Giacomo Todeschini, “Gli ebrei nell’Italia medievale”, Roma, Carocci, 2018, 268 pp.
Il bel libro di Giacomo Todeschini segue (anche se non cronologicamente) quello dedicato – sempre per i tipi di Carocci, nella collana “Le Frecce” – da Marina Caffiero agli ebrei nell’Italia moderna. Pur trattandosi di due lavori abbastanza diversi per impostazione generale, sono tuttavia accomunati da un elemento importante: entrambi gli studiosi, infatti, cercano di superare l’annosa “ghettizzazione” della storia degli ebrei. Molti storici, del Medioevo come dell’Età Moderna, faticano ancora oggi ad accettare la storia degli ebrei come un elemento pienamente inserito nella storia generale, continuando a condannare all’irrilevanza le vicende di una minoranza – quella ebraica – che fu viceversa uno dei tanti (e certo non dei meno importanti) elementi della società occidentale ben prima dell’Emancipazione.
Fare storia degli ebrei presenti nell’Italia del Medioevo è dunque – come osserva giustamente l’a. – scrivere un pezzo di storia italiana e mettere in discussione una diffusa – quanto erronea – idea di omogeneità culturale e religiosa di tale storia. L’idea che gli ebrei abbiano avuto sempre un ruolo marginale affonda le radici, in Italia, nel pensiero post-risorgimentale e nella revisione storiografica fascista, che tendeva a presentare l’Italia come un soggetto storico unitario, unificato attraverso la religione cristiana, considerando gli ebrei e le loro comunità come una specie di “completamento” della nazione, una sorta di orpello non veramente necessario, a volte tollerato, a volte osteggiato, mai però davvero influente, al massimo inseribile nell’ambito di vicende rigorosamente locali.
La rappresentazione, sostanzialmente artificiosa, di un’Italia armoniosamente cristiana dal IV al XV secolo ha spostato gran parte del dibattito sulla presenza ebraica sulle tematiche – semplificate all’estremo – di tolleranza/intolleranza religiosa, ovvero sul “bisogno” che la società cristiana maggioritaria aveva di una minoritaria componente ebraica. Un grande pregio del lavoro di Todeschini è dunque quello di mettere costantemente in discussione questo stereotipo storiografico, come anche di rileggere le vicende degli ebrei d’Italia uscendo da una rappresentazione - alla Cecile Roth - della “felice convivenza”, che si sarebbe interrotta quasi all’improvviso solo o prevalentemente a seguito delle polemiche antiebraiche quattrocentesche, ad opera soprattutto dei francescani.
Non stupisce dunque che il volume si apra con una riconsiderazione del processo di cristianizzazione dei territori della Penisola italica. I primi tre capitoli sono dedicati al periodo altomedioevale, attraverso una rilettura delle fonti che consente all’a. di ridiscutere e precisare molti degli assunti classici della storiografia in tema di presenza ebraica. Partendo dalla legislazione tardo-imperiale in tema di ebrei, che comunque non privava questi ultimi della loro condizione di cives romani, né vietava loro di servirsi delle proprie leggi in ambito economico e matrimoniale, e di praticare liberamente il culto sinagogale, Todeschini sottolinea l’inutilità – in questa fase – dei tradizionali concetti di tolleranza e repressione. Siamo piuttosto di fronte a “una descrizione giuridicamente formalizzata del contesto sociale e religioso in grado di prevedere la socialità ebraica [...] quale componente ordinaria dell’amministrazione dei territori imperiali”.
La questione delle fonti, e della presenza/assenza in esse della componente ebraica, è affrontata dall’a. con notevole acribia critica: pur ammettendo che non è possibile scrivere una storia fortemente coerente degli ebrei d’Italia prima del X secolo a causa della mancanza di una continuità di fonti narrative che li riguardino, avverte però che ciò non implica affatto un’assenza sostanziale degli ebrei nei primi secoli del Medioevo. Si deve poi rilevare che il silenzio delle fonti su molti aspetti della vita ebraica è simile, per i primi secoli del Medioevo, a quello relativo alla vita quotidiana nell’Italia ostrogota, longobarda e carolingia dei cristiani (niceni, ariani), e dei molti che ancora cristiani non erano.
