Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

Storia dell’arrivo del colera negli anni Trenta dell’Ottocento. Lo shock e la cesura tra il “prima” e il “dopo”

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Abstract

Cholera was the first truly global disease, appearing from obscurity to ravage Europe in successive waves. Arriving in the old continent in 1830, it affected entire continents. A traumatic global event, not comparable - in terms of morbidity and mortality - with wars, famines, natural disasters and earthquakes, which also engage a dialectic challenge-response, institutional and political resilience. But in the post-pandemic period, in cities devastated and impoverished by cholera, a typically urban disease, social resilience, rebirth projects and the rationalization of cities, where living conditions had not followed the pace of urban growth driven by industrialization, which had multiplied the possibilities of infection through contaminated water and food, came into play.

Il manifestarsi di epidemie e pandemie – compresa quella del nostro tempo, il Covid-19 – è specchio del modo di essere di ogni epoca e di ogni società (Ruffié e Sournia 1984). Lo è, come nessun’altra, forse, l’epidemia propria del XX secolo, il colera, la prima vera malattia globale, apparsa dall’oscurità per devastare l’Europa in successive ondate. Arrivata sul vecchio continente nel 1830, colpì interi continenti, viaggiando su bastimenti dall’una all’altra parte dell’Atlantico (Chevalier 1958). Un evento traumatico globale, non confrontabile – in termini di morbilità e mortalità – con guerre, carestie, catastrofi naturali e terremoti, che pure innestano una dialettica sfida-risposte, resilienze istituzionali e politiche. Ma, nel dopo pandemia, nelle città devastate e impoverite dal colera, malattia tipicamente urbana, entrano in campo resilienze sociali, progetti di rinascita e di razionalizzazione delle città, dove le condizioni di vita non avevano seguito il passo della crescita urbana spinta dall’industrializzazione, che aveva moltiplicato le possibilità di infezione attraverso acqua e cibi contaminati.

Per le enormi devastazioni economiche dovute all’interruzione dei commerci e degli scambi con luoghi infetti, per la capacità di colpire contemporaneamente buona parte delle popolazioni del mondo, in aree geografiche diverse e lontane tra loro [1], quell’evento occupa un posto tutto speciale nella storia delle grandi emergenze sanitarie. A giocarvi una parte è anche la malattia in sé. Battezzata dai contemporanei con i nomi di “peste dell’Ottocento” o “mostro asiatico”, era percepita come selvaggia e incivile, non assimilabile alla tubercolosi, alla malaria e altre “pestilenze” tradizionali, che potevano essere incorporate nella cultura e nella civiltà occidentale e assimilate ai modi ben noti di essere malati e morire (Briggs 1961).

Colpiva l’immaginario collettivo non solo l’origine esotica dell’infezione, ma i suoi sintomi, la morte quasi istantanea [2], la trasformazione delle vittime in caricature grottesche che la rendevano diversa da qualsiasi male allora conosciuto (Bourdelais e Raulot 1987). La medicina era del tutto impotente, e il più totale buio scientifico circondava tre elementi chiave: la natura della malattia, il suo agente patogeno e una terapia efficace [3].

Non comparabili con le reazioni emozionali tipiche (paura, ansia) prodotte da altri disastri era il terrore provocato nelle comunità dalla morte di massa, che includeva la paura di morire in peccato mortale e senza il conforto delle artes bene moriendi. La cancellazione dei tradizionali rituali funebri, decretata dalle autorità sanitarie, implicava la possibilità che i corpi dei morti di colera finissero, in ottemperanza alle misure di salute pubblica, in fosse comuni, cosparsi di calce viva, come semplici residui organici, privi dell’identità data da sepolture individuali, tombe di famiglia o cappelle gentilizie (Tognotti 2000, 85).

Ad alimentare l’ansia generale, nella società europea, la drammatica percezione di una nuova vulnerabilità alle minacce epidemiche, legata alla rivoluzione dei viaggi per mare, alla velocità e all’intensificazione degli scambi e del commercio marittimo.

Il mondo stava diventando sempre più piccolo, grazie alla navigazione a vapore e ai nuovi mezzi di trasporto; e sempre più interconnesso ed esposto a malattie sconosciute, prima che la globalizzazione mettesse in contatto uomini e malattie:

Mentre l’arte della navigazione era agli inizi e le comunicazioni via terra tra paesi lontani erano poco frequenti e insicure, le diverse razze e famiglie dell’umanità che vivono a pezzi sulla superficie terrestre erano necessariamente ignari della comparsa di nuove, o dell’esistenza di malattie notevoli tra loro (Ashwell 1840, 291).

