nel IV secolo. Sopra il suo anello c’era una sovrapposizione di lettere che racchiudevano il suo nome, ma quella sovrapposizione non era stata ideata per essere “letta”, scrive il senatore; doveva essere “compresa”: magis intellegi quam legi promptum est [1].
Il processo mentale che porta alla comprensione di questi segni è qualcosa di diverso rispetto a quello sotteso alla lettura. Se lo osserviamo con occhi scientifici moderni, questo tipo di attitudine non rientra totalmente nel campo dell’alfabetismo o della literacy, ma piuttosto sconfina in quello della graphicacy: una forma di comunicazione che si basa sulla capacità della percezione umana di interpretare segni e simboli visuali racchiusi in forme semplici – croce, quadrato, cerchio, rettangolo – come veicoli di concetti e pensieri astratti [2].
Che cosa comunicano esattamente questi segni? I due studiosi lo spiegano con cura, ciascuno da una prospettiva differente. Soffermandomi sui loro lavori, nelle pagine che seguono cercherò di evidenziare al meglio le novità metodologiche che essi apportano allo studio e alla comprensione della cultura del Mediterraneo tardoantico e altomedievale.
Ildar Garipzanov e la graphicacy tardoantica e altomedievale
Forte di una formazione complessa e diversificata acquisita tra le università di Kazan, Budapest, poi New York e Bergen, Ildar Garipzanov, storico medievista, pubblica nel 2008 una corposa monografia sul “linguaggio simbolico di autorità” nel mondo carolingio (Garipzanov 2008). Si tratta di una storia politica dell’Europa carolingia costruita non sulla base di fonti, per così dire, “classiche” della storia politica – testi narrativi e capitolari – bensì su materiali fino a questo momento non del tutto valorizzati in tal senso: monete, carte d’archivio, manoscritti liturgici e fonti iconografiche, insomma oggetti che veicolano segni, immagini e formule parte di un più ampio linguaggio simbolico di autorità. Valorizzare fonti del genere significa cambiare anche la prospettiva della storia politica: non si parla più soltanto dei progetti e delle basi di potere dei sovrani, ma anche del più ampio rapporto tra costoro e i diversi gruppi governati, questi ultimi trattati come attori specifici e ciascuno con un proprio “orizzonte di aspettative” determinato dal contesto culturale, sociale, religioso e politico in cui opera. Non è nelle parole, bensì negli oggetti che chi governa imprime i propri messaggi politici, ed è sempre negli oggetti che le persone percepiscono quei messaggi.
Il focus dell’analisi si sposta così dal potere politico all’autorità, alla capacità cioè che quell’attore possiede di legittimarsi agli occhi degli altri, e dunque ogni azione politica viene osservata come negoziazione tra il governante e il governato. Così impostata, la ricerca di Garipzanov riesce a ricostruire un intero sistema di comunicazione politica e ad assegnare a ciascuna delle sue fonti una audience specifica: i manoscritti liturgici si rivolgono al clero; i documenti pubblici al clero e agli aristocratici; le monete a tutti gli attori economici, dunque anche agli strati più bassi della società. I messaggi veicolati da ciascun oggetto sono senza dubbio influenzati dai gruppi cui essi sono rivolti, con diversificazioni anche geografiche: l’audience italiana, influenzata da cultura e pratiche politiche longobarde e bizantine, interagisce in maniera differente rispetto a quella attiva a nord delle Alpi.
Ruolo chiave fra i simboli di autorità adoperati dai Carolingi hanno il segno della croce e i monogrammi. Avvalendosi di una solida competenza numismatica, di uno spoglio delle Chartae Latinae Antiquiores (Bruckner e Marichal 1954-1999) e, soprattutto, di una buona consapevolezza della nuova metodologia “semiotica” della diplomatica inaugurata da Peter Rück e dalla sua scuola (Rück 1996; Worm 2006), lo studioso riesce a ricostruire le origini tardoantiche dell’uso politico di questi segni, partendo dalla tradizione imperiale romana per arrivare, attraverso i regni romanobarbarici, fino al periodo carolingio e alla formazione del monogramma cruciforme KAROLUS e dei suoi derivati. Il monogramma KAROLUS non è un oggetto da catalogo ai confini della diplomatica, tutt’altro! Accostabile ai signa identificativi di scrittori e sottoscrittori in documenti d’archivio oppure a quelli di sovrano e monetarii in monete – decisamente efficace l’immagine della moneta come «tiny metal “charter” signed by a moneyer» (Garipzanov 2008, 164) – esso rappresenta l’identità politica che i Franchi vogliono promuovere in un sistema di relazioni mediterranee, sistema in cui i pontefici di Roma e gli imperatori bizantini sono attori importanti e l’Italia costituisce il principale laboratorio culturale di sperimentazione e negoziazione dei modelli che poi circoleranno nel continente europeo.
Benché nel libro del 2008 il monogramma KAROLUS non sia il centro esclusivo dell’analisi, la sua accurata ricostruzione storica tradisce già un forte interesse serbato dall’autore nei confronti di quel segno. E precisamente tale curiosità sembra aver portato Garipzanov a trovare, negli anni successivi, un framework teorico adatto a spostare l’analisi del monogramma, più in generale dei “segni grafici”, su un livello diverso, allo stesso tempo più ampio e più specifico. Come ha scritto di recente David D’Avray, il lavoro dello storico somiglia di più a quello di un’agenzia di appuntamenti (dating agency) che non a quello di uno scienziato da laboratorio, dato che «abbina problemi empirci alle idee teoriche con cui essi sono più compatibili» (D’Avray 2017, 211). Garipzanov ha fatto esattamente questo: ha capito che l’interpretazione storica di segni di autorità come il monogramma KAROLUS avrebbe dovuto fare i conti più da vicino con quei meccanismi profondi della mente umana che permettono anche al più ordinario dei contadini altomedievali di identificare una moneta come espressione dell’autorità di un sovrano franco. Ed ecco l’intuizione brillante: far dialogare le sue riflessioni sui linguaggi simbolici con le ricerche sociologiche e psicologiche sulla graphicacy. Inaugurate negli anni Sessanta del Novecento dai geografi inglesi William Balchin e Alice Coleman, quelle ricerche si sono concentrate essenzialmente sugli usi di mappe e grafici nel mondo moderno e contemporaneo, con uno sguardo pratico finalizzato perlopiù ad articolare programmi scolastici intorno all’acquisizione di determinate abilità (skills) quali la literacy e la numeracy [3].
