Javier Fernández-Sebastián, Key metaphors for history. Mirrors of time. New York: Routledge, 2024. 338 pp.
Situato al confine tra storia concettuale e metaforologia, questo libro si pone l’obiettivo di studiare (senza alcune pretesa di esaustività) la storia di alcune decisive e rilevanti metafore che storici di professione, ma anche politici, giornalisti, filosofi hanno utilizzato per descrivere la storia, intesa sia come l’ordito di fatti ed avvenimenti concreti, sia come la narrazione sistematico-scientifica intorno a essi (p. 2). Si tratta di un tentativo molto ambizioso, che maneggia in maniera invidiabile una grande mole di materiale (perlopiù testi e immagini), unendo fonti primarie e letteratura critica in modo molto dotto e travalicando i campi di ricerca di partenza, per avventurarsi sovente, nel corso dell’esposizione, sul terreno della storia della storiografia e, più in generale, della teoria della storia.
Il punto di partenza del lavoro di Javier Fernández-Sebastián, sul piano metodologico, è costituito da una serie di acquisizioni che gli studi novecenteschi sulla metaforologia (che molto devono soprattutto al pionieristico lavoro di Blumenberg) hanno consegnato, in particolare la consapevolezza che l’importanza dell’uso delle metafore riveste per la storia e più in generale per le scienze sociali: lungi dal rappresentare un livello dell’intuizione e della rappresentazione prerazionale e arretrato rispetto alla conoscenza scientifica, come codificato dalla tradizione illuministica, le metafore sono piuttosto da intendersi come strumenti conoscitivi a tutti gli effetti, capaci in alcuni casi di aprire un campo del sapere non immediatamente accessibile ai concetti o, in altri casi, di favorire, con il loro potere immaginativo e performativo, la genesi di nuovi e più adeguati concetti della conoscenza storica (pp. 6-7).
Il libro si articola in sette capitoli, organizzati in due parti: la prima dedicata alle «metafore concettuali per la storia» (pp. 19-132), la seconda ai «concetti metaforici nella storiografia» (pp. 133-255). Chiudono il libro le «riflessioni finali» (pp. 259-283), la ricca Bibliografia (pp. 284-311), l’Indice dei nomi e degli argomenti (pp. 315-338).
La prima metafora che incontriamo nel viaggio che l’autore conduce nelle pieghe del suo racconto è quella dello specchio (pp. 24-29) – secondo la quale la storiografia riflette oggettivamente e senza modificazioni quanto accade nella realtà –, destinata a entrare in crisi quando si afferma, nella prima modernità, l’idea della prospettiva (la narrazione storica non è una mera riflessione oggettiva, ma dipende dal punto di vista adottato dal narratore) (pp. 30 segg.). D’altro canto, se la storia viene metaforicamente rappresentata, nella modernità inoltrata, come treno o locomotiva (pp. 40-41), con la crisi novecentesca della filosofia della storia prevalgono invece le metafore spaziali, in corrispondenza della crisi dell’idea di progresso (p. 50).
L’autore ce le mostra soprattutto nel secondo capitolo, che offre al lettore una carrellata delle varie possibilità geometriche riferite al rapporto tra tempo e storia: così il tempo ciclico si oppone a quello in linea retta, e ai due segue anche una concezione puntuale (quella benjaminiana, ad esempio) del “tempo-ora” (pp. 64-7). Ma si può attingere anche dal grande libro della natura: Fernández-Sebastián ci mostra così le metafore acquatiche, in forza delle quali la storia è un fiume in piena (p. 71) oppure, in epoche di crisi, un lago tendenzialmente immobile e perlopiù oscuro e torbido; oppure quelle atmosferiche, riferite alle epoche storiche, per evidenziare che in ciascuna è presente un clima generale che ne connota stabilità e persistenza (p. 73).
