La narrazione della storia
Come è noto tanti e tanto diversi sono i nessi e le interrelazioni tra l’autore di una ricerca storica, l’oggetto-argomento della medesima, la scelta delle fonti su cui basare o confrontare le relative ipotesi (siano esse all’inizio confusamente delineate, o in seguito precisate, abbandonate, modificate). Ma sono tanti e tanto diversi anche gli approcci di metodo con cui le fonti vengono selezionate, i modi con cui si cerca di interpretarle, il montaggio-racconto che viene dato al prodotto che si va a costruire. Quando si fa ricerca storica non ci sono prontuari, vademecum, breviari, guide, e così via, di cui seguirne fedelmente le eventuali istruzioni. Quanto alle fonti, di cui si vorrebbe disporre, si sa che possono essere tante, poche o del tutto esigue. O anche mancare del tutto. Si è diventati altresì sempre più consapevoli che continuare a discutere sulle relative classificazioni, che soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento in poi sono state via via proposte, non serve più di tanto. E che non ci sono più rigide gerarchie di rilevanza da rispettare (ma ovviamente se si intende indagare in modo corretto su un dato oggetto di studio non si possono ignorare determinate fonti o sceglierle in modo arbitrario). Se è vero che tutto è o può essere considerato fonte, è anche vero che è opportuno cercare di conoscere le rispettive, e quasi sempre complesse e intricate, stratigrafie.
Le fonti sono da ricondurre, da «restituire», secondo l’accezione usata da Starobinski [2003], all’interno degli specifici contesti di appartenenza (a loro volta in relazione con altri più vasti). Sono inoltre da tener presenti i modi tramite i quali esse sono state prodotte – ex novo o ricalcandone altre precedenti – come siano state conservate, selezionate, trasmesse. E, in certi casi, modificate sia deliberatamente sia per determinate causalità, nonché, almeno per alcuni aspetti, condizionate dagli usi che ne hanno fatto i relativi detentori o da chi le ha nel tempo utilizzate in ricerche storiche. Conoscere i contesti specifici alle varie fonti, come pure le tradizioni e le storie che le hanno segnate, non significa ovviamente restare all’interno dei rispettivi confini; significa piuttosto che, nello scegliere quelle che si vogliono utilizzare per una data ricerca, si riesce meglio e più correttamente a decontesualizzarle, a confrontarle e intrecciarle con altre di altri contesti, e successivamente ricontesualizzarle in un discorso storiografico.
Come è noto, già verso la metà del secolo scorso il questionario delle domande che lo storico era solito porre alle fonti si era enormemente allargato. La tipologia di quelle che si potevano utilizzare era diventata molto più variegata e diversificata rispetto a quanto era accaduto in precedenza. In seguito non si sono verificate rilevanti inversioni di tendenza, anche se alcune tematiche hanno perso terreno, altre hanno conosciuto ridimensionamenti e modificazioni, altre ancora sono andate sempre più affermandosi. È stata altresì prodotta una certa quantità di opere che per argomento, metodo d’approccio, uso delle fonti, hanno introdotto elementi di novità all’interno del panorama storiografico.
Così nel 1981 Arnaldo Momigliano, nel riflettere sulla letteratura storiografica prodotta nel quinquennio 1961-1976, osservava che «la caratteristica del nostro tempo» sta nella grande «inventività di forme storiografiche» che si è andata accumulando, nonché nella frammentazione che la disciplina stava conoscendo; il che peraltro non doveva far dimenticare «che fare storia significa studiare fonti» [Momigliano 1981, 495]. Non poche sono state altresì le discussioni e i confronti tra studiosi di varie discipline a proposito dei diversi modi di fare storia e delle convergenze e/o differenze tra storiografia e narrativa, soprattutto dopo il noto saggio di Laurence Stone [Stone 1979] e il vivace dibattito che seguì (al quale non giovò peraltro l’ambiguità insita nel termine narrazione, su cui Stone aveva insistito). Anche alla possibile utilizzazione di romanzi come fonte storica, specie in quanto rappresentazioni di vissuti o di determinati spaccati di realtà, si incominciò in quegli anni a prestare maggiore attenzione. Come è stato osservato da Luciano Canfora «la narrativa […] è essa stessa fonte storica: per certe epoche assai più significativa dello stesso racconto storiografico» [Canfora 1983, 806].
