Storicamente. Laboratorio di storia

Biblioteca

Jacopo Lorenzini, “Uomini e generali. L’élite militare nell’Italia liberale”

PDF

Jacopo Lorenzini, “Uomini e generali. L’élite militare nell’Italia liberale”, Milano, FrancoAngeli, 2017, 300 pp.

Una consolidata tradizione storiografica ci ha abituato a scorgere nell’esercito italiano post-unitario un apparato coeso, guidato da ufficiali provenienti in maggior parte dalla nobiltà e almeno al suo esordio monopolizzato dalla componente più fidata di casa Savoia, vale a dire quella piemontese. Questa ricerca, frutto di impeccabili scavi archivistici in fondi per lo più privati finora ignorati dagli storici, rimescola profondamente le carte, offrendoci un ritratto collettivo dei quadri apicali dell’esercito italiano dal 1882 al 1915 molto più mosso e variegato. Va detto in premessa che un tale risultato è il frutto soprattutto dei numerosi scandagli a cui è stato sottoposto l’ampio campione analizzato (407 ufficiali, individuati in base alle cariche ricoperte nel corso delle singole carriere). Non c’è infatti aspetto della vita di ciascuno che non sia stato preso in considerazione: dall’origine sociale alla provenienza geografica, dal tipo di formazione acquisita al coinvolgimento politico in sede nazionale e locale, dalle reti sociali in cui ciascuno era inserito ai loro rapporti con l’istituzione di appartenenza: non sfuggono a questa ricerca neanche i rapporti affettivi all’interno delle singole famiglie, né la minuziosa ricostruzione degli ambienti domestici in cui quotidianamente questi stessi ufficiali vivevano il proprio côté privato.

In questa sede ci limiteremo a evidenziare i risultati più innovativi apportati dalla ricerca, sacrificando necessariamente le storie di vita che stentano a essere ricomposte in un quadro generale. Innanzi tutto, ciò che viene discusso e in parte demolito è il vecchio adagio che attribuisce all’ufficiale italiano dell’Italia liberale tre qualità salienti, l’essere cioè bel (di portamento elegante), biond (settentrionale, e in specie piemontese) e bestia (dotato di scarsissima cultura). Biond l’ufficiale italiano lo è in maggioranza, ma solo nel primo ventennio di vita dello Stato unitario l’epiteto equivale a piemontese: tra il 1910 e il 1915, la componente lombarda, che era sempre stata la seconda forza regionale all’interno dell’élite fin dal 1861, si posiziona dal punto numerico ex aequo con gli ex-regnicoli sabaudi. Un dato che va sicuramente relazionato con l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III, che a partire dal 1902 (e fino al 1917) avrà al proprio fianco in qualità di Primo aiutante di campo il generale milanese Ugo Brusati. Un altro aspetto va evidenziato, per quanto attiene la composizione regionale dei quadri militari: al contrario di quanto riporta la memorialistica coeva non è assolutamente verificabile che lo stato maggiore fosse in prevalenza monopolizzato dai piemontesi nel mentre la burocrazia ministeriale tendeva a meridionalizzarsi. Dai dati elaborati in quest’analisi risulta esattamente il contrario: sono gli ex-sudditi del Regno di Sardegna ad occupare i ruoli di capi divisione del Ministero, mentre effimera risulta la loro presenza nella dirigenza dello stato maggiore centrale, a tutto vantaggio dei meridionali.

L’eleganza, suggerita dall’appellativo bel, suggerisce che nella percezione comune il militare veniva ascritto a indubbie ascendenze aristocratiche. Tuttavia, sulla scia di quanto la ricerca ci aveva già segnalato, Lorenzini ci conferma il progressivo imborghesirsi della carriera militare: il che non significa però la perdita di appeal sia nei confronti degli ambienti nobiliari, sia nei riguardi delle nuove élite professionali ed economiche. Ce lo indica, ad esempio, il fatto che la percentuale più alta (il 38%) di nobili presente nell’alta ufficialità italiana provenga da una città come Milano, e come questa stessa componente nobiliare interagisca in maniera per sé vantaggiosa con le restanti élite della capitale lombarda.

Tuttavia, né la componente milanese né gli altri nobili italiani hanno raggiunto i propri ruoli di prestigio in base alle proprie ascendenze araldiche o per la pressione di un genitore blasonato. In tutti i casi l’élite militare dell’Italia liberale ha seguito un preciso percorso formativo, incentrato su quella che l’A. definisce l’«università militare», vale a dire la Scuola di guerra. Bestie pertanto i nostri ufficiali non lo sono affatto: oltre al rigido e variegato curriculum di studi a cui si sono dovuti sottoporre – la Scuola di guerra italiana, anche per le qualità intellettuali di molti dei suoi comandanti, deve essere considerata una delle migliori tra quelle presenti sul coevo scenario europeo – lo ricordano le considerevoli biblioteche dei membri più agiati, le loro pubblicazioni (non sempre e non solo limitate ad argomenti tattici e militari), come anche le dotte e raffinate citazioni, mai scontate, che trapelano dai loro rapporti epistolari, di cui questa ricerca ci offre ampi stralci.

Proprio perché dotati di una ricca cultura, i vertici dell’esercito italiano della belle époque si presentano parecchio differenziati al loro interno su molte delle questioni cruciali sollevate dal dibattito pubblico. Si tratti del sistema di reclutamento, in cui non tutti sono a favore di quello nazionale, così come dell’avventura africana o dell’utilizzo della forza armata per riportare all’ordine la società civile, l’élite militare italiana si frastaglia lungo un variegato sentiero di prese di posizione.

Ciò che tuttavia accomuna questa generazione di ufficiali presi in considerazione nel volume è proprio l’auto-consapevolezza di rappresentare una élite, forti della formazione ricevuta dalla Scuola di Guerra. Un dato destinato a scomparire all’indomani della nomina di Luigi Cadorna al vertice dello stato maggiore e che dimostrerà tutte le deleterie conseguenze sulle trincee della prima guerra mondiale.