Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

La peste come paradigma. Il medioevo in “Storia delle epidemie” di Frank M. Snowden

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Abstract

The scientific and historiographical debate about the pathological identity of the three plague pandemics is now apparently closed. New frontiers opened up by palaeogenetics allows a chronological reassessment, a global overview and a reinterpretation of the past that was unimaginable a few decades ago. But can the history of diseases be limited to a natural history oriented solely by current microbiological and epidemiological criteria? The chapters dedicated by Frank Snowden to the medieval plague allow us to reflect further on the methodology and purpose of historiography on diseases and their diverse consequences, not forgetting that a disease is also a cultural factor.

– Conservi il suo sangue freddo, commissario, – disse Lucien uscendo dalla stanza. – Marc è un po’ pignolo, come tutti i medievisti. Si perde nei dettagli e non vede l’essenziale. […]

Marc sorrise e si scansò per lasciar uscire Lucien.

– Cosa fa il suo amico? – domandò Adamsberg.

– […] è un contemporaneista, uno specialista della Grande Guerra. Tra noi ci sono dei conflitti epocali.

(F. Vargas, Parti in fretta e non tornare, Torino: Einaudi, 2004, 149)

Il cavaliere dell’Apocalisse

Queste pagine non sono una recensione a Storia delle epidemie di Frank M. Snowden, ma sintetiche riflessioni scaturite dalla sua lettura da parte di un medievista; e il medioevo in Storia delle epidemie, senza stupore, è tutto racchiuso nella pandemia di peste. [1]

La peste, soprattutto nella sua manifestazione tardomedievale, e ancor di più nell’epidemia inaugurale del 1347-52 (la c.d. “peste” o “morte nera”, nome invalso nell’uso a partire dal XVIII secolo), continua a godere del ruolo di “madre di tutte le pandemie”, e in ciò Snowden si allinea a una lunga, ma storicamente databile, tradizione. Un ruolo a tal punto introiettato da apparire quasi “naturale”: concorrono a costruirlo la tipologia della malattia, per sintomatologia e mortalità; l’impatto demografico; le conseguenze sociali e mentali, nonché economiche, intellettuali, forse artistiche; una lunga – e, va detto, in qualche caso sublime – tradizione letteraria, che unisce, a seconda dell’intervallo nosologico e cronologico scelto, Tucidide (sì, anche Tucidide) a Camus e Malaparte, passando per Procopio, Paolo Diacono, Boccaccio e Manzoni, per citarne solo i vertici. Non ci si può nascondere, inoltre, che verosimilmente pesa sulla caratterizzazione apocalittica della peste nera il fatto di avere colpito una società, quella tardomedievale, che ben si presta – ma solo apparentemente più di altre – a far sì che una pandemia violenta, rapida, catastrofica, sia costruita come fenomeno globale e totalizzante. Anche se ormai la storiografia ha da tempo ridimensionato le declinazioni più estreme di un “autunno del medioevo” e di una “crisi del Trecento”, la più “buia” (verrebbe da dire “la più medievale”) delle società sembrerebbe la miglior candidata a essere, in sostanza, connotata dalla più drammatica delle pandemie. Lo dimostra, peraltro, l’uso – anche da parte del sottoscritto – della prevalente aggettivazione di “medievale”, quando, se preso in considerazione come fenomeno pandemico unitario, si dovrebbe specificare “medievale-moderna”.

Non si tratta di una tendenza nuova: anzi, essa è storicamente individuabile come fenomeno nato nel corso del XIX secolo, quando in area tedesca una storiografia medica ispirata dall’emergente epidemiologia – e non a caso in concomitanza dell’epidemia di colera – “isolò” la peste nera, rendendola in sostanza la pandemia, un’interpretazione «gotica» (Getz 1991; Nutton 2008) che, volenti o nolenti, ha connotato tutte le successive indagini storiche (e il “senso comune”, se si può utilizzare tale imprecisa categoria) in modo, appunto, paradigmatico: aderendovi, dunque, o tentando di negarla o meglio delinearla, essa resta sempre sottesa.

Nonostante i dubbi espressi da molta storiografia specialistica, sembra resistere la funzione di spartiacque cronologico da assegnare alle pandemie, a quelle di peste in particolare, anche se i recenti sviluppi paleogenetici stanno radicalmente mettendo in crisi la tradizionale cronologia delle tre pandemie di peste [2]. “Il mondo non sarà più come prima” si sente ripetere anche oggi, mentre viviamo in un contesto pandemico: l’indagine sul passato, forse, potrebbe permettere un maggior distacco dalla – comprensibile – emergenza emotiva nel porre a verifica un assunto di questo genere. Esso sembra infatti riacquisire forza, in parte per l’evidente comodità di una periodizzazione incentrata su un evento (per quanto duraturo) utilizzato come agente di cambiamento monocausale; mi pare, però, che in parte pesino anche spinte esogene rispetto alla ricerca.