L’a. affronta poi la classica questione della distribuzione dei gruppi ebraici in Italia nei secoli altomedioevali (gruppi e non comunità, come molto opportunamente viene sottolineato), riconsiderando il significato per il centro-nord delle scarse informazioni disponibili: quelle su Lullus di Pavia, che si cimenta in una disputa di carattere religioso con un magister Pietro (da Pisa ?); le menzioni di ebrei fra IX e X secolo in area lombarda in riferimento alla dottrina eucaristica; il Talmud, che fa cenno alle presenze italiane negli stessi secoli e consente una sia pur sommaria ricostruzione della vita culturale e del funzionamento religioso delle qehillot nel primo medioevo.
La presenza ebraica fu dunque continua, anche se poco omogenea da un punto di vista geografico, e la sua visibilità dipese soprattutto dal livello di complessità raggiunto dalla società non ebraica circostante. Nel secondo capitolo, l’a. si sofferma più sistematicamente sulle diverse storie a nord e a sud di Roma: anche in questo caso, rivedendo e ridiscutendo un assunto classico, quello che vorrebbe i due mondi quasi del tutto divisi e assai diversi tra loro. In realtà, Todeschini mostra in modo a mio avviso convincente che le differenze fra nord e sud dipendono in gran parte (oltre che dalla natura delle fonti) anche dalla conformazione delle due macroaree, sul piano tanto economico che politico. Sottolinea inoltre l’importanza della trasformazione del potere episcopale romano fra IX e XI secolo, oltre che della presenza musulmana in Sicilia e della formazione del Regno normanno. Per il centro-nord, invita a considerare che il Regnum Italiae, dall’VIII all’XI secolo, fu solo apparentemente centralizzato, ma che i poteri erano in realtà profondamente localizzati e regionali.
Grande rilievo viene dato dall’a. alle fonti interne ebraiche, soprattutto a quelle meridionali, che testimoniano di una presenza sostanzialmente vivace, certo più vitale di quanto le fonti cristiane lascino trasparire. Esempi di conversioni celebri al giudaismo (Andrea, arcivescovo di Bari; Giovanni da Oppido) si inseriscono nel quadro di un ebraismo culturalmente forte e attrattivo, e testimoniano della fluidità delle relazioni ebraico-cristiane.
Dei secoli IX e X e della diversa relazione con il potere episcopale romano Todeschini tratta nel terzo capitolo (Roma, il Nord e il Mediterraneo. Gli ebrei italiani tra vescovi romani, imperatori tedeschi e sovrani normanni), nel quale l’a. si occupa più in dettaglio del clima politicamente molto acceso nel quale si trovarono a vivere i gruppi ebraici italiani, caratterizzato dall’inasprimento dei rapporti fra papi e imperatori tedeschi. Fu in questa temperie politica che iniziarono a precisarsi e modificarsi i rapporti con la società cristiana.
Ancora una volta l’a. decostruisce molte classiche interpretazioni, preferendo a una immagine di «secca contrapposizione fra Papato e Impero» quella di un altalenare degli atteggiamenti dei poteri verso gli ebrei. Indubbiamente si fa strada in questo periodo, anche se non in modo sempre coerente, un sempre maggiore timore nei confronti di una presenza ebraica che viene ammessa come del tutto normale, e che spaventa proprio a causa di tale “normalità”.
La seconda parte del libro è dedicata al periodo che va dal XIII al XV secolo. Todeschini ridiscute qui alcuni assunti classici di tanta storiografia, e dedica ampio spazio ai dettami del IV Concilio Laterano (1215), in particolare al tema delle usurae percepite dagli ebrei, alla questione del segno distintivo, alla persistenza – presso gli ebrei convertiti – della pratica dei riti ebraici. L’a. evidenzia come le fonti non suffraghino affatto la vulgata che vorrebbe retrodatare al Concilio il divieto di prestito per i cristiani (che per altro restò lecito e praticato per tutti i secoli finali del Medioevo). Semmai ciò che inquieta maggiormente i padri conciliari è la pervasiva socialità ebraico-cristiana, da qui le norme sul segno e l’attenzione alle pratiche cultuali dei convertiti, che tuttavia denunciano ancora all’inizio del Duecento l’esistenza di un sincretismo religioso diffuso.