La frattura con il passato era ben presente ai contemporanei, terrorizzati dalla novità del mostro asiatico, sconosciuto fino allora (Sorcinelli 1984), dalla crisi di mortalità nelle aree attraversate dal contagio, dagli interessi nazionali messi in ginocchio dalla crisi che i governi cercavano di tutelare con rigide misure di contenimento: cordoni sanitari terrestri e marittimi, quarantene nei porti, contumacie (Baldwin 1999). Provvedimenti che annientavano il movimento commerciale in entrata e in uscita, portando alla rovina economica di ampi strati di popolazione nelle città colpite, alla rarefazione di generi di prima necessità, all’annientamento di fasce tradizionalmente deboli e marginali che vivevano di carità e di espedienti in baraccopoli ai margini delle città.

Per certi aspetti, fatti naturalmente i dovuti distinguo, lo shock economico, sociale, antropologico, provocato da quel disastro globale, può reggere il confronto con quello che ha colpito il mondo intero con la pandemia del Covid-19, l’oscura malattia nata in uno dei tanti “mercati umidi” cinesi che ha provocato una delle più grandi crisi internazionali dopo la Seconda guerra mondiale. Di fronte a un bilancio delle vittime previsto di decine di milioni di persone, i governi, al fine di contenere la diffusione del coronavirus, hanno adottato le stesse misure radicali in uso al tempo del colera mezzo secolo prima che l’agente patogeno, il Vibrio colerae, venisse isolato da Robert Koch. Ma, allora come oggi, con un bagaglio di conoscenze scientifiche tanto diverso, governi e responsabili della sanità sono stati messi di fronte alla drammatica scelta di mettere in ginocchio l’economia o salvare vite, bloccando, nei porti, navi cariche o interrompendo movimenti di uomini e merci attraverso cordoni sanitari terrestri. Nel dopo-pandemia l’urgenza di costruire un sistema di difesa, un’organizzazione capace di allontanare lo spettro di una nuova emergenza sanitaria globale, spingerà a una resilienza operativa gli stati europei – compreso quello italiano – realizzando un’organizzazione di sorveglianza sanitaria multilaterale allo scopo di proteggere il vecchio continente dal “colera asiatico”. Dopo lunghe e faticose trattative diplomatiche si giunse infine a concretizzare un accordo e, nel 1851, a Parigi ebbe luogo la prima delle undici Conferenze sanitarie internazionali (Huber 2006). Per quanto la pandemia del 1835-37 sia la seconda per numero di vittime (236.473) tra le sei che flagellarono l’Italia nel XIX secolo – 1849, 1854-55, 1865-67, 1884-86, 1893 – è però la più spaventosa e scioccante, e quella che produsse la cesura più netta tra il “prima” e il “dopo”.

La marcia del colera e i mali delle città

Per darne conto occorre ricostruirne brevemente le tappe, concentrando l’attenzione sull’Italia. Il colera era presente da epoche remote nei territori che si affacciano sul Golfo del Bengala, ma soltanto ai primi dell’Ottocento si era diffuso in Medio Oriente, in Africa e infine in Europa, come conseguenza dei massicci spostamenti dei pellegrini che sempre più numerosi giungevano dall’Asia centrale e meridionale alla Mecca, nonché per l’incremento degli scambi commerciali fra l’Occidente e il lontano Oriente. La prima pandemia (1817-1823) si limitò a lambire marginalmente il vecchio continente (Mar Nero, Mediterraneo orientale). Ma, nella seconda, il morbo investì in pieno l’Europa; questa volta essa ebbe origine nel 1826 e si diffuse progressivamente, raggiungendo la Russia nel 1829. Mosca fu la prima grande città europea colpita dal colera, che giunse a Vienna e a Berlino nel 1831 (Colnat 1937). Nella primavera, i pellegrini della Mesopotamia e della penisola arabica funsero da vettori del colera alla Mecca, in occasione dell’annuale Hadj (pellegrinaggio). Nelle tre settimane che seguirono, quasi 3.000 pellegrini musulmani sulla via del ritorno a casa morirono a causa della malattia. Un altro ramo dell’epidemia infettò la Siria e la Palestina, mentre un terzo ramo attraversò Il Cairo (luglio 1831) e rapidamente infettò il delta del Nilo. I pellegrini musulmani portarono il colera anche a Tunisi, nel 1831. I malati si contarono a centinaia di migliaia, con una letalità oscillante tra il 50 e il 55 per cento (valori simili a quelli registrati oggi per Ebola-EVD). Nel 1832 il contagio è a Parigi. Nello stesso anno, gli immigrati irlandesi in Canada e negli Stati Uniti portarono con sé il patogeno. All’inizio del 1833 una nave inglese trasportò il colera in Portogallo. La Spagna fu contagiata ad agosto. Nel dicembre 1834 raggiunse Marsiglia. Il resto della Francia e la maggior parte dell’Italia furono attaccate nei due anni successivi. Nel 1835 il colera giunse a Genova, e successivamente si diffuse nel Granducato di Toscana e quindi nel Regno delle Due Sicilie, dove fece strage (Messina 1984).