Pressione della contemporaneità, linee guida dei bandi di finanziamento alla ricerca e alla pubblicazione, improvvisa “attualità” della ricerca storica (in genere invece percepita come “inutile”) sono solo alcuni degli aspetti che possono se non influenzare, quanto meno indirizzare le interpretazioni sugli eventi morbosi del passato e il loro ruolo nell’andamento delle società umane, rischiando, però, di fornire una lettura a tesi tale da “piegare” fonti e dati a un modello precostituito (ed eventualmente anacronistico) e di interpretare le pandemie in termini monocausali e paradigmatici (un buon esempio mi sembra dato da Harper 2019 e dall’ampio – e spesso critico – dibattito che ha generato). Pesa, forse, anche la fondamentale – e, in un ambito di indagine come questo, quasi evidentemente indispensabile – interdisciplinarietà, che se apporta reciproci arricchimenti, rischia anche di snaturare metodologie e relativismo interpretativo delle discipline umanistiche nel confronto con le – apparenti – monoliticità delle categorie scientifiche.

Snowden prende le mosse dalla seconda pandemia, secondo la ormai radicata enumerazione delle tre pandemie provocate dal batterio Yersinia pestis, responsabile della grave infezione che viene definita peste solo dal 1894, anno dell’isolamento del batterio da parte di Alexander Yersin a Hong Kong (Cunningham 1992).

Storia delle epidemie è un testo dichiaratamente di sintesi e di divulgazione: si rivolge dunque a un pubblico di lettori non esperto dei temi trattati, né dal punto di vista storico, né da quello microbiologico e patologico. L’autore enuncia i principi che lo hanno mosso a scegliere solo un numero ristretto di grandi epidemie che hanno interessato (e lasciato traccia) nel mondo “occidentale”, una selezione che, grossomodo, individua per ogni periodo/secolo una pandemia simbolo (con un esponenziale aumento a mano a mano che ci si avvicina all’età contemporanea). Pesano su tale scelta senza dubbio la disponibilità di fonti in particolare mediche, nonché il fil rouge esplicitato dallo studioso: la volontà di tracciare un percorso attraverso alcuni degli eventi morbosi collettivi che, oltre a un elevato tasso di morbilità e mortalità, hanno segnato un progresso nelle strategie di risposta – siano esse di tipo sociale, politico o religioso, sia più propriamente medico e scientifico – nelle società umane.

Scritto poco prima dello scoppio della pandemia di Covid-19, e prontamente aggiornato con un capitolo quasi in presa diretta (che lascia forse un po’ attonito un medievista), il volume si inserisce in una linea storiografica che si sta radicando di anno in anno e che gli eventi globali che stiamo vivendo non faranno che rafforzare; se ne vedono già ampie tendenze in atto: la valutazione del ruolo degli eventi naturali (dal clima ai “disastri” quali eruzioni e terremoti, alle malattie sia endemiche sia pandemiche) nel processo di trasformazione delle società umane in prospettiva globale sta assumendo il ruolo di paradigma interpretativo della storiografia. Si tratta di una presa di coscienza di cui c’era necessità e che, influenzata dai temi all’ordine del giorno nell’agenda politica mondiale e in modo crescente nell’opinione pubblica, si riflette nell’indagine sulle società del passato. Nulla di strano, naturalmente: così funziona la storiografia.

Il dilemma della diagnosi

Oggi sembra non esserci più alcun dubbio che a provocare le prime due pandemie di peste sia stato, o quanto meno abbia contribuito, Yersinia pestis. Se le indagini osteoarcheologiche poco potevano aggiungere riguardo a questa malattia, che, specie per la rapidità del suo decorso, non lascia tracce sullo scheletro delle vittime, i significativi progressi della paleogenetica hanno aperto un nuovo capitolo nell’indagine sulle malattie del passato, anche per quanto riguarda le epidemie di peste.