Alla narrativa, e non solo ottocentesca, o meglio ai suoi modelli, forme e tecniche narrative non pochi storici hanno continuato in seguito a guardare con notevole interesse. Nel farlo non si intendeva annullare la distinzione tra letteratura e storiografia, tra racconto di finzione e racconto storico, tra retorica e verità, come andava proponendo Hayden White [White 1973]. E neppure limitarsi a sottolineare le differenze tra romanzo e storia, respingendo qualsiasi possibilità di confronto tra i due ambiti, o ribadire che quando si scrivono opere di storia si deve tener presente che «la storia […è] essenzialmente un‘arte letteraria» [Duby 1986, 50] o «un genere letterario» con proprie particolari specificità [Le Goff 1986, XIV].
Gli storici hanno piuttosto cercato di prestare maggiore attenzione agli aspetti letterari della loro produzione, senza con ciò compromettere lo statuto scientifico della storiografia. Riflettendo su alcuni suoi lavori Natalie Zemon Davis ha osservato che «le tournant littéraire a été […] l’occasion de réorienter la réflexion sur les documents dont se servent les historiens.[…] On dirait que au présent l’historien se demande, en outre, comment les sources sont tramées, à quelles métaphors on y a recouru, quelles histories elles racontent» [Zemon Davis 1989, 138]. E si è anche cercato di verificare se e come la storiografia possa utilizzare tecniche e modalità proprie della letteratura (e del cinema). Ad esempio se chi scrive di storia debba sempre e comunque seguire sequenze espositive diacroniche o anche successioni temporali discontinue (quelle presenti, per ricordarne alcune, nelle opere di Marcel Proust, James Joyce, Virginia Woolf) che, come scrive Krackauer, «scompongono risolutamente la (fittizia) continuità nel tempo» [Krackauer 1985, 145]. O se, nello studiare un dato evento e nel volerlo analizzare da più punti di vista, non si possa trarre suggestioni da opere cinematografiche. Per esempio dall’ormai classico – è del 1950 – Rashomon di Akira Kurosawa – in cui tre personaggi raccontano i fatti in modo diverso e così non si sa chi dice il vero e chi no – oppure da film più recenti come quelli che Clint Eastwood ha dedicato nel 2006 alla battaglia di Iwo Jima: Flags of Our Fathers teso a rappresentarla dal punto di vista degli americani e Letters from Iwo Jima teso a rappresentarla dal punto di vista dei giapponesi (ma di esempi se ne potrebbero fare molti altri).
Nello stesso tempo gli storici hanno cercato di contrastare lo scetticismo nei confronti del lavoro storico e delle procedure che lo connotano e dei risultati cui perviene, presente nelle opere di White, autore che ha trovato non pochi seguaci soprattutto in ambito anglo-americano. Il dibattito è stato vivace e, tra consensi critici ed estreme radicalizzazione, si è protratto a lungo. Ricordare le tante voci che l’hanno animato richiederebbe molto spazio. Per averne un’idea può essere utile leggere i saggi e le recensioni a opere che hanno ripreso le tematiche care a White, pubblicati, lungo gli anni Ottanta e Novanta, sulla rivista «History and Theory».
Metahistory di White è stato tradotto in Italia abbastanza presto, ma non ha dato luogo, salvo alcune eccezioni («Storia della storiografia» 1993-1994 e «Rivista di storia della storiografia moderna» 1993) a vivaci discussioni. Il dibattito sulle sue tesi, e su quelle di suoi seguaci o epigoni critici, è peraltro ripreso in anni recenti, in occasione della pubblicazione in lingua italiana di una raccolta di suoi saggi [White 2006]. Lo ha ad esempio ripercorso, non senza commentarlo con opportune annotazioni, Giuliana Benvenuti [2009]. Altri storici hanno fatto al riguardo interessanti riflessioni [Moretti 2009].