Il risultato di questo dialogo è di aver fornito profondità storica alla graphicacy, in altre parole di aver dimostrato che questa forma di comunicazione non è esclusiva del mondo odierno fatto di grafici, carte, mappe concettuali e brand pubblicitari. Si era infatti già diffusa capillarmente nel Mediterraneo tardoantico e altomedievale come modalità di espressione religiosa e politica attraverso l’uso massivo di segni a forma di croce e dispositivi grafici composti dalla sovrapposizione di tracce alfabetiche, appunto i monogrammi. È così che Garipzanov comincia, dal 2015, a pubblicare una serie di lavori incentrati su questo tema. Anzitutto, un articolo in cui per la prima volta riesce a dimostrare, attraverso una selezione ragionata di fonti tardoantiche e altomedievali – il cosiddetto Cronografo del 354, l’encolpion dell’imperatrice Maria moglie di Onorio, i diagrammi cosmografici del Bruce Codex e di alcuni manoscritti altomedievali, le Mappae Mundi – come in quel periodo non solo leader politici e grandi aristocratici ma anche gruppi sociali e religiosi definiti facessero largo uso, per esprimere la propria identità, di dispositivi grafici la cui interpretazione risiedeva nei medesimi procedimenti mentali della graphicacy (Garipzanov 2015). Due anni dopo, nel 2017, cura insieme a Caroline Goodson, storica e archeologa medievista, e a Henry Maguire, storico dell’arte bizantina, un volume collettaneo sui “Segni grafici di identità, fede e potere nella tarda antichità e nell’alto medioevo”. Attraverso il coinvolgimento di ben dodici studiosi fra storici, storici dell’arte e archeologi, il volume amplia la prospettiva non solo verso un arco cronologico molto più largo, i secoli II-XI [4], ma anche verso una casistica di fonti decisamente più articolata: oltre che su manoscritti e monete, l’analisi viene qui estesa agli spazi monumentali, alle infrastrutture e a molti altri oggetti che rientrano nel campo della “cultura materiale”, abbigliamento compreso (Garipzanov, Goodson e Maguire 2017). Ciò che ne emerge è un quadro di pratiche comunicative ben più complesso di come potremmo conoscerlo da prospettive tradizionali singole, per esempio quella testuale delle fonti scritte o quella visuale delle fonti iconografiche.
Ma il vero e proprio punto di arrivo di questo denso percorso è costituito dal volume che Garipzanov pubblica come autore nel 2018 (Garipzanov 2018). Apparentemente, è un prequel allo studio del 2008, ma si tratta in realtà di una ricerca molto più vasta: la prospettiva geografica adottata è l’intero Mediterraneo tra il IV e il IX secolo (con un restringimento di focus all’Europa per la parte finale del periodo), mentre l’oggetto specifico riguarda un nutrito corpus di segni grafici adoperati dai principali attori politici del Mediterraneo per esprimere – o meglio per imprimere – la propria identità politica, religiosa, sociale e culturale all’interno di più ampie reti di relazioni. Poiché sarebbe anacronistico scindere in questo periodo la sfera politica da quella religiosa, a buon diritto l’autore include nel suo studio non solo imperatori, alti ufficiali, aristocratici e re, ma anche vescovi, abati e altri ecclesiastici. Per quanto riguarda i segni grafici, si tratta per la precisione di monogrammi, cristogrammi e segni di croce, includendo in questo caso anche quei caratteri grafici considerati da un certo tipo di storiografia come “magici” ma che invece rientrano perfettamente nei medesimi orizzonti culturali dei primi. Tutti questi segni grafici si trovano iscritti, nel periodo e nell’area considerati, in una miriade di oggetti che abbracciano, come nel libro del 2017, la quasi totalità delle culture materiale e manoscritta: infrastrutture, monumenti, chiese, oggetti di lusso, liturgici e domestici, anelli, monete, codici e documenti. Ma Garipzanov non rinuncia qui a includere anche una nutrita serie di fonti letterarie che restituiscono resoconti contemporanei alle pratiche di graphicacy dell’epoca: Agostino, Simmaco, Paolo Silenziario, Lattanzio e autori anonimi dell’Egitto tardoantico sono tutti consapevoli che un simbolo di croce incapsula molteplici significati, che un monogramma può esser compreso senza che si sappia leggere, che alcuni segni grafici hanno poteri apotropaici in ragione di una loro rispondenza con gli elementi cosmici.
Con questa impostazione l’autore arriva a tracciare, in tre grandi sezioni, una vera e propria storia politica, sociale e culturale dei segni grafici di autorità. La prima parte si occupa delle origini dei simboli cristiani, della loro appropriazione da parte delle autorità tardoromane e dello sviluppo del segno della croce come simbolo di autorità nella tarda antichità. Simboli tipici del cristianesimo tardoantico come il chi-rho (⳩) o il tau-rho (⳨) esistevano già nella cultura giudaica ed ellenistica, ma abbreviavano perlopiù parole greche d’uso quotidiano e amministrativo. L’attitudine mentale all’isopsefia – la possibilità di istituire corrispondenze tra lettere e valori numerici – tipica del mondo greco, fece sì che questi e altri segni simili entrassero, fra II e III secolo, nell’uso dei cristiani orientali come portatori di significati religiosi e apotropaici, secondo una pratica che ricorda molto da vicino quei “caratteri magici” chiamati χαρακτῆρες e tramandati nell’antichità sia da papiri egizi sia da lamine metalliche occidentali. Non ne fece un uso analogo anche Costantino, quando ordinò di apporre un segno simile al chi-rho sugli scudi dei suoi soldati per vincere le truppe di Massenzio a Ponte Milvio nel 312? Garipzanov si sofferma dettagliatamente sull’episodio, dimostrando però come i suoi narratori, Lattanzio ed Eusebio, che scrissero a diversi anni di distanza dall’accaduto, non debbano esser visti come semplici spettatori, quanto piuttosto come protagonisti della costruzione del mito costantiniano e della progressiva appropriazione imperiale di quei simboli pregni di significati [5]. E in effetti proprio dal secondo quarto del IV secolo si assiste a una progressiva diffusione di tali simboli su ogni medium comunicativo dell’autorità imperiale: prima monete, sarcofagi ed epigrafi, poi anelli con sigilli, pesi, misure, armature e mosaici. Per quanto riguarda la croce, simboli cruciformi con funzione religiosa e apotropaica esistevano già nelle culture antiche: si pensi all’ankh egizio o al segno alfabetico taw della cultura giudaica. Proprio dalla cultura ebraica i significati allegorici del segno taw vennero ereditati dai cristiani, i quali, riuscendo a imprimerli su un simbolo di condanna romano, la croce per l’appunto, crearono a loro volta un nuovo segno grafico. Già diffuso fra i cristiani del III secolo, questo segno venne associato nel IV alla madre dell’imperatore Costantino, Elena, e nel V divenne un simbolo dell’imperatore cristiano trionfante. È qui evidente che il processo di cristianizzazione dell’impero si accompagnò alla sua progressiva appropriazione dei segni grafici cristiani come segni comunicativi di autorità.
