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Monica Galfrè, Simone Neri Serneri, “Il movimento del ‘77. Radici, snodi, luoghi”

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Monica Galfrè, Simone Neri Serneri, Il movimento del ‘77. Radici, snodi, luoghi, Roma, Viella, 2018, 322 pp

Uno dei meriti maggiori di questo volume, esito di un convegno fiorentino dell’autunno 2017, è quello di ambire a «oltrepassare gli stereotipi» (p. 9) sul movimento del Settantasette. Riconoscendo che si tratta di un fenomeno contraddittorio, sfuggente, difficile da inquadrare sul piano analitico, l’intento è insomma quello di evitare le frequenti schematizzazioni ed etichettature con cui spesso quel movimento è stato rappresentato, o nelle quali è stato semplicisticamente risolto (gli anni di piombo, la dicotomia secca creatività/distruttività, il nichilismo, l’individualismo anticipatore degli anni Ottanta ecc.). Ciò significa, tra l’altro, non solo inscrivere il Settantasette «nella storia delle mobilitazioni politiche novecentesche» (p. 11), ma anche smussarne i tratti di discontinuità rispetto alla storia della sinistra italiana. Significa anche, ed è meno scontato di quanto appaia a prima vista, non appiattirlo sui «processi e i progetti di militarizzazione sviluppati da gruppi o organizzazioni armate» (p. 11). I curatori peraltro hanno alle spalle una ricca esperienza di riflessione e confronto sulla conflittualità politica degli anni Settanta, sulla violenza collettiva, sulla lotta armata e il terrorismo, sulla stessa memoria del Settantasette.

Il volume è diviso in tre parti: la prima è dedicata ai caratteri generali del movimento, la seconda ai contesti locali (ma la scelta sarebbe di accantonare gli scenari più “canonici”: assente quindi Bologna, e in parte Milano; mentre però Roma, nonostante i dichiarati propositi, sembra per così dire rientrare dalla finestra in più momenti), la terza alla questione della violenza e più ampiamente al dibattito sulle istituzioni democratiche e alla loro presunta involuzione repressiva. Risulta davvero impossibile, nel ristretto spazio di questa recensione, riferirsi a ognuno dei diciannove capitoli del libro; proverò quindi piuttosto a dar conto degli spunti che ritengo più interessanti e innovativi, o che comunque connotano la fisionomia complessiva di questa importante opera.

I capitoli degli stessi curatori, innanzitutto, offrono occasioni di riflessione particolarmente significative. Galfrè («Senza passato né futuro». Il difficile rapporto del ‘77 con la storia) e Neri Serneri (Il ‘77 e il lungo ‘68 italiano) sollevano tra l’altro la questione della periodizzazione del movimento, superando le letture che lo vedono come una «cesura» fra una storia politica precedente con cui esso avrebbe ben poca parentela, da un lato, e gli anni successivi, dall’altro, come scenario altrettanto estraneo. Spesso in effetti è sembrata prodursi, paradossalmente ma non tanto, una storiografica «autonomia dal politico» del Settantasette, in senso diacronico, in quanto incongruenza con la storia politica. Mentre invece, precisa Galfrè, il movimento appare più come l’«ultimo esempio della tradizione rivoluzionaria del Novecento», che come «la prima pagina dell’era postmoderna» (p. 22); né sarebbe condivisibile una cesura netta delle guerriglie urbane del 1977 con gli anni successivi, se è vero che gli attentati armati raggiungono il parossismo proprio tra il 1977 e il 1982 (p. 24). D’altra parte, secondo Neri Serneri, «l’attenzione ai consumi non era [...] se non marginalmente un’anticipazione di comportamenti individualistici “post-moderni”» (p. 48): qui la transizione epocale è sì quella di un complessivo «spostamento dalla centralità del lavoro alla centralità dei consumi», ma l’autore sottolinea, scartando teleologismi retrospettivamente istituiti in varie letture successive, che a questo nuovo scenario «si reagiva tentando di sottrarsi alla deriva individualistica e organizzando una risposta collettiva e quindi politica» (p. 49). Semmai, è proprio in riferimento al contesto ideologico di una «stabilizzazione» all’insegna dei sacrifici, quindi, che va interpretata questa vera e propria resistenza antropologica - ma ideologicamente tutt’altro che qualunquista - all’ambigua «austerità» predicata dal Pci e dal sindacato di Lama.