Non si tratta soltanto di un risultato in termini di diagnosi retrospettiva (tema, però, articolato, su cui merita, a mio parere, mantenere viva l’attenzione, per le ricadute concettuali che comporta). Dopo che negli anni ’90 del Novecento si è iniziato a isolare tracce di antico DNA (aDNA) del bacillo da resti umani, nel 2011, grazie a indagini proseguite sui resti del cimitero londinese di East Smithfield, è stato per la prima volta ricostruito l’intero genoma (Bos et al. 2011); nel 2013 è stato ricostruito l’albero filogenetico di Yersinia pestis (Cui et al. 2013); indagini paleogenetiche stanno riguardando anche la prima pandemia (Wagner et al. 2014; Flemming 2021): da quel momento, le tradizionali coordinate cronologiche e spaziali sono state ampliate e rimesse in discussione. L’individuazione in Inghilterra di un aDNA più antico di quello presente nelle aree mediterranee per quanto riguarda la prima pandemia e la genesi della seconda da posizionarsi nel XIII secolo sull’altopiano del Tien Shan – ove sarebbe avvenuto lo spillover (il salto di specie, concetto con cui abbiamo stretto familiarità negli ultimi due anni) dalla marmotta di montagna all’uomo – sono solo alcuni degli esempi possibili (Green 2021) di questo repentino ampliamento cronologico, a cui si sta accompagnando un’indagine sempre più orientata a una visione non eurocentrica delle pandemie. La globalità del fenomeno, insomma, è oramai non solo postulato, ma fondamento stesso degli orientamenti più percorsi dalla ricerca degli ultimi anni: ad esempio, l’attestazione che la prima pandemia non abbia riguardato il solo ambito euro-mediterraneo, ma tutta la Afro-Eurasia, fa retrodatare l’idea di unificazione microbica (già proposta da Le Roy Ladurie 1973) dal basso medioevo al tardoantico. Non si può fare a meno di notare, però, il proliferare quasi incontrollabile di studi influenzati dalla pandemia di Covid-19 e, da prima, dal tema del mutamento climatico: superata questa fase, probabilmente, si dovrà più serenamente valutare la “corsa” alla tematica di grido, i cui esiti mi pare non siano al momento del tutto interpretabili.

Il problema della diagnosi retrospettiva, dell’identificazione del patogeno all’origine delle prime due pandemie di peste, è ormai, dunque, in qualche modo superato. Lo è almeno in termini complessivi, perché un altro rilevante apporto della paleogenetica è di poter verificare se tutte le epidemie “locali” tradizionalmente intese o descritte come peste (ma descritte come peste dai contemporanei, il che pone una serie di altre questioni che, se non la paleogenetica, la storiografia deve prendere in considerazione) fossero effettivamente state provocate da Yersinia pestis. Resta dunque ormai relegato al passato (seppur estremamente recente) il lungo, e a volte forse troppo monopolizzante, dibattito sulla questione della diagnosi, prima dei risultati più definitivi, come ormai sembra potersi affermare, dati dalla paleogenetica. Eppure, mi pare che quel dibattito meriti di non essere dimenticato del tutto, perché, al di là della questione meramente identificativa del patogeno, aveva sollevato una serie di questioni metodologiche e interpretative che possono ancora essere utili e significative, anche assumendo l’identità patologica delle tre pandemie.

Yersin, il suo rivale Shibasaburo Kitasato e i loro contemporanei non ebbero difficoltà nel porre in correlazione le descrizioni del passato – un passato, peraltro, europeo e di ambito latino – con ciò che avevano trovato e stavano osservando (Walløe ٢٠٠٨). Pestis, pestilentia, morìa, mortalitas ecc. divennero, improvvisamente, peste. Questa identità nosologica era stata costruita sulla descrizione di sintomi e decorso; l’omonimia derivata dall’attribuzione di quel nome così generico e polisemico a una specifica categoria morbosa identificata secondo il modello microbico ha in qualche modo istituito un procedimento cronologicamente inverso: ossia, la “vera” peste è quella provocata dal bacillo Yersinia pestis, il batterio ha un comportamento ecologico e la malattia un andamento epidemico che rispondono a quelli individuati nel corso delle indagini sulla terza pandemia. Il corollario è che le epidemie del passato descritte con nome, sintomi e andamento in qualche modo analoghi al paradigma moderno dovessero essere necessariamente provocate dallo stesso batterio e connotate dagli stessi esiti (oppure, addirittura, che nel passato fosse chiamata peste ciò che non era peste, che però non equivale a dire che fosse chiamata peste ciò che non era provocato da Yersinia pestis). La conferma paleogenetica ha reso le descrizioni del passato più “conformi”, ma sembra essere in tal modo almeno implicito il rischio di considerarle accettabili solo e quando concordanti col modello attuale. E tutti quegli aspetti che a esso non rispondono? Sono da liquidare come frutto di ignoranza scientifica e tecnologica o delle finalità non descrittive delle diverse testimonianze? E a queste domande deve rispondere (solo) la paleogenetica? Evidentemente, la risposta può venire solo da un’accurata esegesi, fonte per fonte.

I rischi insiti nella diagnosi retrospettiva, specie attraverso indagini sulle testimonianze ovviamente scritte secondo le categorie culturali proprie del tempo in cui esse si manifestarono, sono noti e ampiamente dibattuti. E se, evidentemente, i risultati della paleogenetica apportano dati impossibili da ottenere in altro modo, dunque fornendo punti di ripartenza anche all’indagine storica, essi sollevano tutta una serie di questioni che, almeno in parte, già il dibattito precedente aveva messo in luce.