Haydn White «tratta gli storici, al pari di tutti gli altri narratori, come retori che si possono caratterizzare per i loro modi di discorso», eliminando con ciò «la ricerca della verità come compito fondamentale dello storico», sono affermazioni, efficacemente argomentate nelle pagine successive, che si leggono all’inizio di uno scritto di Arnaldo Momigliano, uno dei primi studiosi italiani a confrontarsi con le posizioni assunte dallo studioso americano [Momigliano 1984, 465]. Egli prendeva così le distanze dalla delegittimazione che White, nel ridurla a retorica e nel negare l’importanza che la prova ha nel lavoro dello storico, aveva intentato nei confronti della storiografia. Contro chi tendeva a sfumare la linea di demarcazione tra narrazioni di finzione e narrazioni storiche fino a cancellarla, ha, come è noto, combattuto in vari modi e per una ventina d’anni Carlo Ginzburg [Ginzburg 1998, 2000, 2002, 2006]. Le possibili relazioni tra letteratura e storiografia, le forme narrative utilizzabili da chi scrive di storia, i rapporti sempre problematici, ma pur sempre necessari tra lo storico e le fonti cui attinge per costruire un dato discorso storiografico, non erano del resto tematiche da accantonare. Le osservazioni e suggestioni che Ginzburg è andato via via proponendo, hanno incontrato sia dissensi, sia consensi. Particolarmente feconde di conseguenze e suscettibili di ulteriori riflessioni sono quelle che, nel criticare le tesi di White e più in generale del decostruttivismo, riguardano i modelli narrativi presenti nella ricerca storica. Questi – scrive Ginzburg – non intervengono «solo alla fine, per organizzare il materiale raccolto» ma «agiscono […] in ogni stadio della ricerca, creando divieti e possibilità» [Ginzburg 2000, 48]. Nel saggio in cui procede a una raffinata analisi del famoso spazio bianco che separa il V dal VI capitolo della terza parte dell’Educazione sentimentale di Flaubert, afferma di rifiutare una possibile «indistinzione tra storiografia e romanzo». Ma aggiunge che sarebbe troppo semplicistico fermarsi al «prodotto letterario finale senza tener conto delle ricerche (archivistiche, filologiche, statistiche e così via), che l’hanno reso possibile». Il rapporto che lo storico ha con le fonti dà luogo a «narrazioni» paragonabili a «istanze mediatrici tra domande e fonti che influiscono profondamente (anche se non in maniera esclusiva) sul modo con cui i dati storici vengono raccolti, eliminati, interpretati – e infine, naturalmente narrati» [Ginzburg 2000, 122-123].
É partendo da queste, ma anche da altre considerazioni, che qualche anno fa una rivista italiana ha sollecitato alcuni storici a interrogarsi ulteriormente sui rapporti tra letteratura e storiografia e sui romanzi come fonte storica, a partire dall’utilizzazione che essi stessi ne avevano fatto. O anche di quella fatta da altri storici: ad esempio da Maurice Agulhon nel suo lavoro su luoghi della sociabilità in Francia lungo la prima metà dell’Ottocento [Agulhon 1993] o da Peter Gay che ha preso in esame alcuni romanzi di Charles Dickens, di Gustave Flaubert, di Thomas Mann [Gay 2004]. Le voci degli studiosi, di cui nella rivista si dà conto, toccano registri diversi. Banti, nel riflettere sui suoi studi di storia della cultura [Banti 2000; 2005a], afferma che volendo andare alla ricerca di determinati «sistemi discorsivi», ha considerato i romanzi «al pari di altre fonti narrative – come le opere poetiche, teatrali o melodrammatiche». A suo parere, «non esiste testo (quindi non esiste fonte) che non sia composto da una miscela variabile di osservazione documentaria, di invenzione narrativa, e di tecniche della narrazione o della esposizione retorica». Questo non impedisce peraltro di verificare «ciò che – in un’opera di fiction – vi è di attendibile e ciò che, invece, deriva dal puro lavoro di invenzione» [Banti 2005b, 687-688].