Todeschini discute poi dell’imprenditorialità creditizia ebraica, del sistema dei banchi, delle idee – sempre più precise – su come si possano inserire gli ebrei all’interno delle economie cittadine, pur avvertendo che la gran quantità di documenti relativi al prestito ebraico e alle attività economiche degli ebrei non devono farci scordare che la storia ebraica è molto più di questo, e che solo un’ottica storiografica molto parziale può sostenere che il tema principale sia quello delle relazioni tra i prestatori e le città. Più corretto, e più utile alla comprensione del fenomeno, è cercare di distinguere tra la sfera del credito alto – che restò sempre saldamente in mano a gruppi egemoni di cristiani – e il prestito al consumo, gestito – anche se non in modo esclusivo – da alcuni esponenti della società ebraica, che per altro si dedicavano in contemporanea a molte altre occupazioni.
Il sesto capitolo è dedicato al tema delle comunità e dei gruppi famigliari. L’a. discute qui la questione della effettiva strutturazione dei gruppi ebraici quali “comunità”, in particolare per quanto riguarda il centro-nord. Questa è forse l’unica parte del lavoro che non mi convince sino in fondo: si può certamente concordare sull’esistenza di qehillot, in senso sociale e religioso, ma resta a mio avviso poco opportuno l’utilizzo del termine comunità per il tardo medioevo e per le regioni centro-settentrionali, dato che una simile definizione potrebbe ingenerare confusione con la “comunità” di età primo-moderna e moderna, diversa per tanti aspetti da quella degli ultimi secoli dell’età di mezzo.
La questione della cittadinanza a termine ci porta agli ultimi tre capitoli del libro, dedicati ai ruoli sociali, alla presenza civica e ai diritti politici degli ebrei, alla “nascita” della differenza ebraica e – da ultimo – alle politiche di esclusione che diventano sempre più evidenti a partire dalla metà del XV secolo, per poi affermarsi pienamente con la nascita dei ghetti. Anche in questo caso, l’a. invita alla riflessione, criticando una vulgata che vorrebbe una condizione ebraica sempre uguale a sé stessa sino all’inizio dell’offensiva francescana e alle politiche di promozione dei Monti di Pietà, dunque a Quattrocento inoltrato.
Per quanto riguarda il ruolo sociale, Todeschini analizza – nuovamente – la differenza tra fonti prodotte all’interno del mondo ebraico e fonti a questo mondo esterno. Passa dunque dall’ebreo rappresentato nelle Machbarot di Immanuel Romano o nel Melech Artus, agli ebrei della letteratura cristiana, da Boccaccio a Sacchetti, e all’ebreo delle prediche francescane. Ancora una volta, si comprende come l’utilizzo esclusivo – o prevalente – delle fonti di produzione cristiana appiattisca la rappresentazione degli ebrei sulla loro capacità economica o competenza finanziaria, proponendone un’immagine deformata e sempre più stereotipata.
Tendono a differenziarsi, fra Tre e Quattrocento, anche gli approcci delle varie realtà statuali alla popolazione ebraica, contribuendo a modificare la natura delle relazioni ebraico-cristiane nelle “due Italie”. Tuttavia – e l’a. lo spiega molto chiaramente – si può comprendere il nuovo atteggiamento solo considerando la condizione sempre più precaria degli ebrei, sottolineata dall’adozione del segno distintivo, e da una percezione della loro presenza come “eccezionale”, non più, quindi, tutelata per legge. I cicli di predicazione antiebraica, dunque, non avvennero sistematicamente in contrasto con le politiche cittadine; gli ebrei erano ormai spesso percepiti come presenze perturbanti, da tenere sotto controllo, mentre i poteri cristiani tendevano sempre più ad arrogarsi il diritto di valutare, giudicare ed – eventualmente – condannare le pratiche sociali ed economiche dei non-cristiani, de his qui foris sunt. Gli ebrei si trasformano in una minaccia, da eliminare mediante il battesimo forzato (rovesciando l’ottica agostiniana) ovvero da rinchiudere nei ghetti.
In conclusione: un libro, quello di Todeschini, fondamentale, che si presenta come un manuale, ma che è molto più di quello, un manuale nell’accezione più “alta” che tale termine può avere, e che rappresenta una imprescindibile lettura non solo per chi sia interessato a ridiscutere il ruolo degli ebrei nella nostra Penisola, ma anche per chi voglia avere un esempio di come le fonti possano e debbano essere interrogate quando si voglia davvero comprendere il significato della presenza di una minoranza nella storia d’Italia.