La ricerca di aDNA di Yersinia pestis è stata mossa dall’esigenza degli scienziati di tentare di stabilire l’identità patologica in modo da poter approfondire le conoscenze su filogenesi, caratteristiche vitali e ambientali, ed evoluzione del batterio, con lo scopo di far progredire le conoscenze sulla peste di oggi, malattia non debellata e il cui organismo patogeno, soprattutto, sembrerebbe essere un valido candidato a ricoprire il posto di più pericolosa arma batteriologica; non dunque – semplificando un po’ troppo – per una migliore comprensione delle stesse pandemie e delle società da esse colpite. Sul versante degli studi storici, il risultato porterebbe a individuare un metro di paragone “certo” (le attuali conoscenze sulla peste, costruite a partire dalla terza pandemia in poi) per comprendere meglio lo svolgimento di quelle del passato. Il rischio, però, è quello di piegare l’indagine storica a un modello deterministico, secondo il quale poiché la peste è oggi caratterizzata in questo e quel modo, per forza di cose dovette esserla anche quella epidemia che nel passato portò lo stesso nome e sintomi in qualche modo interpretabili come analoghi, e di conseguenza a utilizzare un filtro che, facendo propri i concetti della contemporaneità, mette a fuoco in modo miope il passato.

Naturalmente le cose non sono così semplici e la comunità scientifica (quella dei microbiologi, dei paleogenetisti e degli epidemiologi, così come quella degli storici e degli archeologi) si è trovata di fronte a una nuova sfida sorta in seguito all’evoluzione delle tecniche di estrazione del DNA.

Prima dei risultati più recenti, le fasi iniziali di estrazione e analisi dell’aDNA provocarono una polarizzazione del dibattito tra possibilità di identità patologica tra le pandemie del passato e la peste attuale, le conoscenze della quale ebbero origine durante la terza pandemia, a partire dall’isolamento del bacillo (Yersin) e dalla scoperta del ruolo vettoriale delle pulci (Paul-Louis Simond). Le posizioni nel dibattito non dipesero dal campo disciplinare di appartenenza: le prime reazioni negative all’ipotesi dell’identità patologica vennero – e non poteva essere altrimenti – dal mondo scientifico. Tra gli storici, invece, nonostante alcuni strenui difensori dell’impossibilità di confermare l’identità patologica – se non di negarla (Cohn 2002) –, prese corpo abbastanza rapidamente l’ipotesi “identitarista” (Nutton 2008).

Ciò che in genere i fautori di entrambe le posizioni sottolineavano, però, era una serie di domande e di anomalie rispetto al modello offerto dalla peste moderna, che non permettevano (e ancora non permettono del tutto) di spiegare alcune delle caratteristiche più connotanti delle due pandemie del passato, e in particolare dell’epidemia degli anni 1347-52, tra cui si possono segnalare: rapidità estrema e incomparabile di diffusione; tasso di virulenza e di letalità; non rispondenza ai modelli ecologici di sopravvivenza e moltiplicazione del batterio; ruolo di ratti, roditori e anche altri mammiferi, e di diverse specie di pulci; possibilità della compresenza di varietà bubbonica e/o polmonare, contemporaneamente e ovunque e/o a seconda delle aree climatiche e/o a seconda dei periodi stagionali; anomalie geografiche e climatologiche; spazi vuoti lasciati dal percorso compiuto dal contagio, non sempre facilmente spiegabili in termini epidemiologici o storici (per una sintesi articolata sul dibattito: Campbell 2016, 289-328). Sono tutte problematicità che l’epidemiologia e la paleogenetica stanno illuminando e potranno ancor meglio illuminare. Per lo storico, però, questi aspetti dovrebbero essere premesse per indagini sulle società umane vittime dell’epidemia, non il cuore dell’indagine stessa (evidentemente si tratta di una posizione personale, che può essere serenamente rovesciata).

