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Giulia Bassi, “Non è solo questione di classe”

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Giulia Bassi, Non è solo questione di classe. Il “popolo” nel discorso del Partito comunista italiano (1921-1991), Roma, Viella, 2019, 294 pp.

Il libro di Giulia Bassi, Non è solo questione di classe, è un saggio interessante, documentato e originale. L’autrice, attualmente docente di Storia contemporanea all’Università di Parma e assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale, vi analizza il discorso del Partito comunista italiano, focalizzandosi in particolare sulla categoria di popolo. Frutto della rielaborazione di una tesi di dottorato, il volume si compone di cinque capitoli, che svolgono il tema secondo una scansione cronologica, corredati da un’introduzione, che illustra metodo e obiettivi, e da un epilogo, che prova a gettare luce sul mezzo secolo che intercorre tra il Sessantotto e i giorni nostri, passando per il collasso dell’Unione Sovietica.

Bassi si propone di «comprendere l’uso (discorsivo) che è stato fatto del popolo nella comunicazione politica del partito comunista» e, di riflesso, i «mutamenti paradigmatici della politica del partito e delle trasformazioni della società più in generale» (p. 13). Se il primo scopo può dirsi sostanzialmente raggiunto, più aperta risulta invece la valutazione in merito al secondo. Vale ricordare, a riguardo, che il metodo è «interdisciplinare» (p. 16), a cavallo tra storia politica e analisi linguistica. Non sempre, tuttavia, il mutare delle cose risulta illuminato dallo studio delle parole. Talvolta accade che queste rimangano inerti. Anzi, si può forse dire che uno dei risultati più significativi della ricerca di Bassi consista proprio nella sua dettagliata dimostrazione di come l’uso di uno stesso lemma – quello di ‘popolo’ – abbia veicolato significati anche molto diversi a seconda dei tempi, dei luoghi e dei soggetti coinvolti (cfr. p. 35).

Epilogo a parte, l’arco temporale preso in esame va dal 1921, con la fondazione del Partito Comunista d’Italia, agli ultimi anni Sessanta del Novecento. Al di là degli studi (che, ben oltre la storia e la linguistica, coinvolgono la filosofia, la sociologia e la scienza politica), le fonti sono invece di due tipi: i discorsi dei dirigenti e dei leader comunisti, da Gramsci a Berlinguer, con speciale attenzione a Togliatti; e la stampa di area e di partito, dai quotidiani alle riviste, dai bollettini ai quaderni organizzativi.

Il primo capitolo affronta il periodo 1921-1942. L’autrice constata innanzitutto come tra Otto e Novecento, nella retorica marxista, il termine ‘popolo’ – divenuto centrale con le rivoluzioni borghesi di fine Settecento – giocasse un ruolo, se non marginale, senz’altro secondario rispetto al termine ‘classe’. Le cose cambiano a metà degli anni Trenta, specie dopo che, con la nuova Costituzione approvata nel 1936, l’Unione Sovietica stabilisce l’equivalenza tra il “popolo sovietico” e lo “Stato rivoluzionario”. Da quel momento in poi, ‘popolo’ entrerà nel novero delle parole chiave del lessico comunista. E Togliatti bollerà il fascismo come un «regime reazionario di massa», la cui principale vittima è proprio il «popolo». Ma quale?

La prima risposta è nel secondo capitolo, che si concentra sugli anni 1943-1945. Decisiva, in questo triennio, è ovviamente la «svolta di Salerno», con cui Togliatti mette da parte la pregiudiziale anti-monarchica e sigla l’alleanza con le altre forze democratiche per abbattere il regime e liberare il popolo. Un termine da intendersi ora come nazione, come un soggetto unitario e interclassista. Bassi commenta: «la storia passava dall’essere concepita come espressione della lotta di classe a prodotto di una lotta del popolo» (p. 61).

