Ian Forrest, “Trustworthy Men: How Inequality and Faith Made the Medieval Church”, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2018, 502 pp.
Ian Forrest, professore di storia sociale e religiosa all’Oriel College dell’Università di Oxford, dopo aver esplorato nella sua prima monografia, The Detection of Heresy in Late Medieval England (2005), in che modo l’ideale di appartenenza alla chiesa fosse costruito e fatto rispettare dall’inquisizione nell’Inghilterra medievale dei secoli XIV e XV e come l’identificazione dell’eresia fosse necessariamente opera di una collaborazione tra governanti e governati, affronta ora, in questo nuovo libro, i rapporti tra vescovo e parrocchie. In particolare, l’A. si sofferma sulla figura dei trustworthy men, i fidedigni o “uomini degni di fede/fiducia”, laici che cominciarono ad essere menzionati nelle fonti amministrative e legali ecclesiastiche, a partire dal tardo XII secolo, come giurati, informatori e testimoni, uomini grazie ai quali i vescovi ottenevano informazioni che permettevano loro di operare nella diocesi – sopperendo così alla mancanza di conoscenza delle realtà locali. Il volume si propone quindi di evidenziare l’importanza di queste persone, cui non è mai stato dedicato uno studio approfondito, per il governo e lo sviluppo istituzionale della chiesa inglese tra 1200 e 1500 e la stretta relazione che essi instaurarono con l’episcopato – diventando il vero e proprio vettore di comunicazione tra vescovi e parrocchie. Allo stesso tempo, Forrest sottolinea come lo status privilegiato dei trustworthy men fosse fonte di ulteriori diseguaglianze all’interno della società.
Il volume è aperto da un’introduzione che illustra la cornice metodologica e storiografica entro la quale si svilupperà l’analisi. Forrest propone qui una ripresa degli studi di storia ecclesiastica istituzionale (che secondo l’A. sarebbero stati in parte trascurati, soprattutto negli ultimi quarant’anni), studi che però dovrebbero basarsi su di un cambio di prospettiva all’insegna di quella che lui chiama una «social church», una chiesa sociale, ossia una storia istituzionale che tenga conto complessivamente anche di fattori che fino ad ora erano analizzati separatamente dalla storia religiosa, sociale, culturale, politica, economica (pp. 4-5). Una visione questa su cui è incentrata l’intera opera.
Il libro è strutturato in quattordici capitoli raggruppati dall’A. in quattro macro-sezioni, ognuna preceduta da una breve ma utile introduzione nella quale si evidenziano gli elementi che verranno sviluppati nei successivi capitoli. Il volume si concentra unicamente sull’Inghilterra, poiché qui il concetto dei fidedigni appare molto più frequentemente che nel resto dell’Europa Latina, specialmente in rapporto a inchieste e visitazioni (p. 93).
Fin dalla prima macro-sezione, Late Medieval Cultures of Trust, emerge il nuovo paradigma avocato da Forrest. Questa parte, infatti, prende in considerazione il concetto di fides dal punto di vista non solo storico ma anche antropologico e sociologico. L’A. si sofferma sulla complessità, spesso negata, di questo concetto nel Medioevo e di come esso fosse polisemantico. Come riconosciuto dall’A. però, i diversi ambiti in cui si declinava il concetto ovviamente non erano indipendenti gli uni dagli altri ma spesso si sovrapponevano.