Ciò che quel dibattito, al momento apparentemente concluso e risolto, sollevava in qualche modo a prescindere da Yersinia pestis, andrebbe ancora oggi tenuto presente nelle indagini sulle pandemie del passato e, soprattutto, sulle società da esse colpite. Si può essere certi che provare o comunque sostenere più adeguatamente l’identità o la non identità del patogeno porti a conoscenze definitive o sic et simpliciter più approfondite sulle pandemie storiche (o meglio, a essere rigorosi, sulla declinazione non biologica delle pandemie)? Cosa deve chiedersi lo storico quando affronta le diverse fonti che può, direttamente o indirettamente, interrogare nell’analizzare una pandemia del passato? È lecito – e fino a che punto – interpretare con il filtro forte della scienza contemporanea fonti prodotte da individui e società per i quali, in ogni caso, la peste non era la peste come descritta, intesa e classificata oggi? Oppure quelle fonti vanno relegate a una narrazione superata dalle conoscenze scientifiche dell’oggi? Se, ormai, lo scetticismo nei confronti dei risultati paleogenetici sembra essere scemato (ma verrebbe da chiedersi se solo per totale adesione e comprensione delle indagini scientifiche, o per comodità e adeguamento rispetto a risultati percepiti come “forti”), d’altro canto una posizione “agnostica” rispetto a quel precedente dibattito – ben sintetizzata da Peregrin Horden (2005, 143) secondo cui «the plague was what its sufferers and observers said it was – no less, no more» – sottolineava una questione che, in tempi di interdisciplinarietà “a tutti i costi”, mi sembra ancora almeno in parte valida nei suoi presupposti: se senza alcun dubbio l’indagine storica non solo riceve e continua a ricevere significativi apporti da quella scientifica, ma anche può a sua volta fornirle spunti e comparazioni, lo studio delle pandemie del passato (e delle malattie in genere) può limitarsi a una storia naturale, oppure a quella di fenomeni su larga scala spaziale e cronologica che tendono a fornire paradigmi esplicativi sul lungo periodo, in qualche modo orientati alla loro “utilità” nell’interpretare l’oggi? Può la medievistica, insomma, abdicare al tentativo di comprendere in primis che cosa la peste fosse e significasse per le società medievali, al di là della questione epidemiologica e diagnostica? Ancor più, invertendo i termini del problema, il paradigma scientifico può da solo far luce su un fenomeno che, anche se “era peste”, non era (ovviamente, viene da dire) inteso come tale da coloro che lo affrontarono?

Snowden aderisce all’identità patologica confermata dal DNA, anche nel ritenere il bubbone una chiara indicazione diagnostica (54), il che è però tutto da dimostrare, stante il linguaggio e le categorie classificatorie non certo omogenei tra passato e oggi (McVaugh 2000). Poco spazio è dato all’ancora recente dibattito, se non in rapidi accenni: probabilmente e comprensibilmente il fronteggiarsi di posizioni così specialistiche, in qualche modo superato, è stato ritenuto non congruo all’economia di un testo destinato a un pubblico ampio, ma resta il dubbio di una sintesi che ha un po’ il retrogusto di una parola definitiva sul problema.

Tertium datur: tre pandemie

La più immediata conseguenza dell’identità patologica è la possibilità di considerare in sequenza unitaria prima, seconda e terza pandemia, altro punto che a cavallo tra XX e XXI secolo era stato messo in discussione.

Ma anche su questa linea, l’omogeneità delle epidemie che hanno formato le pandemie storiche sembra dover essere meglio declinata: se il patogeno è il medesimo, gli studi filogenetici hanno permesso di attestare che il ceppo tardoantico non sopravvisse alla prima pandemia, e che dunque quello (o quelli) della seconda era “appena” emerso al momento del suo insorgere. Oltre alla difficoltà di far concordare coi recenti modelli epidemiologici le differenze anche macroscopiche tra l’epidemia del 1347-52e le successive (che ebbero luogo per secoli), è possibile interpretare tutte queste ultime come unico fenomeno dilazionato nel tempo? E quanto pesa il modello della morte nera sull’interpretazione delle successive epidemie? Oltre a essere tutte problematicità sollevate anche per quanto riguarda la prima pandemia, a esse si aggiunge il rilievo che gli studi più recenti danno alla necessità di una migliore declinazione spaziale, secondo due coordinate. Una “macro”, che prenda in esame anche altri contesti geografici e culturali: si tratta in questo caso di una “storia globale” non di facciata, ma che discende dalla connotazione stessa di pandemia (Little 2007b; Green 2014; 2021). E ciò, mi pare, ha valore anche, ma non solo, per la ricostruzione dell’andamento epidemiologico. D’altro canto, resta imprescindibile il ricorso a contesti più ristretti, gli unici a permettere una maggior omogeneità di dati e che, inoltre, possono fare luce sulle anomalie già segnalate: vuoti nell’andamento del contagio, incongruenze stagionali e climatiche, ma anche diversi impatti morboso e mortale, nonché diverse reazioni e conseguenze (Carmichael 2008; Jankrift 2008; Geltner 2020). Anche su questi aspetti, l’apporto paleogenetico può essere significativo, se non dirimente, ma non sufficiente.