Ritardata da discussioni e incertezze, la risposta istituzionale al colera, negli stati preunitari, ricalcò, con qualche concessione allo spirito dei tempi, quella elaborata in tempo di peste, con la differenza che ora erano un potere centralizzato e la forza militare dello stato a imporre cordoni e quarantene. Con l’arrivo del colera a Genova, la prima città italiana colpita, nell’estate del 1835, il potere regio mobilitò l’apparato tradizionale di difesa. Del resto l’emergenza – nel vuoto di presidi medici di qualsiasi genere – richiedeva l’iniziativa diretta dei governi per quanto atteneva la mobilitazione di forze armate, il fermo delle persone ai confini, l’interruzione di rapporti commerciali con stati confinanti. Commissioni e giunte erano collegate alle facoltà di medicina e ai magistrati di sanità, che emanavano i regolamenti sanitari e avevano il potere di giudicare in tema di contravvenzioni ai regolamenti di salute pubblica. In alcuni stati, come nel Regno delle Due Sicilie, fu introdotta la legge marziale per i “misfatti sanitari”, cioè per i violatori di cordoni e di contumacie e per i falsificatori di patenti sanitarie, giudicati con rito immediato e in base allo statuto penale militare [4]. Cordoni sanitari furono stabiliti ai confini degli stati – con maggiore o minore convinzione da parte dei governi – mentre i porti furono chiusi alle provenienze da zone infette. Per cercare di tenere il contagio lontano dallo stato sabaudo, che confinava con la Francia meridionale invasa dal colera, re Carlo Alberto di Savoia fece stendere un cordone nei punti di passaggio in Liguria e in Piemonte [5]. Da qui, nella primavera del 1836, raggiunse la Lombardia e Milano. La Sardegna fu letteralmente blindata e chiusa a ogni contatto: una crociera di barche armate in contatto con le torri e i punti di difesa la circondava “ad impedire ogni esterna pericolosa comunicazione”. Uomini armati, distribuiti sulle coste, dovevano vigilare con il più scrupoloso zelo che nessuna nave, di qualsiasi bandiera, tentasse di approdare o sbarcasse sui litorali persone e cose [6]. Erano dichiarate di “Patente sporca” – cioè provenienti da luoghi infetti – le imbarcazioni in arrivo da Tolone, Marsiglia, Nizza, Villafranca e Antibes. Esse andavano soggette a sfratto, come pure le provenienze da qualsiasi luogo infetto. Da parte sua, re Ferdinando di Borbone fece stendere tra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio una cintura sanitaria che occupava 212 miglia. Per custodirla erano necessari ben 19.600 uomini che, con la minaccia di pene severe e la forza delle armi, dovevano impedire il passaggio di uomini e cose sospette: presidio che peraltro non riuscì a impedire che, nell’ottobre del 1836, il colera arrivasse a Napoli, cinta da ben due cordoni sanitari (Snowden 1995). Uno formato da picchetti di fanteria, collocati in modo che rimanessero “a vista” l’uno dell’altro, a maglie larghe. L’altro, con picchetti più ravvicinati e punti d’ingresso presidiati da ufficiali sanitari, che avevano l’incarico di controllare bollette sanitarie e certificati di contumacia e di impedire il passaggio a chiunque non fosse in regola. Le strade erano chiuse da palizzate, mentre baracche temporanee erano destinate “a ricevere i generi e le persone per le debite purificazioni e contumacie” [7]. Nelle città medie e grandi investite dal colera l’attuazione delle misure profilattiche fu affidata a istituzioni accentrate e sotto lo stretto controllo del potere esecutivo. Il piano d’emergenza prevedeva l’opera di sgombro di letamai, immondizie e acque sporche da strade e piazze; la più rigorosa pulizia negli ospedali, nelle caserme, nelle scuole, nelle prigioni, nei bagni penali; strutture per l’accoglienza degli orfani; soccorsi materiali alle fasce più povere della popolazione; vigilanza sulle masse “sudice e pericolose” di meretrici, accattoni e vagabondi che si cercò di tenere lontani dalle città, come a Napoli, o di isolare in ospizi e depositi di mendicità come a Genova e a Torino. Particolarmente dure le disposizioni per evitare gli assembramenti e per neutralizzare le temibili reazioni di terrore e di fuga.