Dopo la «svolta di Salerno», secondo l’autrice, la narrazione comunista si caratterizzerà, in Italia, per alcune dinamiche di lunga durata: la deresponsabilizzazione degli italiani, tutti potenziali elettori e militanti; la massificazione del Pci, che in pochi anni passa dall’avere poche migliaia di aderenti a oltre 1 milione e 700 mila nel 1945 e che ambisce ad essere riconosciuto, secondo le parole d’ordine di Togliatti, come «il partito più vicino al popolo»; la mitizzazione del capo (da Gramsci allo stesso Togliatti, da Mao a Che Guevara, passando per Lenin e Stalin), che è tale in quanto capace di stare più e meglio degli altri «in contatto con il popolo». Bassi evidenzia inoltre la nazionalizzazione del popolo, una dinamica tuttavia più contrastata rispetto alle altre.

Tant’è vero che tra il 1946 e il 1948, il successivo triennio considerato nel terzo capitolo, il discorso del Pci mostra una «sempre più frequente presenza di istanze semantiche partitive» (p. 106). Bassi rileva come le partizioni interne al nuovo ordine repubblicano non riguardino più fascisti e antifascisti, classe e popolo. Le divisioni nascono innanzitutto tra tutti i vari partiti che hanno accettato le regole del gioco democratico, e trovano un loro criterio nel diverso riferimento al popolo. Quest’ultimo, infatti, viene inteso dal Pci come più o meno sano, più o meno avanzato, più o meno sincero.

Alle elezioni politiche del 1948 il partito di Togliatti esce sconfitto. Il riscatto passa per un ritorno a quella «politica di “popolarizzazione” già avviata nella seconda metà degli anni ’40» e per l’introduzione di «modelli ideali, popolari, nella vita dei singoli militanti» (p. 138). Ma qual è il popolo a cui il Pci si rivolge tra il 1948 e il 1955? È, ancora, il popolo sano, avanzato, sincero? Sì, in parte, ma è tendenzialmente, di nuovo, il popolo-nazione. Del resto, «popolarizzare la linea del partito», spiega Bassi (p. 162), significava «diffondere il marxismo-leninismo, fidelizzare i simpatizzanti, coinvolgere la cittadinanza nelle iniziative del partito, capillarizzare i canali di comunicazione politica». Con le sezioni, le federazioni, le scuole, la stampa di partito. Grazie alle case del popolo, alle feste dell’Unità, e a tante altre iniziative. «Significava, in ultima istanza, creare un’egemonia» (ibidem). In un processo espansivo di educazione reciproca, che mirava a coinvolgere, oltre alle masse lavoratrici, maschili e politicamente consapevoli, un popolo «genericamente concepito, inter-generazionale, inter-classista e privo di caratterizzazione di genere, dotato di scarsa consapevolezza politica anche se non necessariamente analfabeta» (pp. 191-192).

L’ultimo periodo sottoposto a indagine sistematica dall’autrice va dal 1956 al 1967. Soffermandosi in particolare sui discorsi congressuali, Bassi identifica il cuore della narrazione allora imperante nella dialettica tra popolo (italiano) e popoli (del secondo e del terzo mondo, in via di emancipazione a partire da quelli cinese e cubano). Una narrazione che avrebbe concorso a «impedire, sul momento, lo sfaldarsi del discorso intorno al popolo quale conseguenza dell’emergere, prima di tutto discorsivo, di nuovi soggetti sociali e politici» (p. 243). La tesi di Bassi è che, in una fase di impetuosa trasformazione (economica, sociale, culturale, politica), durante la quale emergono nuovi movimenti (operai, studenteschi, femminili) e nuove teorie (dall’operaismo al femminismo, per l’appunto), il Pci si sia cristallizzato sulla retorica del popolo e in questo modo abbia finito per consumare la propria capacità performativa.

Negli anni Settanta Berlinguer si avvale ancora dell’appello al popolo per legittimare il “compromesso storico”. Sarebbe stata, però, l’estenuazione di un discorso ormai logoro. La corda si spezzerà negli anni Ottanta, quando il Pci sceglie di parlare non più al popolo, bensì alla società civile. Interlocutore privilegiato dei comunisti e poi dei post-comunisti diventa il cosiddetto «ceto medio riflessivo» (Paul Ginsborg). Ma la retorica del popolo, come oggi sappiamo, è tornata, con rinnovata forza e con vecchi e nuovi significati.