La seconda parte tratta dei monogrammi nella cultura tardoantica. È questa l’epoca in cui esplose l’uso dei monogrammi, cioè di quei segni grafici che sono costruiti inscrivendo lettere alfabetiche all’interno di determinate forme geometriche. Monogrammi esistevano già nel mondo ellenistico, dove funzionavano perlopiù come marchi di fabbrica di prodotti a larga scala supervisionati dalle autorità regie. Sempre con questa funzione passarono agli imperatori romani del I e del II secolo, mentre nel III e nel IV, per influsso delle nuove idee neoplatoniche e delle pratiche apotropaiche dei χαρακτῆρες, assunsero nuove funzioni di dispositivi protettivi nei confronti di forze avversarie, di strumenti di intercessione verso la sfera divina e anche di segni identitari di cerchie e comunità più o meno ristrette. È con una di queste funzioni che li troviamo in contesti nuovi, monumentali come le infrastrutture circensi – dove una fazione guardava all’altra – e l’epigrafia funeraria cristiana, o intellettuali come il manoscritto del cosiddetto Cronografo del 354. Gli imperatori, ormai cristiani, idearono propri monogrammi all’inizio del V secolo, facendoli apporre sulla monetazione e sulla produzione di argenti, e da lì la pratica si diffuse capillarmente fra le élites fino a diventare un elemento essenziale della παιδεία aristocratica dei secoli V, VI e VII. Per la distinzione del proprio status, le élites tardoantiche facevano sfoggio di monogrammi personali su ogni tipo di oggetto: non solo dittici d’avorio e anelli con sigilli di consoli e alti ufficiali, ma addirittura pezzi d’argenteria, come raffinati cucchiai decorati con esametri greci e latini in grado di mescolare canone letterario e battute mordaci. Dal VI secolo, poi, in un contesto di forte competitività tra dinastie alla ricerca di legittimità, diversi membri delle famiglie imperiali marchiano la costruzione o ricostruzione di chiese di Costantinopoli con monogrammi personali scolpiti nel marmo: è il caso di Anicia Iuliana (506-527) per San Polyeuktos e di Giustiniano e Teodora per San Sergio e Bacco (527-532) e Santa Sofia (532-537). Poco dopo, quando i vescovi cominciano a ereditare le funzioni politiche delle strutture romane tradizionali, ecco che li vediamo imitare la pratica imperiale all’interno delle chiese cattedrali sparse in tutto il Mediterraneo. Oltre che in città italiane, conosciamo monogrammi vescovili in Epiro, in Dalmazia e in Asia Minore. Furono peraltro proprio i vescovi del VI secolo a imprimere i loro segni grafici su media visivi prima d’ora molto poco sfruttati in tal senso: i mosaici.
Spostando maggiormente il focus sull’Occidente, la terza parte si occupa degli sviluppi dei segni grafici di autorità nel periodo dei regni romanobarbarici e dell’impero carolingio. Qui l’autore dimostra con grande efficacia che la caduta dell’impero d’Occidente del 476 non provocò una rottura rispetto alle pratiche tardoantiche. I re ostrogoti, vandali, burgundi, merovingi e persino longobardi apposero monogrammi personali non solo sulle monete emesse a proprio nome oppure sui diplomi emanati per proprio conto – è questo il caso dei merovingi, gli unici per i quali conosciamo documenti originali – ma anche su anelli regi, fibbie e oggetti da guerra. Sembra che il fallimento della riconquista giustinianea abbia per certi versi stimolato quest’appropriazione dei segni grafici di autorità imperiale da parte dei re. Parallelamente, anche le autorità vescovili proseguirono nell’uso dei segni grafici, non solo nelle ex-capitali come Roma e Ravenna, ma anche in altri centri come Lucca, Luni o diverse città iberiche. Nei contesti vescovili ed ecclesiastici si sviluppano anche nuovi segni grafici, come i cosiddetti monogrammi “civici” o “municipali” in grado di esprimere sulle monete un’identità cittadina, oppure i dispositivi invocazionali con la formula ora pro me o le lettere monogrammatiche (es. IN Principio, QUoniam, Vere Dignum) che popolano le pagine più importanti di libri manoscritti, perlopiù biblici. Con l’epoca carolingia dei secoli VIII e IX si assiste poi alla diffusione di nuovi segni grafici di autorità, il più importante dei quali è il monogramma KAROLUS. Sembra di assistere in questo periodo a un vero e proprio “revival” dell’epoca costantiniana, ma con alcune differenze notevoli: la maggior parte dei segni grafici di autorità dei sovrani carolingi è sono più impressa negli oggetti della cultura materiale, bensì quasi esclusivamente nei documenti e nei manoscritti. Inoltre, la quasi totalità di essi non può più essere scissa da quello che è ormai diventato, nel IX secolo, il primo dei segni grafici di autorità: la croce. Queste differenze non sono altro se non il riflesso delle più ampie riconfigurazioni dei centri politici, culturali e religiosi nel corso dell’alto medioevo: se gli arbitri elegantiarum del secolo IV erano imperatori, consoli e alti ufficiali, quelli del IX sono invece vescovi, abati, chierici e scribi altamente istruiti ma operanti all’interno di una società non più profondamente alfabetizzata. Dopo aver proposto una sintesi efficace del suo studio nelle conclusioni del libro, l’autore fa infine notare che, nonostante il grande cambiamento, ancora nel IX secolo venivano ricopiati segni grafici molto simili agli antichi χαρακτῆρες magici. Quasi a dire che, in quel momento, esistevano ancora ambienti culturali che non erano stati totalmente disciplinati dai simboli dominanti del cristianesimo.
