Maria Malatesta, Storia di un’élite. La nobiltà italiana dal Risorgimento agli anni Sessanta. Torino: Einaudi, 2022. pp. 335.
Una consolidata tradizione storiografica ha impedito fino a oggi di interrogarsi sul ruolo svolto nell’Italia contemporanea dalla nobiltà come gruppo sociale a sé stante. A suggello di questo vuoto negli studi viene spesso menzionato il pubblico scambio epistolare tra un cadetto piemontese, Massimo d’Azeglio, e un medico romagnolo, Luigi Carlo Farini, avvenuto alle soglie del 1848, che vide i due protagonisti concordi nel dichiarare la morte della nobiltà in quanto casta. Quest’ultima, esistente di fatto nel nome e nelle insegne, ormai, si diceva, attingeva altrove la propria legittimazione: prese le debite distanze dal mondo delle corti, era entrata a far parte dell’indistinto mondo dei notabili. Il libro di Maria Malatesta rivela il sostrato strumentale di queste affermazioni, interamente calate nel clima prequarantottesco volto a riformulare il contratto enfiteutico tra il principe e le élite territoriali. Già all’indomani della proclamazione dello Stato unitario infatti la nobiltà esplica tutte le sue tradizionali capacità di resilienza, sia mantenendo una posizione strategica all’interno di alcune particolari istituzioni pubbliche – in primis la diplomazia e il Senato – sia sfruttando l’opportunità di ottenere sostanziali benefici attraverso la sua vicinanza ai reali tramite la presenza a corte. Quella che con espressione efficace Malatesta definisce «nobiltà di Stato» subì certamente nel tempo un’erosione delle proprie posizioni di potere, alla stregua di quanto avviene in altri contesti europei, ma non in tutte le sue componenti: dalle elaborate analisi statistiche compiute dall’A. circa 200 famiglie, spartendosi di volta in volta laticlavi senatori e prestigiose ambasciate senza dimenticare la loro costante permanenza a corte, riuscirono a essere presenti nelle istituzioni in maniera ininterrotta dal 1861 al 1943. Si tratta in questo caso della punta di un iceberg che poggia su un sottobosco sicuramente più movimentato ma non meno significativo. A questa super élite bisogna affiancare rappresentanti della nobiltà minore presenti sia nelle carriere amministrative e giudiziarie sia in diversi incarichi a livello territoriale. E altrettanto interessante è seguire nel tempo il posizionamento politico della élite nobiliare al governo: se nel quindicennio della Destra storica la nobiltà che aveva partecipato al Risorgimento sembrò rappresentare il nocciolo duro della classe politica, il suo protagonismo si dileguò con l’avvento della Sinistra al potere, salvo ricomparire, ma con un atteggiamento difensivo, e non propulsivo come era avvenuto quarant’anni prima, con la crisi di fine secolo sotto l’egida del barone Sidney Sonnino. Un atteggiamento che nel caso della nobiltà romana di antico lignaggio da difensivo si radicalizzò, alla fine dell’età giolittiana, in apertamente regressivo, quando fu il patriziato cittadino che consentì ai nazionalisti di vincere le elezioni politiche nel 1913: un avvenimento che l’A. a ragione considera il presupposto della successiva adesione di molti esponenti nobili al fascismo.
Per quanto riguarda la vita di corte, merita di essere segnalata una particolarità che aveva trovato un’enfasi minore nei precedenti studi di Carlo Mario Fiorentino. Si allude in particolare all’importanza dell’elemento femminile, che svolse fino all’avvento della seconda guerra mondiale un ruolo cruciale. Protagonista indiscussa di questo processo di femminilizzazione della corte fu Margherita di Savoia, sia come principessa ereditaria sia come regina, ma è un trend che proseguì anche con la successiva regnante, Elena di Montenegro. Fu questo lo strumento che permise la progressiva cooptazione delle nobiltà regionali entrate a far parte del nuovo Stato, ma consentì nello stesso tempo da parte delle nobildonne cooptate a corte uno stratagemma efficace per promuovere socialmente i propri mariti. D’altra parte, le mondanità che periodicamente si svolgevano a corte, raccontate dalla stampa nazionale e locale, svolsero un ruolo di primo piano sia nella costruzione di un’opinione pubblica favorevole alla monarchia sia nell’imporre nel sentire comune le figure dei cortigiani come massima espressione dell’eleganza e del buongusto dell’epoca.
Difficile riconoscere la specifica cifra di un ancestrale ethos nobiliare nell’interventismo dei nobili durante il primo conflitto mondiale, capace di differenziarlo dai contemporanei commilitoni borghesi. Tuttavia, attraverso un puntiglioso e vastissimo spoglio di corrispondenze e memorie, Malatesta ci suggerisce alcune peculiarità che contraddistinguono questo mondo elitario. Innanzi tutto, furono soprattutto nobili gli esponenti più celebri del corpo dell’aviazione, la forza militare decisamente all’avanguardia e la più corteggiata dai media e dai politici: quasi che la loro partecipazione alle imprese mirabolanti delle squadre aeree servisse a riaffermare sia le proprie tradizionali capacità guerriere sia il proprio status di élite. In secondo luogo, che alla nobiltà continuasse a essere riconosciuto il peso simbolico del nome, lo dimostrano i numerosi privilegi (in termini di trasferimenti dal fronte e di piccole attenzioni particolari) di cui i patrizi continuarono a godere durante la loro permanenza al fronte: distinzioni che se unite alla mobilitazione civile della controparte femminile rappresentano il trait d’union tra il nazionalismo patriottico e la successiva, cospicua adesione al fascismo dei blasonati italiani.
Un’adesione, quest’ultima, che interessò il mondo nobiliare in modo trasversale, ma che non sempre sortì vantaggi rilevanti per gli interessati. La riconversione fascista della nobiltà consentì a quest’ultima di mantenere invariato sia il proprio capitale simbolico che le proprie relazioni sociali così come le permise di esercitare il proprio peso negoziale laddove era in discussione da parte dei sindacati fascisti la gestione padronale della propria proprietà terriera. Ma negli incarichi pubblici dovette spartire il potere con l’ondata di nuovi nobilitati voluta da Mussolini, che finirono per modificare in profondità la socialità dell’aristocrazia specialmente della capitale. Salvo il nocciolo duro rappresentato dai nobili ammessi a corte – che aumentarono sensibilmente durante il ventennio, mantenendo la pregiudiziale di appartenenza ai vecchi casati, per evitare le contaminazioni con il fascismo – vecchie e nuove élite finirono per mescolarsi dando vita a una sorta di nuovo «generone». É questa la ragione per cui i titolati italiani che parteciparono alla Resistenza, al contrario dei loro emuli francesi e tedeschi, furono restii a rivendicare in chiave cetuale il proprio operato? Come che sia, le pagine che Malatesta riserva a quella che definisce La resistenza invisibile, dove ripercorre le diverse motivazioni e traiettorie biografiche dei nobili resistenti, sono sicuramente le più interessanti del volume, palesando le premesse di quel dissolvimento della nobiltà come ceto che ha caratterizzato l’età repubblicana: non però in quanto ethos. Come con grande acutezza sottolinea l’A. nelle pagine finali del volume, sono stati infatti tre esponenti titolati a trasmettere nel dopoguerra alle generazioni future, travalicando gli stessi confini italiani, il quid del vivere nobilmente, incarnato nel personaggio di Don Fabrizio Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo: l’autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Luchino Visconti, il regista che adottò il testo per lo schermo, e Marguerite Caetani, che pubblicò per prima un capitolo del romanzo del principe siciliano.