Che i romanzi debbano essere letti soltanto come «insiemi discorsivi» non è opinione condivisa da Maria Malatesta, che preferisce avvicinarsi ai testi letterari «con la consapevolezza di cercare al loro interno quei sistemi di rappresentazione utili per giungere a una maggiore comprensione delle culture di un determinato periodo». Il romanzo quindi non è «né solo fonte, né solo discorso», ma piuttosto «testimone di un’aura, più che di un’epoca o di un evento» [Malatesta 2005a, 699]. É questo l’approccio da lei seguito nello studio che ha dedicato al romanzo di Hans Fallada Ognuno muore solo [Malatesta 2005b]. Il libro, uscito postumo in Germania nel 1947, è stato pubblicato in Italia nel 1950 dall’editore Einaudi, cui seguì, nel 1995, una seconda edizione, prefata da Italo Alighiero Chiusano. Questi, nell’inserire l’autore all’interno del complessivo contesto del nazismo, ne sottolineava soprattutto il valore di «testimonianza». Per Malatesta il romanzo di Fallada è sia «testimonianza», sia «una delle tante rappresentazioni del nazismo». È dunque nella sua «dimensione multipla del discorso, della rappresentazione, della testimonianza che anche il romanzo novecentesco diventa una fonte per gli storici» [Malatesta 2005b, 140].
Luisa Passerini più che su possibili utilizzazioni di romanzi come fonte storica, ha invece riflettuto sulle contaminazioni che possono crearsi tra romanzo e storia e sulle tecniche letterarie cui ha fatto ricorso nel dar conto dei risultati di sue indagini. Partendo dalla constatazione che il romanzo è «un mega-genere, che comprende molte varianti, per non parlare delle contaminazioni», e che esso «si è lasciato elegantemente influenzare a sua volta dalla storia» (come è il caso ad esempio dei romanzi di Amtav Ghosh), avanza alcune osservazioni su sperimentazioni da lei fatte sia in ricerche di storia orale, sia nel costruire due sue opere [Passerini 1999; 2008]. Riflettendo sulle modalità narrative utilizzate nello scriverle, afferma che ha soprattutto cercato «di far esplodere la struttura narrativa tradizionale», andando «al di là dei generi narrativi» specifici, e cercando piuttosto di offrire «una specie di inventario di forme narrative diverse [Passerini 2005, 708]. Prima di terminare questa rapsodica e lacunosa carrellata, sono altresì da ricordare le riflessioni sul rapporto tra storia e narrazione avanzate di recente da Giuseppe Recuperati che vorrebbe aprire sulla «Rivista storica italiana» «una rubrica di confronti-frontiere-intersezioni, intitolata "Clio e le altre muse", partendo dal rapporto storia- letterature, per toccare altre discipline» [Recuperati 2011].
Il dibattito francese
Come si vede le opinioni di storici italiani a proposito di distinzioni/indistinzioni, contaminazioni/separazioni, parallelismi/convergenze tra letteratura e storiografia e dell’utilizzazione di romanzi come fonte storica, sono state talvolta abbastanza simili, talaltra differenziate. É probabile che tali continueranno a essere anche in futuro, specie se si guarda a quanto sta accadendo negli ambienti storici francesi, dove le discussioni a proposito di letteratura e storia sono diventate piuttosto vivaci, stando ai recenti saggi pubblicati sotto il titolo Savoirs de la littérature («Annales», 65 (2), 2010) e L’Histoire saisie par la fiction («Le Débat», (165), 2011).