Antonella Ghignoli e la cultura scritta degli illetterati
Diplomatista affermata ma con un dottorato in Storia Medievale, specialista di fama internazionale, Antonella Ghignoli studia da tre decenni, le pratiche documentarie d’Europa, con un’attenzione particolare – ma non esclusiva – all’alto medioevo. Sarebbe molto difficile, forse anche fuorviante, riassumere in poche righe il percorso scientifico della studiosa, dati i risvolti che ha avuto non soltanto per gli studi diplomatistici tout court, ma anche per quelli paleografici, storici e filologici. Ciò che può essere qui utile sottolineare è che, alla base di molti suoi saggi, si nota una volontà forte di affinare, migliorare e articolare le metodologie della diplomatica attraverso un dialogo con altre discipline ma soprattutto attraverso una riflessione profonda sulle fonti documentarie in tutti gli elementi di cui sono composte. Non a caso, in diversi suoi lavori è possibile riscontrare una piena valorizzazione dell’approccio del diplomatista svizzero Peter Rück e della sua scuola: per questi studiosi, il documento medievale non è soltanto una scrittura fissata su un supporto, ma un più complesso sistema di testi e dispositivi grafici e materiali; questi ultimi sono elementi di natura differente, ma sono tutti impiegati insieme come codici di un medesimo processo comunicativo. Secondo questo approccio, la diplomatica non solo può, ma deve includere concetti e risultati di altre discipline quali l’archeologia, la numismatica, la semiotica e l’antropologia per capire a pieno ciascun elemento del sistema (Rück 1996; Worm 2006).
Sempre con questo approccio la studiosa ha, in anni recenti, riflettuto esplicitamente sulle trasformazioni delle pratiche documentarie occidentali al passaggio dal periodo tardoromano a quello post-romano o altomedievale, cioè dal V all’VIII secolo. Perfettamente conscia dei sistemi documentari che hanno lasciato tracce del periodo, Ghignoli ha adottato per queste indagini una prospettiva comparativa; la stessa, faccio notare, che da un po’ di tempo adottano diversi storici della società e dell’economia, fra i quali spicca Chris Wickham (Wickham 2009). I risultati sono presto giunti: nel 2011 ha pubblicato, insieme a François Bougard, un’illustrazione della pratica documentaria longobarda dimostrando che, al contrario di quanto si è a lungo pensato, anch’essa andrebbe inquadrata in quel medesimo mondo post-romano cui appartengono i papiri ostrogoti e bizantini dell’archivio di Ravenna, i papiri merovingi dell’archivio di Saint-Denis, le tavolette vandaliche cosiddette Albertini e le tavolette di ardesia della Spagna visigota. Anche se le carte longobarde più antiche presentano una tradizione molto complicata, tramandate come sono in copie più tarde, ciascun elemento che di quel sistema documentario possiamo cogliere porta a credere che nei secoli VII e VIII esso somigliasse molto ai sistemi “cugini”, mi si passi il termine, degli altri regni post-romani. La materia scrittoria era molto probabilmente il papiro prima dell’VIII secolo [6], le formule documentarie una diretta derivazione di formule romane, le modalità di partecipazione alla scrittura da parte degli attori la medesima che negli altri regni. Senza voler esagerare, l’analisi semiologica di quella complessa tradizione l’ha illuminata con una luce del tutto nuova, e in un certo senso l’ha resa un po’ più familiare agli occhi di chi si occupa di quel periodo particolarmente movimentato (Ghignoli e Bougard 2011).
Ecco, le riflessioni maturate intorno alle carte longobarde – non tutte ovviamente riassunte nell’articolo del 2011 – hanno portato a rivalutare l’intera narrazione sulla cultura documentaria dell’Occidente post-romano: i papiri di Ravenna, fino a poco tempo fa osservati come espressione di un “modello romano” cui le altre carte altomedievali si sarebbero ispirate, sono in realtà semplicemente espressione di culture locali allo stesso modo in cui lo sono le carte merovingiche e le ardesie visigote [7]. Detto in altri termini, un “modello romano”, un archetipo lachmanniano da cui sarebbero derivati i sistemi documentari dell’alto medioevo, non è mai esistito. Fermo restando che prima del V secolo non conosciamo nel concreto quasi nulla della documentazione occidentale, gli indizi disponibili portano a credere che già prima del 476 quella documentazione potesse variare a livello locale, pur facendo parte di una medesima koinè comunicativa greco-latina (Cavallo 1970). È bene dunque immaginare che ciascuno degli archivi post-romani pervenutici sia esito delle trasformazioni di un sistema documentario locale precedente, più che una semplice aberrazione di un fantomatico archetipo romano [8]. Qualcosa che, del resto, è stato notato anche sul versante paleografico da Paolo Radiciotti (Radiciotti 2011). Tutto ciò significa che, per capire a pieno l’interazione tra i fenomeni di standardizzazione e le peculiarità locali, e allo stesso tempo per cogliere le loro trasformazioni nel tempo, bisogna estendere la comparazione quanto più possibile alle aree un tempo dominate dall’impero di Roma.