Le tre pandemie, dunque, sono considerate da Snowden insieme, almeno in prima istanza, a creare un unicum patologico che dal tardoantico giunge al XX secolo. In realtà, alla terza è destinato poi un capitolo a sé stante, nell’ottica complessiva di uno svolgimento cronologico dell’opera. Dunque, come accade di frequente nei testi di sintesi, il capitolo sulla peste “storica” è in realtà declinato sulla seconda pandemia: la prima, la “peste di Giustiniano”, in effetti, vi assume quasi sempre il ruolo di antecedente narrativo. Snowden cita in bibliografia la miscellanea a cura di Lester K. Little (2007a) che ha risollevato in maniera forte la necessità di prendere in considerazione con più attenzione una pandemia che sembra svolgere quasi il ruolo di sorella minore, seppur più anziana, di quella scoppiata nel XIV secolo, dando il via a una serie di nuovi studi specificatamente incentrati su di essa (Flemming 2021), che provano come anche per quell’evento i dubbi sollevati dagli specialisti non riguardino soltanto l’identificazione patologica, ma vadano estesi al ruolo da essa avuta negli equilibri globali del tardo impero, rimettendone in questione in modo analitico il tradizionale ruolo periodizzante.

Nonostante questo, è alla “peste medievale” per eccellenza – mi scuseranno tardoantichisti e altomedievisti – che è dedicato il maggior numero di pagine. Ed è in questo ambito che emerge un ritratto sfaccettato ma tradizionale e in parte letterario, basato sui capisaldi ormai tipici nelle ricostruzioni di sintesi: resta, naturalmente, l’intento principalmente divulgativo del volume, che rende di per sé effettivamente complesso sintetizzare aspetti più specialistici.

Sulla seconda pandemia, il quadro proposto restituisce un’immobilità tipica delle interpretazioni sul medioevo, riproponendo in modo tradizionale i principali snodi tematici (tutti indispensabili) di ogni narrazione sulla peste: dal quadro dipinto da Boccaccio al terrore provocato in individui ritenuti inermi sia dal punto di vista immunitario sia da quello psicologico, e non mancano flagellanti, artes moriendi e trionfi della morte, né l’assunto ormai classico di una medicina messa sotto scacco e che su di esso si giocò la fiducia da parte della società – punto che la storiografia considera ormai essere nella migliore delle ipotesi un cliché non dimostrato (Siraisi 1987; Cohn 2002; Nutton 2008) –, l’emersione o il rafforzamento di culti dei santi, lo sviluppo di una politica sanitaria innanzitutto nelle città del nord Italia. Su quest’ultimo aspetto, in particolare, la narrazione è tutta spostata sui primi secoli dell’età moderna, secondo una tradizione in qualche modo resa modello grazie agli studi di Carlo M. Cipolla (1985) e fortemente connotata dall’idea di formazione dello Stato moderno (Mazzi, 1995, 199-200). L’identità patologica, la longue durée del pensiero medico ante svolta microbica, la pandemia intesa unitariamente, sembrano rendere quasi interscambiabili i secoli: in realtà, anche cronologia e primato delle città italiane sono ormai stati messi ampiamente in discussione (Carmichael 1983; Rawcliffe 2013; Geltner 2019; 2020).

La medicina medievale di fronte alla peste

La medicina e i medici ne escono naturalmente sconfitti (se non in qualche modo inetti o colpevoli), un corollario quasi inevitabile in una storia delle malattie che si orienta verso la contemporaneità e i risultati dell’indagine microbiologica e biomedica.

Il sapere dei medici medievali è inserito da Snowden, correttamente, nella tradizione ippocratico-galenica (anche se con un forte sbilanciamento verso il primato razionale della medicina di Ippocrate), cui è dedicato un intero capitolo, fondamentale nell’ottica del volume; gli fa da pendant un capitolo sulla moderna nosologia della peste. Ma, in questa alternanza tra medicina antica e medicina contemporanea, che diviene una giustapposizione di teorie scientifiche (quella sbagliata e quella giusta), la grande assente è la medicina medievale, quella insomma di coloro (medici, malati, lettori, governanti, predicatori, fedeli) che vissero la pandemia. Certamente la medicina tardomedievale è propaggine di quella antica e fondata sulla ricezione e sull’interpretazione di Galeno, dunque il contesto di riferimento è funzionale a inquadrare anche la medicina medievale: ma in tal modo, oltre a sparire l’apporto delle auctoritates di lingua araba (impossibile pensare alle interpretazioni trecentesche sulla peste senza la mediazione di Avicenna, ad esempio), si pone in luce lo “scacco” e non i tentativi di comprendere e poi di rispondere a quello scacco, certo fallimentari ai nostri occhi, ma che furono caratterizzati da slittamenti (poco dovrebbe importare se non necessariamente prodromici ai risultati della biomedicina) che, a partire dalla prima epidemia di metà XIV secolo e per tutti i secoli a seguire, connotarono la trattazione de peste; un genere letterario certo orientato a una prevalente ripetitività, ma che portò a una lenta elaborazione di modi diversi e tentativi di intendere un’epidemia percepita, anche dal punto di vista medico, come qualcosa di sostanzialmente nuovo, nonostante l’utilizzo di linguaggio e categorie mentali desunte dalle auctoritates precedenti (Arrizabalaga 1994; Cohn 2002; Carmichael 2008): in particolare, una nuova interpretazione, discendente dalla constatazione, talvolta orgogliosa, che i testi antichi non potessero fornire risposte, fu la cosiddetta teoria del veleno, alternativa, ma più spesso integrantesi con quella strettamente umorale (Aberth 2021). Del resto, è significativa proprio la necessità da parte degli studiosi di segnalare la ripetitività o meno, il che accade, mi pare, soltanto coi testi di natura medica, non con quelli che hanno altro oggetto: sembra, insomma, che solo la medicina dovrebbe mostrare un progresso costante e diretto verso la scienza moderna, e quando non vi si adegui venga bollata come primitiva, superstiziosa o, appunto, ripetitiva (questo, in sostanza, il paradigma teleologico spesso sotteso alla storia della medicina).