Il dopo-pandemia e le cicatrici da risanare.
Resilienze medico-sanitarie

Nonostante le rigide misure di contenimento adottate, il colera fece strage nelle città, dodici delle quali registrarono più di mille morti. Palermo e Napoli contano rispettivamente 24.014 e 19.665 morti. Otto delle città più colpite (con più di mille morti) erano città di mare (Genova, Livorno, Venezia, Trieste, ecc. ). Malattia dell’anti-igiene urbana e che per sua natura trae dalla sporcizia, dalle acque inquinate, ma in generale dalla mancanza di igiene la propria linfa vitale, il colera agisce come una cartina di tornasole. Portando alla ribalta la drammatica arretratezza, in fatto di servizi igienico-sanitari, delle città, territorio privilegiato del contagio, portando alla ribalta il drammatico problema dei quartieri sovraffollati, dei bassifondi, delle vie invase da acque luride, scarti di lavorazione di pelli e olii, materiali in decomposizione, territorio privilegiato del contagio.

Il colera segna uno spartiacque tra il “prima” e il “dopo”. Finita l’emergenza, l’approccio che privilegiava, tra Sette e Ottocento, le variabili spaziali della “città malata” – che aveva prodotto un’enorme mole di topografie medico-statistiche – lascia il posto a quello che introduce le variabili sociali: miasmi ed esalazioni (di stabilimenti insalubri, macellazioni di animali, lavorazioni di pelli, mancato smaltimento di acque nere e rifiuti), e tutti gli altri fattori (suolo, aria, esposizione, umidità, condizioni geologiche e climatiche) non spiegavano infatti il perché la morbilità e la mortalità per colera fossero stati infinitamente più elevati nei quartieri dove si ammassava la popolazione povera e operaia. A Napoli, a Palermo, a Genova e nelle tante città devastate dal colera, appariva chiaro che le pessime condizioni igienico-sanitarie avevano contribuito a moltiplicare i focolai d’infezione. Affollamento e densità della popolazione ne avevano favorito enormemente la trasmissione. E, infatti, il maggior numero di vittime si registrava proprio nei quartieri dove abitavano poveri e marginali, tra sporcizia e promiscuità, come testimoniano innumerevoli relazioni di commissioni sanitarie. I primi studi medico-statistici, condotti alla fine dell’emergenza, documentarono che nei quartieri urbani in cui dimorava la classe benestante e media i tassi di mortalità erano stati più bassi, mentre erano stati paurosamente elevati nei rioni dei poveri. A Milano la malattia infierì nell’Ospizio della Senavra e al Pio Albergo Trivulzio (Zocchi 2006, 233). A Genova i medici denunciarono l’altissima mortalità tra facchini, marinai, lavandaie, operai, rivenditori itineranti nel Sestriere di Pre, dove non c’era vicolo in cui non si affacciasse una casa piena di colerosi. L’impressionante marcia del colera nei vecchi centri storici delle città, nei quartieri degradati, s’impone alla medicina del tempo – pur attardata nell’interminabile discussione tra contagionisti e anticontagionisti (Ackerknecht 1948) – facendo emergere fenomeni come le disuguaglianze sociali nella malattia e nella morte e la presenza di aree malsane che agivano come polveriere per le epidemie. Cosa che spinse anche i poteri pubblici a prestare attenzione, per la prima volta, all’influenza dell’ambiente e del contesto sociale nei processi patologici.