E qui entra in gioco anche la ricchissima documentazione egiziana. Ghignoli ne fa un buon uso quando pubblica, nel 2016, un articolo sui “segni non alfabetici” dell’Occidente altomedievale (Ghignoli 2016). Piuttosto che privilegiare l’analisi di un singolo archivio – di un singolo sistema documentario se vogliamo – qui la studiosa si propone di analizzare campioni provenienti dalla maggior parte dei bacini documentari dei secoli V-VIII – papiri egizi, italiani e francesi; pergamene italiane; ardesie spagnole; tavolette africane – per cogliere una pratica scrittoria particolare: quella di tracciare segni non alfabetici all’interno di lettere e documenti giuridici. Frutto di una “mano umana che traccia linee sottili” («a human hand tracing thin lines»: ibid., 16), questi segni sono espressione di competenze simili a quelle di pertinenza della literacy, ma non rientrano perfettamente in quel campo, dato che non tutti sono costituiti da segni alfabetici. Con Garipzanov potremmo parlare oggi, a buon diritto, di graphicacy per questa pratica, ma poco importa perché non è questo il focus della riflessione. Qui si arriva, piuttosto, a identificare una relazione diretta tra i segni presenti nei papiri egizi di IV e V secolo e quelli dei documenti occidentali dei secoli V, VI, VII e VIII: molti dei segni non alfabetici che osserviamo nelle carte occidentali, comprese quelle del medioevo centrale, sono senza ombra di dubbio derivate dalle pratiche mediterranee tardoromane. Non sono cioè, come spesso si è scritto, novità medievali.
La constatazione è importante anche perché permette di capire meglio ciascun segno, di operare distinzioni più nette e di fare così chiarezza all’interno del corpus di quei simboli cristiani spesso e volentieri considerati equipollenti dai diplomatisti. Non si può parlare soltanto di “segni di croce” (signa crucis); bisogna pensare a tre insiemi diversi, e cioè segni di croce, cristogrammi e staurogrammi: i segni di croce sono quelli che rappresentano graficamente croci senza ulteriori elementi aggiuntivi; i cristogrammi sono costituiti da combinazioni di lettere sovrapposte che identificano il nome di Cristo (chi-rho, iota-chi, iota-eta); lo staurogramma è identificato invece dalla sovrapposizione delle lettere tau-rho. Se la croce e lo staurogramma rappresentano visualmente la croce di Cristo e Cristo sulla croce – per intenderci, l’occhiello del rho è la testa del crocifisso – i cristogrammi sono invece monogrammi, nella misura in cui identificano testualmente, con lettere sovrapposte, la parola “Cristo” e non la sua immagine.
Onnipresenti nella documentazione scritta presa in esame, la croce e lo staurogramma hanno un significato preciso: accompagnando formule scritte, completano il loro significato. Per fare un esempio, ⳨ recognovi in un documento pubblico significa che un magistrato ha approvato la validità di quel documento nel nome di Gesù crocifisso – quasi un giuramento medievale in nuce – mentre ⳨ bene vale in una lettera significa che il mittente raccomanda a Gesù crocifisso la buona salute del destinatario. Sembra un puro dettaglio, eppure queste formule suonano diversamente se lette insieme ai loro segni grafici, e rendono meglio i modi di pensare delle élites tardoantiche. Solo delle élites? Nient’affatto. Soprattutto le croci ma non solo, costituiscono la maggior parte dei “segni di mano” (signa manus) degli illetterati che partecipano alla produzione di documenti notarili, i “documenti privati” della diplomatica. Grazie agli studi di Armando Petrucci è noto da tempo che le carte notarili altomedievali permettono di osservare firme autografe di testimoni alfabetizzati insieme a segni di croce di illetterati (Petrucci e Romeo 1992). Ma fino a questo momento quei segni di croce venivano solamente adoperati per identificare “chi non sa scrivere” all’interno di una determinata società: una donna non sa scrivere, un contadino non sa scrivere, ecc. Lo studio di Ghignoli fa un vero e proprio balzo in avanti su questo punto: proponendo una prima classificazione dei signa manus delle tavolette nordafricane e un’analisi di campioni dagli altri archivi, dimostra che quei signa manus sono differenti l’uno dall’altro tanto dal punto di vista morfologico quanto da quello grafico. Dimostra cioè che quei segni hanno lo stesso valore delle firme autografe per ricostruire i livelli di cultura scritta nella società; forse sono ancora più preziose, dato che rivelano una sorta di grado minimo dell’alfabetismo, quella che chiamerei “la cultura scritta degli illetterati”.
Ma lo studio non si ferma ai gradini più bassi della società: riflette anche su quei segni composti da note tachigrafiche o da combinazioni di lettere al termine delle firme autografe. Per quanto riguarda le prime, qui la studiosa dimostra bene come esse non fossero un’espressione esclusiva dei gentlemen and officers dell’alta società (Brown 1984): nella Ravenna di epoca ostrogota e poi bizantina, ma lo stesso vale per l’Egitto coevo, abbiamo testimonianza di mercanti ed esponenti delle classi medie che sono perfettamente in grado di aggiungere segni tachigrafici alla propria sottoscrizione. Per quanto riguarda le seconde, le combinazioni di lettere cioè, qui l’autrice prende in considerazione il noto gruppo di lettere ΧΜΓ, sul quale la critica si è accanita in un dibattito quasi estenuante cercando il reale significato della formula. Ghignoli prende una via diversa: non cerca tanto il significato delle singole lettere, quanto piuttosto la ragion d’essere di quella combinazione all’interno dei documenti analizzati. La comparazione tra archivi e documenti permette così di capire che nelle medesime sezioni del documento alcuni papiri italiani ed egizi dei secoli V, VI e VII hanno il gruppo ΧΜΓ, altri contengono invece tre croci, mentre pergamene più tarde di area longobarda contengono la formula feliciter (cosiddetta apprecatio): ciò rende probabile che quella formula mantenesse un valore apotropaico, qualcosa che la accomuna ai “caratteri magici” studiati da Garipzanov. L’analisi paleografica di quei segni, altra operazione condotta nello studio, porta a un ulteriore risultato, quasi sorprendente per chi studia la diplomatica: quegli strani segni che tutta una serie di studi e cataloghi aveva classificato come “ghirigori” (doodles) privi di significato, sono in realtà evoluzioni e semplificazioni grafiche di quella stessa combinazione ΧΜΓ. È allora ragionevole pensare che, pur cambiando la loro veste grafica, quel valore apotropaico originale fosse ancora ben presente nella mente di chi teneva un calamo in mano.