Il movimento, qui, cede il passo alla stagnazione, il progresso alla crisi, la filosofia della storia alla decadenza, e il fiume o il treno lasciano posto all’immagine della turbolenza (pp. 77-78). Si tratta sempre, in ogni caso, di cogliere lo sfondo o l’implicazione concettuale delle metafore utilizzate. Come quando la relazione tra stasi e movimento è dialettizzata nella figura della soglia, quella fase – più o meno lunga, e più o meno lenta – di passaggio da un’epoca a un’altra (p. 74). Quanto alle metafore spaziali, quella certamente più usata è quella della stratificazione geologica, funzionale a indicare la contemporanea presenza sul piano sincronico di varie temporalità storiche (pp. 74-77), ampiamente saccheggiata dagli storici contemporanei dopo il lavoro della scuola delle Annales e poi di Koselleck.
A proposito di quest’ultimo, bisogna menzionare le sue metafore straordinariamente innovative che descrivono la storicità della memoria, e in particolare l’uso politico-ideologico che di essa viene fatto. Se la metafora della lava incandescente è convocata per descrivere la dimensione fiammeggiante, dolorosa, incomunicabile e immobilizzante della memoria privata, la metafora della chiusa (della diga artificiale) è invece esibita per designare il carattere artefatto e innaturale del costrutto memoriale collettivo, rielaborato ideologicamente per essere usato moralisticamente sul piano pubblico (pp. 88-89).
La consistenza della metaforologia per la storia è evidente anche quando si ponga attenzione alle tre dimensioni del tempo. Così la relazione tra passato e presente è ogni volta schematizzata mediante il ricorso alle metafore e alle opposizioni: quella tra patria e terra straniera (il passato), o quella tra vivi e morti (cos’altro è il passato, se non il mondo dei morti o, al limite, una terra straniera?) (pp. 107-110). Non meno rilevante è il futuro: anche in questo caso le metafore si sprecano, dai semi (i germi del presente che matureranno nel futuro), agli orizzonti, dalla luce ai frammenti (pp. 120 segg.).
Altrettanto elaborata – ma questa volta incentrata sui concetti – è la seconda parte del libro, che ricostruisce le discussioni teoriche intorno a grandi plessi concettuali che hanno caratterizzato la storiografia moderna e contemporanea, e al cui fondo vi è l’implementazione dell’ordine del discorso metaforico descritto nella prima parte del libro. La dialettica tra eventi e strutture, ad esempio, richiama in parte quanto precedentemente detto intorno alla relazione tra tempo puntuale (proprio dell’evento) e ripetizione di lunga durata (propria, invece, delle strutture). Tra queste due possibilità – a dire il vero sempre date in un rapporto di reciprocità – emerge, soprattutto in età moderna, il concetto di processo (di storia processuale), atto a descrivere un’unità organizzata di eventi che si svolge ordinatamente verso il futuro (pp. 154-57), e la cui descrizione si dota di tutto l’armamentario metaforico della filosofia della storia prima descritto. Su questa scorta, infine, gli ultimi due capitoli descrivono in modo speculare due triadi concettuali («rivoluzione–crisi–modernità» da un lato, «progresso–declino–transizione» dall’altro), nelle quali viene plasticamente mostrata l’opposizione dialettica tra la concezione della rivoluzione come progresso storico – e come destino della modernità – e quella della transizione epocale segnata dalla crisi o, peggio, dal declino di una determinata forma della vita storica (secondo le opposte concezioni della filosofia della storia da un lato e del suo controcanto antistoricistico dall’altro, che hanno largamente segnato la vicenda della storiografia moderna e contemporanea).
Quello di Fernández-Sebastián si presenta, in ultima analisi, come un grande lavoro ricostruttivo ed esplorativo, che indaga in maniera non scontata una materia ricca di sfumature e di figure retoriche, concettuali e metaforiche. Siamo in presenza di uno strumento utile per lo storico del pensiero, ma anche di un tentativo di ripensare criticamente la relazione (non solo concettuale) tra le dimensioni del tempo storico, che si pone l’obiettivo – pienamente raggiunto, a nostro avviso – di indurci a riflettere, oltre l’egemonia del presentismo, sulla necessità di una riflessione critica intorno alla storicità della storiografia.