La seconda parte, Identifying the Trustworthy Men, è incentrata sulla descrizione e la comprensione della figura dei fidedigni e su come il linguaggio della fides fosse utilizzato dai vescovi per identificarli. Dapprima l’A. analizza, nella retorica ecclesiastica del XII e XIII secolo, l’emergere del lessema fidedignus in qualità di giurato e testimone e di come i vescovi avessero ripreso una parola legata alla polisemia del concetto di fides adattandola ad un contesto differente, quello dei fidedigni appunto (cap. 4). Dopo aver sottolineato la mancanza di una definizione di figura sia nelle decretali papali sia nel diritto canonico (pp. 107-109), Forrest considera l’immagine dei trustworthy men che emerge dalle fonti vescovili, immagine incentrata sull’impressione di consenso ed imparzialità emanata dal ruolo simbolico ricoperto dai fidedigni, piuttosto che su una loro integrità personale (pp. 119-127). I vescovi, spesso, erano consapevoli di non avvalersi degli uomini più virtuosi ed onesti tra i parrocchiani ma di quelli che avrebbero garantito per le informazioni che fornivano di fronte alla comunità (pp. 114-119). Infine, l’ultimo capitolo (cap. 6) entra nel dettaglio dell’identità, dello status sociale e della posizione economica dei fidedigni, dimostrando come essi rispecchiassero le ineguaglianze presenti nelle parrocchie stesse, soddisfacendo però, attraverso il loro elevato profilo sociale, agli attributi simbolici loro richiesti.
Nella terza sezione, Trustworthiness and Inequality in the Parish, l’A. discute della relazione tra fides e diseguaglianza. Partendo dalle osservazioni svolte nella parte seconda sulla scelta dei fidedigni, Forrest giunge alla conclusione che lo stesso concetto di fidedignus dipenda dalle molteplici diseguaglianze e si aggiunga a esse, creando un’ulteriore distinzione di status. La relazione si rivela biunivoca poiché, se la fiducia riposta in questi uomini creava, come detto, diseguaglianze, a sua volta la chiesa si basava proprio su queste diseguaglianze per identificare i fidedigni (p. 162). L’analisi parte dalla domanda se queste figure rappresentassero la comunità cui appartenevano (cap. 7), e arriva alla conclusione che essi agissero talvolta per il bene comune e talvolta per il loro proprio interesse o quello dei gruppi a cui erano legati (pp. 185-198). Le stesse categorie di tempo e spazio giocarono un ruolo importante nella rappresentazione delle realtà parrocchiali da parte dei fidedigni (cap. 8). Il capitolo conclusivo (cap. 9) entra ancora più nel dettaglio descrivendo cosa significasse per un “fedele” vivere fianco a fianco con un trustworthy man. L’introduzione di queste figure sarà una nuova variabile all’interno di un mondo in cui le diseguaglianze già esistevano, un’ulteriore differenza gerarchica che aveva conseguenze anche a livello personale sulla fides delle singole persone.
L’ultima parte del libro, Bishops and a Church Built on Inequality and Faith, 1250-1500, prende in considerazione la relazione tra parrocchia e diocesi dal punto di vista del vescovo e la necessità della presenza dei fidedigni in questo rapporto. Da un’attenta analisi del linguaggio e delle idee presenti nelle fonti vescovili, l’A. sottolinea come essi fossero importanti perché servivano a persuadere i parrocchiani ad avere fiducia nel giudizio vescovile ed a mantenere e consolidare le decisioni episcopali. Erano il mezzo attraverso cui il potere vescovile si territorializzava (p. 243), diventando presente a livello locale. L’ultimo capitolo (cap. 14) allarga il discorso ed è incentrato su come le informazioni e la fides modellarono la chiesa tardo medievale. In particolare si sottolinea ancora una volta l’importanza del «movimento di informazioni» (p. 332; 345-347), che contribuì alla formazione dello stesso potere vescovile.
L’impressionante e fondamentale volume di Forrest si distingue quindi per l’innovativa visione del rapporto tra fidedigni, vescovi e diocesi come elementi concorrenti ai cambiamenti della chiesa inglese tardo-medievale, visione sostenuta da una scrupolosa analisi di un’enorme mole di documenti. Se questo aspetto sarà quindi di grande interesse per gli specialisti della materia, di notevole importanza per gli storici della chiesa medievale più in generale (e non solo) risulterà il rinnovato impianto metodologico, in particolare l’idea di una social church alla base di un nuovo interesse per la storia ecclesiastica istituzionale, la cui adozione potrà dare importanti frutti in diversi ambiti della ricerca.