Così in Storia delle epidemie, come spesso accade, Girolamo Fracastoro sembra emergere, nel XVI secolo, quasi come un solitario e astratto intuitore, non come un medico formatosi su una tradizione che aveva iniziato, almeno pragmaticamente e non necessariamente in modo risolutivo, a porsi dubbi sulla contagiosità – ossia la trasmissibilità da uomo a uomo, secondo l’ottica del tempo – che non risultava coerente con quanto era testimoniato dai grandi autori del passato [3].

Insomma, gli stereotipi sul medioevo emergono senza ombra di dubbi o di sfumature, con la consueta immagine del medico in fuga, corollario della rottura dei legami sociali, di una società allo sbando, anch’essi paradigmi spesso contraddetti dalle indagini più analitiche [4], fino ad affermare che «in pratica, spesso i malati di peste non ricevevano alcuna cura medica» (71): oltre al fatto che la medicina riteneva possibili prevenzione e terapia – in fondo questo era il fine stesso della trattatistica (Arrizabalaga 1994) –, ciò è ben diverso dal sostenere che le cure offerte non avessero o non potessero avere efficacia sul morbo in sé.

Anche sulla politica sanitaria nata da quell’esperienza, con lo sviluppo di strumenti come la quarantena, l’isolamento, i cordoni sanitari, i lazzaretti, la narrazione sembra essere connotata da una sorta di retrodatazione, un filtro modernista che, non solo per i non medievisti, sembra spesso ineliminabile. Alla sottolineatura dell’innovazione di una nascente politica sanitaria – in cui l’accento andrebbe forse posto non tanto sulle misure adottate, quanto sul fatto che furono le autorità pubbliche ad adottarle, magari senza eccedere nei toni foucaultiani – fa da contraltare un’apparente casualità: «È interessante notare che le autorità agivano senza la minima conoscenza medica dei meccanismi fondamentali della malattia» (87). Non è chiaro se le conoscenze sulla malattia siano da intendersi come quelle odierne (il che è evidente) o come quelle del tempo: in tal caso, emergerebbe l’immagine di una società medievale formata da gruppi a tenuta stagna, come già si era fatto nel contrapporre forzosamente teoria aerista ed empiria contagionista (Arrizabalaga 1994); ma la conoscenza dei principi fondamentali della medicina galenica e le politiche igienico-sanitarie da essi influenzate sono precedenti all’arrivo della peste (Geltner 2019; 2020), e in ogni caso le prime opere de peste scritte durante l’epidemia del 1347-52 sono quasi tutte nate da una richiesta o comunque indirizzate ai poteri pubblici. Nonostante questo brancolare nel buio, «alla fine del XVIII secolo, tuttavia, il percorso segnato portò alla prima importante vittoria nella guerra contro le malattie epidemiche» (87): al di là del tono un po’ teleologico, se ci si riferisce alla scomparsa della peste dall’Europa occidentale, ciò è tutt’altro che assodato.

Le risposte politico-sanitarie, dunque, insieme alle vicende del ratto nero (non vengono presi in considerazione altri roditori, come invece ormai si ritiene necessario) e alle vicende climatiche della piccola glaciazione di prima età moderna sarebbero i motivi che avrebbero portato, nel corso del XVIII secolo, alla scomparsa della malattia, almeno in forma epidemica, dal continente europeo.

