Lorenzo Kamel, “Imperial Perceptions of Palestine. British influence and power in late Ottoman times”, I.B. Tauris, London-New York 2015, 312 pp.
La percezione della Palestina tra sguardi coloniale e postcoloniale: questa è la raffinata prospettiva da cui Lorenzo Kamel muove nell’affrontare l’approccio alla “terra sacra” da parte della potenza coloniale britannica. Una prospettiva che emerge dall’attenzione con cui Kamel analizza il peso dello sguardo geopolitico dell’impero britannico, nel periodo a cavallo tra Otto- e Novecento, sulla costruzione delle entità spaziali, culturali e politiche denominate poi Palestina e Israele.
Lo scenario internazionale è chiaro: ci troviamo nell’età degli imperi, in cui potenze coloniali occidentali in pieno sviluppo industriale premono per estendere i propri possedimenti territoriali negli esotici spazi di un Oriente che è in primo luogo sinonimo di alterità connotata negativamente.
L’ultimo quarto dell’Ottocento corrisponde anche alla fase in cui i movimenti nazionalisti, protagonisti di grandi progetti di emancipazione e unificazione nazionale in Europa, assumono una connotazione sempre più aggressiva, che si esprime in ambiziosi disegni di espansione coloniale. E’ noto che entro la cornice culturale e ideologica che segnò l’apogeo dello Stato nazionale anche la questione del popolo ebraico trovò una nuova ridefinizione nel progetto politico del sionismo. Ed è nell’ambito di questo complesso scenario che si innescano una serie di sinergie, mosse da interessi eterogenei, ma convergenti verso la costruzione dello Stato di Israele in una Palestina pensata come un «desert without a people» (77).
In quel “deserto” si giocavano in realtà interessi importanti: in primo luogo la dura concorrenza franco-britannica sull’area del Mediterraneo orientale che condusse, nel 1916, all’accordo segreto Sykes-Picot sulle rispettive sfere di influenza (110). Secondariamente, le aspirazioni politiche di un sionismo sempre più determinato e che vedeva nell’interesse britannico su quei territori la possibilità di un’alleanza strategica per garantire agli ebrei la legittimità del «return to Zion». Vi sarebbero stati poi anche gli interessi della popolazione locale, che però non riuscirono a trovare espressione incisiva e nessuno se ne occupò.
Influenti personalità della British Jewish community si adoperarono pertanto alla costruzione di rapporti stretti con la classe dirigente britannica insistendo sia su presunte affinità religiose – secondo cui dopo gli ebrei gli inglesi sarebbero la nazione «più biblica del mondo» (71) –, sia su considerazioni geopolitiche. Paradossalmente, la convergenza di interessi tra sionismo e imperialismo britannico si incontrava anche con posizioni apertamente antisemite, che vedevano nella realizzazione di una «national home» giudaica una soluzione ideale per allontanare gli ebrei dall’Europa cristiana.
Antisemitismo, sionismo e priorità geopolitiche del British Empire si fusero pertanto in una prospettiva di «orientalismo biblico» che trovò un’efficace formalizzazione nella Dichiarazione di Balfour del 1917, un tentativo di sintesi delle diverse posizioni in un progetto volto a garantire uno stabile insediamento ebraico in Palestina. I confini della “national home” ebraica furono delineati ovviamente sulle mappe fornite dal Palestine Exploration Fund, senza alcuna considerazione per la popolazione locale. Quest’ultima fu sottoposta al trattamento tipico delle culture coloniali di tardo Ottocento, ossia semplificata e standardizzata, ricondotta entro i canoni interpretativi dell’arretratezza su cui si legittimavano rapporti di dominio e subordinazione coloniale. Ad accentuare gli atteggiamenti di noncuranza nei riguardi degli «arabi di Palestina» contribuì inoltre anche propaganda sionista, fortemente interessata a minimizzare la questione, descrivendo gli «arabi abitanti in Palestina» come un fattore del tutto irrilevante (99).
In virtù del mandato sulla Palestina (1922) la questione dovette essere affrontata dal governo britannico. Questi, ignorando l’organizzazione dei poteri e la divisione di funzioni e ruoli tra ambiti religiosi e politici, consolidatasi durante il dominio ottomano, risolse il problema facendo del Muftì di Gerusalemme – la cui denominazione fu ampliata alla «regione di Palestina» – la principale autorità con il compito di rappresentare la popolazione locale (151). Con la creazione dell’Emirato di Transgiordania (1922) si apriva di conseguenza una contesa sulla legittimità dei confini e dei territori, destinata a non trovare fine. Ma ormai il percorso era stato segnato e la storia sarebbe proseguita su questa traccia senza mai riuscire a risolvere i problemi di fondo.
Proprio nella riappropriazione della storia Kamel ripone invece le sue speranze: nell’abbandono dello sguardo di chi si trovava e ancora si trova in posizione di dominio l’autore vede per le popolazioni di quel territorio una possibilità di superamento dei conflitti che ancora le travagliano. Soprattutto se, come sottolinea in chiusura, si riconosce che quella storia non può essere che condivisa, dato che la Palestina mai fu territorio abitato da un unico popolo. Ci troviamo insomma nel cuore di una vera e propria entangled history, che per essere dipanata richiede un grande lavoro a partire dal suo interno. Lo studio di Kamel, che con ammirevole maestria sia teorica chee metodologica si è avvalso di fonti archivistiche prodotte da tutti i soggetti coinvolti, va indubbiamente in questa direzione.