Così identificati e spiegati, questi dispositivi grafici assumono un nuovo valore storico e inducono anche a ripensare interamente la griglia di analisi finora data per definitiva dalla critica. Una sottoscrizione non deve più esser considerata come una semplice formula alfabetica, ma piuttosto come un insieme di tre differenti blocchi: 1) i segni iniziali (croce, staurogramma, ecc.); 2) la scrittura vera e propria; 3) i segni tachigrafici o le combinazioni di lettere che completano la firma. Con una griglia del genere è più semplice osservare ciascuna delle componenti di una subscriptio come espressione dell’identità culturale, sociale e personale di chi la produce. E riusciamo così anche a capire che non esiste una divisione netta tra illetterati dei signa e letterati dell’alfabeto: man mano che si procede verso i livelli più alti della cultura scritta si trovano interazioni sempre più complesse fra i due insiemi. L’exploit lo avremo ovviamente nella pratica documentaria dei funzionari pubblici oppure, uscendo dal mondo dei documenti, in quella libraria di scribi e copisti, così ben valorizzata in tal senso dalle recenti ricerche di Evina Steinova (Steinova 2019).
Un singolo articolo non poteva render giustizia a tutte le implicazioni che i risultati qui raggiunti comportavano, ed è per questo che nel 2017 Antonella Ghignoli è riuscita a ottenere un finanziamento europeo per portare a termine un progetto molto più ampio sullo stesso tema dei “simboli grafici”. Il progetto è ancora in fieri, per cui è ancora presto cercare di trarne un bilancio all’interno di un più ampio panorama di studi; tuttavia, l’autrice ha già pubblicato, nel 2019, un lavoro che rende espliciti sia il framework concettuale, sia le categorie di analisi adoperate per quest’ampia ricerca (Ghignoli 2019): riprenderne alcuni punti potrà risultare utile ad avere piena coscienza delle novità storiografiche riguardanti le forme di comunicazione non alfabetiche del Mediterraneo tardoantico e altomedievale.
Il progetto si intitola NOTAE, un acronimo che significa NOT A writtEn word but graphic symbols. An evidence-based reconstruction of another written world in pragmatic literacy from Late Antiquity to early medieval Europe (http://www.notae-project.eu/). Articolando ulteriormente le piste tracciate nell’articolo del 2016, questa ricerca intende inquadrare la comunicazione scritta non alfabetica come fenomeno storico, e capirne dinamiche e trasformazioni nel periodo di passaggio dal mondo romano a quello post-romano, fino alla fine dell’VIII secolo. In effetti, solamente a partire da quel momento il latino, cuore pulsante della koinè comunicativa tardoantica, cessa di essere impiegato come lingua esclusiva della comunicazione “verticale”. Prima di quella data, spiega la studiosa, anche gli illetterati che partecipavano alla produzione documentaria potevano comprendere i documenti scritti in latino, quando i notai li leggevano loro ad alta voce. I segni grafici non alfabetici divengono allora una fonte essenziale per capire a pieno il ruolo degli illetterati nei processi documentari, come anche in quelle forme di comunicazione dove lo scritto interagisce con il parlato.
Da un punto di vista terminologico, Ghignoli adopera la distinzione tra “simbolo” e “segno” che Peter Rück aveva preso in prestito dall’antropologo britannico Edmund Leach (Rück 1996, 14-15; Leach 1976, 12-16). Un simbolo evoca una relazione metaforica e paradigmatica tra se stesso e ciò cui si riferisce, e può essere identificato senza bisogno di ulteriori aggiunte; un segno, al contrario, implica una relazione metonimica e sintagmatica con ciò che significa, e comunica qualcosa solamente in quanto parte di un più ampio sistema comunicativo. Su questa base, alla studiosa sembra preferibile il termine «simbolo grafico» per indicare i suoi oggetti di ricerca: «entità grafiche (composte da segni grafici, inclusi segni alfabetici) disegnate come unità visuali all’interno di un testo scritto ma che comunicano qualcos’altro o qualcosa di più di una parola di quel testo. Il messaggio che veicolano è da svelare, perché non c’è nessuna relazione intrinseca tra l’entità grafica che porta il messaggio e le informazioni che essa veicola» (Ghignoli 2019, 32). Per quanto riguarda poi le fonti documentarie adoperate, la studiosa adotta un’accezione di «documento» piuttosto ampia: è documento «una qualsiasi fonte scritta che contiene testi generati per scopi pragmatici» (ibid., 32-33). Rientrano dunque nella casistica non solo i contratti notarili e le lettere ufficiali, ma anche le lettere private, le liste, le etichette di reliquie e via dicendo.
Quali fonti per l’esattezza? Di fatto, le stesse adoperate per il lavoro del 2016, ma stavolta con un’ottica sistematica e il più possibile inclusiva anche per ciò che concerne la documentazione egizia del periodo bizantino. L’ottica è, naturalmente, storica, per cui si cerca di avere piena coscienza dei fenomeni e della loro evoluzione cronologica fin da quando, tra la fine del IV e il V secolo, la diffusione della firma nella pratica documentaria tardoromana aveva favorito di molto l’uso di simboli grafici – ormai dobbiamo chiamarli così! – in quei medesimi processi di scrittura. Essendo tracciati insieme alle firme alfabetiche, quei simboli sono divenuti molto presto forme di espressione identitaria, specialmente per coloro che dei segni alfabetici erano digiuni.
Il metodo combina più discipline: la diplomatica con l’approccio semiotico di Peter Rück (Rück 1996), la papirologia con l’approccio archeologico di Roger Bagnall (Bagnall 2010), la paleografia con l’approccio sociologico di Armando Petrucci (Petrucci e Romeo 1992). Solo in questo modo si potrà costituire, ed è la finalità pratica del progetto, un corpus in grado sia di porre in relazione ciascun simbolo grafico – identificato a partire dalla sua esecuzione grafica specifica – con il suo “autore”, il suo contesto documentario e i suoi ambienti sociali e culturali, sia di operare comparazioni tra le diverse aree per capire a pieno il trend generale dei processi storici in atto.
A questo punto è inutile dire che, una volta costituito, un corpus del genere restituirà alla cultura scritta dei secoli V-VIII un volto del tutto nuovo e inaspettato. Dico inaspettato perché fino a ieri eravamo convinti che i signa manus ci stessero raccontando di come, una volta collassati i capillari sistemi scolastici dell’antichità, molti gruppi sociali fossero stati obbligati a distanziarsi dai processi di scrittura documentaria. Forse le scuole antiche davvero non esistevano più, ma ciononostante le persone continuarono a partecipare alla produzione di documenti scritti. Qualcuno, più fortunato, poteva adoperare i segni alfabetici che il mondo romano gli aveva lasciato in eredità; qualcun altro, invece, poteva sfruttare al meglio i nuovi simboli che il connubio tra religione cristiana e pratica politica romana aveva diffuso un po’ dovunque nel Mediterraneo.