Lo shock provocato dalla pandemia segna uno spartiacque. La tesi di un’impotenza generalizzata dovuta al trauma, sostenuta da alcuni storici, non è generalizzabile. Alcuni dei governi degli stati preunitari – il Granducato di Toscana (Betti 1856), lo stato sabaudo, il Lombardo-Veneto – si dimostrano più resilienti e capaci di elaborare risposte, anche immediate, disponendo il miglioramento delle condizioni igieniche delle città, la copertura di tratti di canali malsani, il risanamento dei luoghi a rischio – come a Genova (Dardano 1977, 46-52) – e l’abbattimento delle mura medievali (Sassari), all’interno delle quali erano rinserrati i sovraffollati quartieri popolari, privi di fognature e di condutture per l’acqua (Tognotti 2000). A Milano i responsabili della sanità procedono a una razionalizzazione delle strutture ospedaliere, realizzando istituzioni specifiche destinate ai malati di colera, come la Casa di soccorso di Santa Maria di Loreto, che resterà operante dopo l’emergenza del 1836 (Faron 1994, 224). L’evidenza delle connessioni tra morbilità, mortalità e condizioni di vita risveglia una nuova sensibilità sociale e s’impone a medici, scrittori di medicina, membri di commissioni municipali istituite dalle amministrazioni locali durante l’emergenza: pressoché ogni focolaio epidemico viene studiato a fondo, e nessuna epidemia, prima e dopo, ha prodotto una messe così abbondante di memorie, monografie, studi medico-statistici. La “città malata”, disvelata dal colera, diviene sede elettiva degli studi per il risanamento e la rinascita da parte dei primi nuclei di igienisti. Passeranno decenni, attraversati da altre epidemie di colera, per giungere alle realizzazioni invocate dopo l’epidemia degli anni Trenta. Fu la straordinaria emozione provocata, a livello nazionale, dall’epidemia del 1884 a Napoli – di cui la penna di Matilde Serao aveva descritto le miserie e il degrado – a spingere il governo al varo della famosa legge del Risanamento, che venne poi estesa anche ad altre città e che portò allo “sventramento” dei quartieri centrali della capitale del sud. E fu sempre sotto l’onda emotiva di quell’emergenza – che si era ormai meridionalizzata – che Crispi approntò nel 1888 una legge, passata alla storia come “legge sanitaria” (o legge Crispi-Pagliani), che creava le condizioni – sul piano della dotazione delle infrastrutture igieniche e della rigorosa applicazione dei regolamenti e delle leggi sanitarie – per tenere lontane le minacce epidemiche. Pochi decenni dopo, quando la “peste dell’Ottocento”, era ormai relegata negli annali delle epidemie/pandemie, l’irruzione della Spagnola, uno dei maggiori disastri sanitari degli ultimi secoli, avrebbe aperto, in pieno XX secolo, una nuova pagina di una storia che continua con la pandemia che, nel XXI, sta sconvolgendo il mondo.

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Note

1. Sulla geografia del colera, gli itinerari, le mappe, i numeri, Barua e Greenough 1992.

2. A Parigi, negli ultimi giorni del carnevale del 1832, molti cittadini che indossavano maschere, colti dai sintomi per strada, arrivavano all’Hôtel-Dieu ancora con i loro costumi, e così venivano più tardi sotterrati (Ruffié e Sournia 1984).

3. Sulla percezione scientifica della malattia, Harold Scott 1939.

4. Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbonico, Sullo stabilimento del cordone di frontiera e della crociera, b. 932, 9 agosto 1835.

5. Atti del Governo di Sua Maestà il re di Sardegna (1831); Regie Patenti colle quali S.M. istituisce una Giunta Superiore di Sanità coll’incarico di dare gli opportuni provvedimenti per preservare li Regi Stati dal Cholera che imperversa nelle parti orientali d’Europa, n. 2410, 28 luglio 1831, Torino 1831.

6. Le severissime disposizioni del magistrato di sanità imponevano che le navi dovessero arrestarsi a distanza di sicurezza dal litorale: il deputato di sanità vegliava affinché nessun contatto intervenisse con persone o cose del natante, il cui “patron” – dopo aver solennemente giurato sulla salute delle persone a bordo e sui luoghi di provenienza – arrivava con una scialuppa e depositava la “patente” per terra, assicurata da un sasso (Tognotti 2000).

7. Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbonico, Regolamento generale per difendere la città di Napoli dal cholera morbo, 8 agosto 1835, 18.