Nel testo di apertura di Savoirs de la littérature, Étienne Anheim e Antoine Liltri [2010] affermano che non vale la pena di continuare a dibattere sulle sfide lanciate da White – che peraltro non sono state in passato molto discusse in Francia – nonché sulle provocazioni di Paul Veyne o sulle riflessioni di Paul Ricoeur. Meglio invece interrogarsi su «la nature du savoir dont la littérature est […] portuese»; e se essa abbia la capacità, peraltro variabile secondo i tempi, i generi, gli autori, di «produire, par les formes d’écriture qui lui sont propres, un ensemble de connaissance, morales, scientifiques, philosophiques, sociologiques et historiques», se essa abbia cioè «un véritable potentiel cognitif» [Anheim, Liltri 2010, 253-256]. I rapporti tra storiografia e letteratura non possono essere ridotti, alle distinzioni, ritenute oramai datate, tra realtà e finzione, tra verità e immaginazione. Soprattutto se si va oltre il romanzo "realista", la Comédie humaine di Balzac continua a essere un terreno da indagare in base a nuove modalità di lettura e approcci interpretativi [David 2010] e se si pone l’attenzione – come fanno Emmanuel Bouju [Bouju 2010] e Patrick Boucheron [2006; 2010] su romanzi contemporanei, quali ad esempio quelli di Manuel Vázquez Montalbán [1992], di Jonathan Littell [2006] e di Yannick Hænel [Hænel 2009]. É questa una letteratura che, secondo le opinioni espresse da storici nel 2010 su le «Annales» e nel 2011 su «Le Débat», «mima la scena storiografica contemporanea», seminando pertanto inquietudini di vario genere tra gli storici di professione.
Su «Le Débat» non poche sono le voci che sottolineano come le frontiere tra creazioni letterarie e opere storiografiche siano diventate vaghe e incerte. Per alcuni la proliferazione dei dibattiti sulle relazioni e i contrasti tra letteratura e storia sono soprattutto «un symptôme de l’état d’incertitude qui est celui de l’ensemble des disciplines relevant des humanités et des sciences sociales» [Compagnon 2011]; per altri essa ha portato conseguenze complessivamente proficue sia per gli storici che per i letterati. Tale è l’opinione, espressa peraltro con differenti sfumature, da Pierre Nora [2011], Patrick Boucheron [2011] e Gérard Gengembre [2011]; quest’ultimo riporta fra l’altro un’acuta annotazione tratta da Fiction et diction di Gérard Genette: «Si l’on considére les pratiques réelles, on doit admettre qu’il n’existe ni fiction pure ni Histoire si rigoureuse qu’elle s’abstienne de toute "mise en intrigue" e de tout procédé romanesque». Alcuni studiosi inoltre, pur non negando che tra storici e romanzieri – una volta accantonate reciproche annose diffidenze – ci possano essere fecondi rapporti, ribadiscono «l’irréductibilité de l’histoire au roman», in quanto la prima ha delle precise regole da rispettare; e tra queste la verificabilità delle affermazioni contenute nei récits storici sulle rispettive fonti [Ozouf 2011].
Che tra le fonti siano da collocare anche i romanzi lo si va dicendo, come si è visto, da tempo. Ma oggi, secondo alcuni, è opportuno riflettere maggiormente sui modi e le cautele con cui questo tipo di fonte è da utilizzare. Una fonte che, come scrive Alan Corbin [2011, 60] si rivela preziosa soprattutto quando si vuole indagare su «les émotions, les sentiments, les représentatons d’un individu qui non seulement n’a pas laissé de traces, mais appartient à un groupe au sein duquel personne n’a produit d’écriture de soi».
In Francia dunque in questi ultimi anni si è andato riproponendo un serrato confronto tra storici e letterati. Le analisi e le riflessioni avanzate dagli uni e dagli altri sembrano concordare sul fatto che la letteratura da un lato non va identificata con la mera finzione, dall’altro che le opere di finzione possono dare un contributo importante alla stessa concezione della storia e della storicità. Il termine finzione viene con sempre maggiore frequenza esaminato nella sua variegata polisemia e nella diversità dei contesti (letterari, artistici, filmici, ecc.) in cui viene utilizzato. Meno netta sembra sia diventata l’opposizione o l’antinomia tra «realité» e «fiction», come risulta dai saggi pubblicati qualche anno fa su una rivista francese in un numero interamente dedicato a Vérités de la fiction [Flahault F., Heinich N. 2005]. Le opere di romanzieri, anche per quanto attiene alle tecniche narrative e alle forme stilistiche che le connotano, stanno diventando sempre di più oggetto di specifica attenzione da parte degli storici (e più in generale degli scienziati sociali) interessati a confrontarsi con analisi, categorie, generalizzazioni tipologiche utilizzate dai letterati.