Stimoli e prospettive
Mi sembra evidente che i saggi qui illustrati stiano procedendo in una medesima, duplice direzione: da una parte intendono restituire agli studiosi della tarda antichità e dell’alto medioevo un corpus di fonti molto più vasto che in passato; dall’altra cercano anche di costruire un arsenale teorico e metodologico adatto a interrogare quel corpus nel migliore dei modi. Al centro di questi interessi sta, vale la pena ripeterlo, l’attribuzione di una maggiore importanza al dato non alfabetico anche per tematiche tradizionalmente associate alle fonti scritte, come è il caso delle pratiche politiche e delle strutture sociali. Non si tratta beninteso di una totale condivisione di prospettive da parte dei due studiosi; anzi, sembra che in un certo senso costoro siano complementari: Garipzanov è maggiormente interessato alla cultura materiale, Ghignoli propende più per la cultura scritta; Garipzanov ha ragionato intorno a una selezione ben precisa di simboli grafici, osservandone poi forme e funzioni in tutti i possibili oggetti in cui sono presenti; Ghignoli ha privilegiato sì una tipologia specifica di fonti, i documenti scritti, ma al loro interno non ha operato alcuna selezione preventiva riguardo ai simboli grafici: in questo senso anche una doppia linea di inchiostro apparentemente priva di significato andrebbe inclusa, data la possibilità non remota che siano gli studiosi contemporanei a non capire il suo significato, ben evidente invece nella mente chi l’aveva tracciata. Nonostante le differenze, una cosa è certa: la lettura di tutti questi studi è stimolante a tal punto da far ripensare in maniera profonda alcune convinzioni oggi radicate nella mente degli studiosi di storia e di cultura mediterranea. Senza alcuna pretesa di esaustività, vengo allora a concludere queste riflessione esplicitando tre dei possibili stimoli che possono giungere da questi nuovi approcci.
Il primo stimolo riguarda l’interpretazione dei secoli VII e VIII dal punto di vista degli scambi culturali nella loro accezione più larga, includendo perciò anche le modalità di espressione del potere attraverso il veicolo materiale. Nello studio del 2018 Garipzanov dedica al periodo un capitolo intero, intitolato “Monogrammatic Culture in Pre-Carolingian Europe” (cap. 7). È questo il punto in cui il focus del libro si restringe dal Mediterraneo all’Europa occidentale, per arrivare, nelle sezioni successive, a ricostruire e interpretare la formazione di una cultura politica europea che nel IX secolo fu diretta e dominata dai Carolingi (capp. 8 e 9). Ora, un restringimento di prospettiva del genere è decisamente efficace per cogliere a pieno ciò che l’impero carolingio poté ereditare consapevolmente e attivamente dalla cultura tardoantica. Tuttavia, escludere le altre grandi strutture politiche del Mediterraneo – e penso qui non solo all’impero bizantino e a quello islamico, ma anche ad alcune realtà vescovili – lascia un po’ in ombra gli scambi culturali, per così dire, “orizzontali” cui i nuovi sovrani si trovarono a partecipare. L’autore considera la centralità dei Carolingi nel nuovo “revival” del monogramma dei secoli VIII e IX quasi come un postulato, eppure in quella stessa Europa carolingia vi erano attori politici e religiosi in grado di esercitare un’influenza culturale pari se non superiore a quella franca. Ad esempio, per quanto il libro faccia più volte cenno ai vescovi di Roma, esso non affronta direttamente il problema del ruolo del papato nella costruzione culturale dell’impero carolingio. Considerando il fatto che i papi dell’epoca, dopo aver assorbito nell’VIII secolo le strutture del ducato bizantino di Roma, continuarono a emulare gli imperatori d’Oriente in molte delle loro pratiche politiche e culturali, e considerando che la monarchia franca si costruì nel medesimo secolo soprattutto attraverso un continuo dialogo con i vescovi di Roma, in futuro potrebbe essere utile tentare – almeno in via ipotetica – di ribaltare la prospettiva, e cercare di capire se non sia stato quel continuo dialogo tra imperatori d’Oriente, vescovi di Roma e imperatori d’Occidente ad aver stimolato la pratica di nuovi segni grafici all’intero di scenari di cultura scritta ecclesiastica. È del resto la prospettiva che lo stesso autore aveva assunto nel libro del 2008, quando faceva notare che i monogrammi carolingi avevano molti punti di contatto sia con i sigilli bizantini di VII, VIII e IX secolo, sia con le monete papali che, fra VII e VIII secolo, recavano a più riprese i monogrammi cruciformi dei titolari (Garipzanov 2008, 174-178). Se questa pista fosse confermata, allora potrebbe essere utile trovare un aggettivo diverso, meno teleologico di “pre-carolingio”, per definire la cultura ancora fortemente mediterranea dell’Europa nel VII e nell’VIII secolo. Tengo a precisarlo una volta di più, non si tratta di un difetto di analisi, ma anzi di un impulso a proseguire i sentieri battuti da una ricerca tanto originale quanto concreta.
