Alice Rio, “Slavery After Rome. 500-1100”, Oxford, Oxford University Press, 2017, 304 pp.
Quale fu il destino della schiavitù all’indomani della caduta dell’Impero romano d’Occidente? Quali forme assunse e che cosa comportò la condizione di non-libertà (espressione che si è costretti a utilizzare per tradurre l’inglese unfreedom) nell’Europa dell’alto e del pieno Medioevo? Sono queste le domande al centro dell’ultimo libro di Alice Rio, studiosa che da alcuni anni si occupa della storia socio-economica dei ‘secoli bui’, dedicando particolare attenzione ai testi normativi e al loro utilizzo.
Rio prende come punto di partenza il modello romano di schiavitù, inteso sia come codificazione legale, sia come realtà concreta che dava alla società e all’economia antica quel carattere tipicamente schiavile su cui tanta storiografia si è soffermata; l’analisi si arresta (grosso modo) al secolo XII, momento in cui la riflessione dei giuristi e le profonde trasformazioni economiche cui andò incontro l’Europa aprirono un nuovo capitolo nella storia delle condizioni di non-libertà. Quanto all’ambito geografico, l’a. si concentra principalmente sulle regioni di cui si componeva la pars Occidentis dell’Impero, con l’aggiunta dell’Irlanda e dell’Impero romano d’Oriente come estremi opposti – se in Irlanda, infatti, l’influenza della cultura e della legge romane era minima, essa era invece vivissima a Bisanzio.
L’opera si presenta, quindi, come una revisione critica di un vastissimo insieme di fonti primarie e di letteratura scientifica che l’a. padroneggia con grande maestria. L’approccio con cui Rio affronta lo studio di un corpus tanto imponente consiste nel trattare schiavitù e non-libertà come realtà dinamiche; vale a dire, come ‘situazioni’ e ‘strategie’ che le persone potevano utilizzare, a seconda delle loro possibilità e dei loro interessi, per modificare o rafforzare le gerarchie sociali esistenti. L’alto Medioevo (esteso fino alla fine del secolo XI) si presta perfettamente a una ricerca di questo tipo: un’età in cui la generale debolezza di regni e imperi (soprattutto se confrontata con la capacità coercitiva degli Stati moderni) e la concomitante instabilità delle istituzioni prepararono il terreno per numerose sperimentazioni, nel campo delle condizioni di non-libertà come in altri.
Questa proposta interpretativa fa da sfondo ai sei capitoli del libro. Nel primo, dedicato alle razzie e al commercio di schiavi, Rio offre una panoramica della questione domandandosi anzitutto quali soggetti politici avessero la capacità di alimentare, nell’alto Medioevo, la domanda di schiavi che rendeva razzie e commerci attività lucrative. L’obiettivo polemico del capitolo è la nota tesi di Michael McCormick, che nel suo Origins of the European Economy (2001) aveva attribuito un’enorme importanza al mondo arabo: esso sarebbe stato capace di sostenere una domanda di schiavi soddisfatta dall’Impero carolingio, il quale, a sua volta, avrebbe ricevuto in cambio denaro in quantità tali da mettere in moto la ripresa economica dell’Occidente post-romano. Una simile tesi, però, non regge al vaglio delle fonti: non ci sono appigli sufficienti per pensare che il volume di tali scambi potesse avere gli effetti epocali che McCormick vorrebbe riconoscervi e mancano, inoltre, prove certe di un commercio diretto tra Arabi e Franchi. Se un aumento della domanda di schiavi ci fu, questo ebbe sì luogo tra la fine dell’VIII e l’inizio dell’XI secolo, ma sarebbe del tutto infondato porlo alle origini dell’economia europea.
Il secondo capitolo si concentra invece sulla cessione volontaria della propria libertà (self-sale), sulla schiavitù per debiti e sulla schiavitù penale. In questo settore, la distanza del mondo alto-medievale da quello romano non avrebbe potuto essere maggiore. A Roma, così come a Bisanzio, la schiavitù volontaria (ma lo stesso discorso vale anche per le altre due fattispecie appena menzionate) era ritenuta un fenomeno vergognoso, frutto della mancanza di virtù personali, mentre nell’Occidente post-romano si assiste ad una progressiva mercificazione, legittimata anche sul piano morale, dello status giuridico personale. Ne è un ottimo esempio l’editto di Pîtres (864), con cui Carlo il Calvo presentava la vendita di se stessi come una pratica perfettamente compatibile con l’etica cristiana: era un atto di carità, infatti, comprare qualcuno e dargli, come contropartita, i soldi di cui aveva bisogno.
Nel terzo capitolo, dedicato ai liberti (freedmen) e alle manumissiones (liberazioni) di schiavi, Rio appunta la propria attenzione sulle diverse ragioni che potevano spingere un proprietario di persone non-libere a sciogliere queste ultime dal loro vincolo di sottomissione. Attraverso una serie di esempi, l’a. mostra chiaramente come le manomissioni fossero motivate da scopi di volta in volta diversi e come, di conseguenza, le condizioni dei liberti variassero notevolmente di caso in caso: si andava dal grado più alto di libertà personale, che rendeva indistinguibile un liberto da un individuo nato libero, a quello più basso, nel quale la manomissione costituiva, di fatto, una donazione del non-libero ad un altro proprietario che ne perpetuava la condizione di asservimento.
Il quarto ed il quinto capitolo sono dedicati, rispettivamente, alla schiavitù domestica e all’impiego del lavoro di non-liberi all’interno delle grandi proprietà terriere; sono ambiti tra loro collegati, poiché i due tipi di status (con le mansioni che ne derivavano) potevano appartenere contemporaneamente ad una stessa persona: non sono infrequenti, infatti, i casi di unfree che, pur vivendo e prestando servizio nella casa padronale, erano impegnati nei campi durante le fasi più intense del ciclo agricolo. Il problema della schiavitù domestica è analizzato attraverso la lente del rapporto, variabile da regione e regione, tra esigenze produttive (quando i servi casati erano prima di tutto lavoratori) e esigenze di rappresentanza (laddove essi contribuivano anzitutto al prestigio della domus aristocratica); del capitolo sulle proprietà terriere si segnala, in particolare, lo sforzo compiuto dall’a. nel ripercorrere la vasta letteratura che tratta la formazione delle aziende agrarie più grandi e strutturate, soprattutto in epoca carolingia.
Significativamente, è posta alla fine del libro la sezione più ‘teorica’, quella, cioè, che esamina la schiavitù come istituzione legale e che riguarda, nello specifico, i diritti e i doveri dei non-liberi. Domina, qui, il tema del matrimonio tra persone gravate da tale status, che costituì un argomento ricorrente della riflessione giuridica durante i secoli esaminati da Rio; riflessione di cui l’a. restituisce la complessità derivante, ancora una volta, dall’alto tasso di sperimentazione che le condizioni sociali, economiche e politiche dell’alto Medioevo avevano reso possibile.