Insomma, nell’economia del volume, lo spazio dedicato alla peste medievale sembra principalmente assolvere alla tradizionale funzione di metro di paragone in termini di devastazione e terrore (come l’autore dichiara esplicitamente più di una volta, es. 47); il rischio è quello di interpretarlo come il primo capitolo, ancora “primitivo”, del progresso a venire.

Conclusioni

È noto che il concetto di peste ebbe (e dunque dovrebbe mantenere quando si indaghi il passato) un valore estremamente più ampio e variegato rispetto a un fenomeno patologico unitario (al di là della sua identificazione nosologica): peste era uno dei mali collettivi, secondo il modello proposto dal libro dell’Apocalisse (٦, ١-٨), e come tale esso risulta da molte tipologie di fonti. Anche quando emerge, progressivamente, una consapevolezza di essere di fronte a una malattia nuova o esplosa in forme nuove (o comunque come tale interpretata), è sempre la connotazione di generale pericolo e alta mortalità a prevalere: un male che, potenzialmente, riguarda tutta l’umanità; anche in ottica di teodicea essa assume un valore universale: la peste come punizione riguarda non i peccati individuali, ma quelli dell’umanità intera (Carmichael ٢٠٠٨). Anche per molta letteratura medica del tempo, peste non indicava tanto un evento morboso, quanto la causa di diversi effetti (non solo fisici) tra cui alcune malattie. Come tali, peraltro, spesso erano intesi quelli che, per noi, sono sintomi (Arrizabalaga 1994; Duranti 2008).

Ciò, in ogni caso, non esaurisce il contesto di riferimento; esso infatti si accompagna alla possibilità di notare le manifestazioni patologiche e alle reazioni, che coinvolgono diversi piani (politico, religioso, terapeutico, assistenziale, superstizioso, sociale, intellettuale) da non intendersi come concorrenti o esclusivi, ma come risposte che convivono e si integrano in un sistema di pensiero che non può essere che sfaccettato. E forse più cura si dovrebbe porre nel valutare anche le declinazioni religiose come una delle forme di reazione all’epidemia, non (solo) come il cieco abbandonarsi alle forze celesti di una popolazione senza altri appigli: in una società cristiana come quella medievale, il ricorso alle strategie di una “medicina spirituale” non può essere relegato a solo corollario devozionale.

Forse, più che lo scacco di una società impreparata dal punto di vista scientifico, è proprio la complessità di conseguenze e reazioni che essa provocò a poterci, nel suo intreccio di categorie che non sono affiancabili solo secondo criteri attuali e scientifici, insegnare ancora qualcosa.

In tal senso, la tesi del libro di Snowden, che poco prima dello scoppio della pandemia di Covid-19 metteva in guardia contro una tendenza a considerare le malattie epidemiche non solo ormai sconfiggibili, ma anche indagabili sul solo piano biomedico ed epidemiologico, ci ricorda quello che a volte si rischia di perdere di vista, cioè che una malattia è anche un fattore culturale.


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Note

1. Dato il numero elevatissimo e in continua crescita di indagini sul tema della peste, si è scelto di fornire una breve rassegna bibliografica generale, comprendente gli studi principalmente utilizzati per queste pagine, senza fare riferimenti nel testo, se non quando puntuali; essa non può che essere ampiamente incompleta. Per una sintesi bibliografica aggiornata, si rimanda ai contributi Flemming 2021 (per la prima pandemia) e Green 2021 (per la seconda), e in generale a tutto il numero speciale per Isis Current Bibliography of the History of Science, in preparazione (ma consultabile nei suoi vari passaggi editoriali: https://isiscb.org/special-issue-on-pandemics/).

2. Le tre pandemie di peste individuate nella storia della medicina, e oggi confermate – anche se con significative ricollocazioni cronologiche – dalla paleogenetica, sono: 1. Quella del tardoantico, attestata dal VI secolo e terminata nell’VIII, a cui è assegnato il nome tradizionale di “peste di Giustiniano”; 2. Quella tardomedievale, presente dal XIII secolo in Asia e da metà del XIV nel bacino mediterraneo e in Europa e fatta terminare – per la sola Europa, però – al XVIII secolo, tradizionalmente denominata peste nera (anche se, a essere precisi, tale etichetta riguarderebbe solo l’epidemia euromediterranea del 1347-52); 3. Quella scoppiata negli anni ’90 del XIX secolo e attiva fino agli anni ’30 del XX, a inizio della quale Alexander Yersin isolò il batterio poi battezzato Yersinia pestis (1894).

3. Nutton 1983; Grmek 1984; Arrizabalaga 1994; Duranti 2008; Stearns 2011.

4. Carpentier 1962; Bowsky 1964; Brucker 1977; Chiappa Mauri 1994; Varanini 1994; Smail 1996; Kelly Wray 2009; Zucchini 2016.