Il secondo stimolo ha invece a che fare con un merito condiviso da entrambi gli studiosi: quello di aver rintracciato le origini di fenomeni e pratiche che nel medioevo centrale e tardo appaiono fortemente consolidati nella cultura scritta. Per quanto molti storici tendano a considerare il mito delle origini come una sorta di trappola, in questo caso gli studi sull’origine e sulle funzioni dei simboli grafici cristiani fra la tarda antichità e l’alto medioevo consentono di osservare anche le fonti più note con un’ottica nuova, più raffinata se vogliamo. In questo senso, gli studi di Ghignoli e Garipzanov invitano a proseguire la loro ricerca al di là del IX secolo e mi sembra allora utile mostrare, attraverso pochi esempi, la portata delle loro ricerche anche per la comprensione di fonti e pratiche del medioevo centrale e tardo. Un contratto notarile romano del 1030 contiene, fra le sue sottoscrizioni testimoniali, quella del rotarius Attone. Se guardiamo solamente alla scrittura, la carolina associata ad Attone è talmente simile a quella degli altri testimoni da far pensare che sia stato il notaio a stenderla al posto suo: una pratica, questa, che si diffonde sempre di più nel corso dell’XI secolo per divenire standard nel XII. Se però adottiamo la griglia ideata da Ghignoli, noteremo che il primo blocco non è costituito da una croce semplice, bensì da una croce inscritta all’interno di un cerchio in una forma molto simile a una ruota. È probabile perciò che quel signum sia un’espressione identitaria per nulla dissimile da quella, già valorizzata dalla studiosa, dell’agellarius Domnino vissuto a Ravenna cinque secoli prima [9]. Per fare un altro esempio, se osserviamo i documenti pontifici del XII secolo noti come “privilegi” (privilegia), noteremo che la sezione finale del testo è occupata da una formula di maledizione per il trasgressore delle disposizioni nota come sanctio, al termine della quale si trova spesso la triplice formula amen, amen, amen. Senza dovermi spingere in un’analisi minuziosa di queste fonti, sono certo che dopo aver letto i saggi qui illustrati ogni studioso noterà la profondità storica di qualcosa che prima poteva risultare un puro dettaglio. Erede del ΧΜΓ, delle tre croci e del feliciter tardoantichi e altomedievali, la triplice formula restituisce da sola tutta l’aura sacrale e religiosa in cui tali documenti sono immersi, documenti che avevano l’ambizione di valere per l’eternità, in perpetuum come recita la chiusa del loro protocollo [10]. Ci possiamo ovviamente chiedere se le persone del XII secolo fossero ancora consapevoli di questa dimensione sacrale di alcuni dei documenti che si trovavano fra le mani. Risponderei di sì attraverso un episodio legato alla ricerca archeologica: in occasione degli scavi promossi a Tuscolo è stato di recente individuato, in una fossa presso la cinta muraria urbana, un recipiente contenente frutta e un piccolo pesce insieme a un gallo, una gallina, una moneta di zecca imperiale e un sigillo papale di quelli che di norma si trovano legati ai privilegi. L’inserzione è databile al 1183, nel periodo cioè in cui il comune di Roma stava ripetutamente assediando l’antica città divenuta ormai roccaforte dell’omonima dinastia signorile. In preda allo sconforto, un abitante del luogo ha probabilmente creduto che inserire questi oggetti nelle mura avrebbe avuto una qualche utilità per lui e suoi compagni di sventura. Lo ha fatto pensando al valore delle offerte votive e dei sacrifici animali, ma lo ha fatto anche confidando nei poteri apotropaici dei simboli grafici [11]. Almeno per quest’ultimo caso, la graphicacy di Garipzanov è la miglior chiave d’accesso a pratiche culturali che intrecciano lo scritto e il simbolico.
Insomma, se ci convinciamo che l’alfabeto non era l’unica forma di espressione grafica del medioevo, quest’epoca ci apparirà ancora più ricca e complessa di come ce la siamo immaginata fino ad oggi.
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Note
1. Quintus Aurelius Symmachus, Epistolae, II 12, ed. O. Seeck, Berlin 1883 (MGH A.A. VI/1), 46 (Garipzanov 2018, 127).
2. Sulla graphicacy sono un riferimento Balchin e Coleman 1966 e Balchin 1972. Per la definizione qui adoperata e per una panoramica più recente, Garipzanov 2018, 3-8.
3. Sulla literacy, Olson 2009; sulla numeracy, Coquer, Menant e Weber 2006 e 2012. Per la graphicacy, supra, nota 2.
4. La coerenza di quest’arco cronologico è stata di recente valorizzata da Fowden 2014.
5. Si muove in questa direzione anche Barbero 2016, di poco precedente al libro di Garipzanov.
6. Sul papiro e i Longobardi, ora Manarini 2020. Sul papiro in generale, Internullo 2019
7. Nella medesima direzione, ma a partire dall’analisi di un singolo documento molto discusso (il “Papiro Butini”), Internullo 2018.
8. Un contributo significativo a questo problema verrà dalla pubblicazione di tutti i papiri documentari (e letterari) latini a cura del progetto PLATINUM dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” (https://platinum-erc.it/).
9. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 11391, pergamena nr. 6 per Atto rotarius. Per l’agellarius Domnino Ghignoli 2016, 22.
10. Un esempio fra centinaia: Frenz 2008, 146 con tav. 3. Le formule di sanctio suonano di norma così: Si qua igitur in futurum ecclesiastica saecularisve persona, hanc nostrae constitutionis paginam sciens, contra eam venire temptaverit, secundo tertiove commonita, si non satisfactione congrua emendaverit, potestatis honorisque sui dignitate careat reumque se divino iudicio existere de perpetrata iniquitate cognoscat et a sacratissimo corpore ac sanguine Dei et Domini Redemptoris nostri Ihesu Christi aliena fiat atque in extremo examine districtae ultioni subiaceat. Cunctis autem praefato monasterio iusta servantibus sit pax Domini nostri Iesu Christi, quatenus et hic fructum bonae actionis percipiant, et apud districtum iudicem premia aeternae pacis inveniant. Amen, amen, amen. Nella triplice formula finale «graficamente ognuna delle tre parole viene realizzata diversamente» (Frenz 2008, 21).
11. Mandatori 2017. Mi chiedo se il deposito non ospitasse in origine un intero privilegio pontificio del quale, data l’umidità e il tempo trascorso, non sia rimasto poi solamente che il sigillo, in maniera non dissimile da quanto è accaduto ai sigilli bizantini normalmente reperiti tramite scavo. Per la dimensione sacrale delle monete è oggi fondamentale Travaini 2020. Sempre la graphicacy ci consentirà in futuro di capire meglio quegli strani ibridi, unici nel loro genere, che sono le rappresentazioni cartografiche ideate dall’intellettuale pavese Opicino de Canistris (1296-1335) per esprimere – e in parte superare – le tensioni da lui vissute in un periodo di forti cambiamenti sociali e religiosi, quello del papato avignonese: Piron 2019.