Conclusioni
É probabile che, al di là delle suggestioni che ci vengono dagli ambienti culturali francesi e dei risultati, non tutti peraltro convincenti, che vi sono connessi, gli storici continueranno ad avvicinarsi ai romanzi secondo modi e approcci diversificati. Ci sono stati infatti, e ci sono, storici che li usano senza porsi troppi problemi circa una loro peraltro non trascurabile specificità; così nello scrivere di storia e nell’indicare, in quelli che Pomian chiama «marchi di storicità» [Pomian 2001, 277], su quale documentazione sono basate le loro argomentazioni, passano senza soluzioni di continuità da un tipo all’altro di fonti. Ci sono storici che li considerano prodotti, di cui è possibile ricalcare determinati espedienti narrativi o artifici letterari. E ce ne sono altri che considerano i romanzi come fonti – caratterizzate da particolari specificità e da analizzare in base a rigorose analisi filologiche – da cui trarre informazioni, verificabili se possibile su fonti di altra natura. Oppure ritenute in se stesse significative in quanto i romanzi, e anche altre fonti letterarie – come le memorie, i diari, le autobiografie, le lettere, le rappresentazioni teatrali, e così via – possono fornire informazioni sulla sfera privata delle persone, sui loro sentimenti, emozioni, pensieri, fantasie, eccetera. E questi sono aspetti di cui di rado troviamo traccia in fonti documentarie, come viene sottolineato da Mona Ozouf nello studio sulle persistenze e contraddizioni culturali e sociali tra la Francia dell’ancien régime e la Francia uscita dalla rivoluzione dell’89 [Ozouf 2001]. Ci sono quelli che, pur sapendo «quanto la storia sia "scienza del contesto"», non ritengono che si debba prestare attenzione «ai singoli specifici contesti nei quali un autore ha operato, o un testo è stato pubblicato, o ha cominciato a circolare». Se si è interessati a studi di storia della cultura che vogliono indagare sui sistemi discorsivi, è preferibile porre attenzione ai «nessi intertestuali», e quindi a perseguire una «scienza dell’intertesto» [Banti 2005a, XII]. Ci sono altresì storici che assumono i romanzi come testimonianze di vissuti personali propri di determinati ambienti, epoche, culture nonché, ed è l’opinione di Boucheron, come un «tentative littéraire de représenter ce qui est devenu pour nous irrepresentable» [Boucheron 2010, 462]. E l’esemplificazione potrebbe continuare.
In breve, le istanze mediatrici che possono essere instaurate lungo un processo di ricerca storica sono tante e spesso diversificate. Per quanto riguarda quelle che intercorrono tra domande e fonti, è vero, come più volte è stato detto, che queste ultime restano mute se non le si sa interrogare, ma è anche vero che esse, quale che sia la loro natura, sono da ascoltare in un atteggiamento di «passività attiva», per usare il noto ossimoro di Kracauer. Ciò comporta che lo storico «deve avventurarsi per le diverse strade suggeritegli dai suoi rapporti con le prove, lasciarsi trasportare e accogliere con tutti i sensi ben desti, i vari messaggi che gli accade d’incontrare» [Krackauer 1985, 68]. Nel farlo, lo storico tende a seguire due strade: «la tendenza realistica che lo induce a fare incetta di tutti i dati che gli interessano, e la tendenza costruttiva che gli richiede di spiegare il materiale che è nelle sue mani. É insieme attivo e passivo, registra e crea allo stesso tempo» [Krackauer 1985, 38]. Ma registrare, cioè annotare e cercare di capire quello che le fonti dicono, e creare, cioè tradurre in altre forme e linguaggi quanto le fonti dicono (o non dicono) implica molti passaggi, tutti insidiosi e da percorrere con cautela. Ed essi sono diversi a seconda delle fonti con cui si ha a che fare. Utilizzare questo o quel romanzo come fonte storica può essere rischioso se non si fa ricorso a determinate precauzioni. E se non si riflette sul fatto che proprio «en assumant pleinement sa dimension fictionnelle que la littérature est susceptible de produire une connaissance de l’histoire» [Boucheron 2010].
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