Lontana da ogni interpretazione che vede nel Settantasette un’anticipazione del “trionfo del privato” è anche Barbara Armani, secondo la quale - al contrario - proprio nel Settantasette «la vita privata e affettiva acquista [...] un evidente statuto politico» (p. 73); il famoso «diritto al caviale», insomma, non sarebbe la prova di una definitiva integrazione subalterna delle nuove generazioni alla logica consumistica, «ma una forma, illecita e violenta, di “socializzazione” dei consumi, una pratica che puntava [...] allo svuotamento delle regole del mercato, al rifiuto aperto e provocatorio di un’etica e di un’epica dei sacrifici invocata dalla sinistra storica» (p. 75). Non di rado, poi, la negazione interpretativa di ogni spessore “politico” a questa rivolta dei «bisogni» ha fatto il paio, si può dire, con le difficoltà di molta storiografia nel riconoscere la profondità radicale delle istanze femministe, cui il movimento, secondo diversi autori e autrici del volume, si mostra più o meno genuinamente permeabile. È in particolare Paola Stelliferi (Il 1977 nel femminismo italiano) a sottolineare - assieme alle ovvie divergenze e differenze - le assonanze interpretative che entrambi i movimenti rivelano a una lettura avvertita: la «centralità assunta dai corpi» (p. 85), le forme “creative” della protesta, la critica alla razionalità esaltata dalla politica tradizionale, il rifiuto della delega, il «diritto al piacere e al godimento» (p. 85).

Alessio Gagliardi (Nella crisi della società del lavoro) sottolinea poi come soprattutto nella sua fase iniziale, nonostante gli ambiziosi slanci teorici poco simpatetici con la cultura della classe operaia storica, il movimento del Settantasette persegua un coinvolgimento organico delle fabbriche nelle proprie lotte (p. 104); una prospettiva che non si realizza anche e soprattutto per l’arroccamento del Pci «intorno alla difesa e alla rappresentazione di una monolitica e mitizzata classe operaia» (p. 106). D’altra parte, la classica “etica del lavoro”, ricorda ancora l’autore, da anni ormai è stata messa in discussione dagli stessi giovani operai, i quali - sintetizza un’inchiesta del 1975 - «si sentono più giovani che operai» (p. 110).

La seconda parte del volume raccoglie indagini sulle molte “periferie” del Settantasette, e non solo in senso geografico: Torino, Genova, Bergamo, Firenze; le relazioni fra «chimera insurrezionale» (Guzzo, p. 203), spazio urbano e movimento a Roma; le vicende dei Circoli del proletariato giovanile a Milano, Torino e Roma. Rispetto alla terza e ultima sezione di questo libro, invece, può essere interessante confrontare il modo in cui i contributi di Grispigni (“Il salto di qualità”. La violenza di strada e i suoi attori) e di Baravelli (Difendere Padova! Violenza urbana e azione delle forze dell’ordine) inquadrino le questioni legate alla «violenza».

Secondo Grispigni, peraltro, «l’innalzamento del livello di scontro» (p. 267) avviene già prima del ‘77: ed è solo dal 12 marzo che le armi assumono un ruolo molto rilevante nella violenza di piazza (ma neppure le pistole in sé sono una novità assoluta). L’autore è molto sensibile, e non certo da oggi, al rischio di una lettura affrettata e caricaturale di quella violenza, e quindi anche del «terreno minato dell’appiattimento delle vicende del movimento su quelle della lotta armata» (p. 268): essenziale è allora considerare «la molteplicità degli attori in campo» (p. 265) - compresi le forze dell’ordine, i neofascisti e il Pci - e gli specifici repertori di azione, anche nelle loro continuità e discontinuità rispetto all’intero ciclo della «stagione dei movimenti».

Per Baravelli, la «ripetizione dello scontro fisico» conduce il movimento padovano a un «irreversibile radicalismo», il quale a sua volta «conduce a giustificare - e a praticare - azioni sempre più violente» (p. 286). L’autore, nel descrivere un quadro di 700 «episodi eversivi» tra il 1977 e il 1978 (p. 280), scrive di «eccesso di permissivismo» delle autorità universitarie rispetto alla «prepotenza autonoma» (p. 284), o di «preteso senso di alterità» dei presidi riluttanti ad approvare le irruzioni delle forze dell’ordine nei loro istituti scolastici (p. 284). Ma nella primavera del 1977 le cose da questo punto di vista cambiano: da un lato la polizia adotta strategie di azione più attentamente pianificate e coordinate con la magistratura; dall’altro, quest’ultima - nella persona di Pietro Calogero - ordina gli arresti di alcuni docenti dell’ateneo padovano (poi prosciolti) con l’accusa di associazione a delinquere. Sicché, conclude Baravelli, si può dire che le forze dell’ordine abbiano risposto efficacemente agli appelli che «la città, i giornali e la politica» avevano loro rivolto: «la loro parte l’avevano fatta egregiamente, avevano cioè saputo difendere Padova» (p. 291).