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Giovanni Cavalcanti, “Nuova Opera”

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Giovanni Cavalcanti, Nuova Opera. Edizione critica e annotata, a cura di Arianna Capirossi. Firenze: Firenze University Press, 2022. 383 pp.

Ogni edizione critica è sempre benvenuta; per lo storico, quando l’edizione riguarda un’opera storiografica che presenta una testimonianza esplicitamente di parte, e dunque di per sé ricca di interesse, lo è ancora di più.

L’edizione curata da Arianna Capirossi, oltre a fornire un testo editato correttamente e corredato da un ampio apparato critico e di commento che tanti spunti di riflessione permette agli studiosi di letteratura, offre anche allo sguardo dello storico un materiale che, se non del tutto inedito, mancava di un’edizione accurata e completa. Il testo, tramandato in unico testimone (ms Riccardiano 1870, databile agli anni tra il 1474 e il 1483), aveva conosciuto, in effetti, due edizioni parziali (a cura di Filippo Luigi Polidori nel 1839 e di Marcella Grendler nel 1973) e un’edizione integrale ma priva di un vero apparato critico a cura di Antoine Monti nel 1989.

La Nuova Opera di Giovanni Cavalcanti era nota prevalentemente come Seconde Istorie, titolo che la poneva in diretta continuità con la sua opera storiografica più conosciuta, le Istorie fiorentine, di cui in effetti sono la continuazione cronologica (le Istorie riguardano gli eventi avvenuti tra il 1420 e il 1440, la Nuova Opera quelli dal 1441 al 1447, cioè dalla battaglia di Anghiari alla nascita della Repubblica Ambrosiana). Ma, come sottolinea Capirossi (p. 14), considerarla una mera continuazione significherebbe darne una valutazione incompleta: cambia, in effetti, tra le due opere, anche l’approccio dell’autore alla materia cronachistica, che giunge a un atteggiamento più libero e orientato, anche attraverso il giudizio morale, alla critica serrata dei costumi della nuova classe dirigente fiorentina incarnata dall’ascesa di Cosimo de’ Medici. Muta, anche, la valutazione rispetto al primus inter pares mediceo: se nelle Istorie Giovanni de’ Medici è dipinto positivamente e come ritratto ideale del cittadino pubblico, il figlio – protagonista talvolta esplicito, talvolta silente, della Nuova Opera – vi emerge criticamente e talvolta astiosamente come incarnazione e simbolo della nuova classe dirigente e dei suoi costumi – una classe dirigente da cui l’autore è escluso - e che, proprio a partire dal 1440, avrebbe, secondo Cavalcanti, iniziato a mostrare il proprio lato tirannico.

Giovanni Cavalcanti (1381-ca. 1451) era nato da un ramo minore della celebre famiglia fiorentina: della sua biografia non si hanno vaste conoscenze, ma certamente un episodio della sua vita – che lui stesso pone a inizio della propria attività autoriale – connotò in modo significativo la sua esistenza e la sua opera. Egli infatti – oltre a essere escluso dagli uffici maggiori in quanto di famiglia magnatizia – fu vittima (o quanto meno si sentì tale) della esosa politica fiscale intrapresa dal reggimento fiorentino a partire dal 1423, volta a finanziare la guerra contro Filippo Maria Visconti: incapace di far fronte a tale aspra tassazione, indebitato e insolvente, venne imprigionato nel carcere delle Stinche, ove restò per circa un decennio, tra il 1430 e il 1440. Durante la sua prigionia, ebbe modo di dedicarsi alla scrittura delle Istorie, alla sua liberazione si stabilì a Monte Calvi ove produsse la Nuova Opera: e della nuova condizione – di libero, ma non di reintegrato nella società (quella che contava, per lo meno) – la sua seconda opera risente ampiamente. L’esperienza marcò la sua visione del mondo: umiliato, come altri, dalle scellerate politiche dei nouveaux riches, di un’oligarchia del denaro ormai al governo – tanto da passare dalla condizione di esponente degli «antichi assai cittadini» a quello di «bifolch[o]» - la sua caduta sociale informa pienamente il testo. L’ottica di Cavalcanti è, in tal senso, coerente: l’altro personaggio di primo piano che condivide l’onere di “uomo dei vizi” insieme a Cosimo è, infatti, Francesco Sforza, di cui l’autore segue l’ascesa vertiginosa che, da lì a poco, lo avrebbe portato al ducato milanese: difficile non leggere, nell’aspro giudizio che ne viene dato, non solo una valutazione politica, ma un riferimento chiaro alla ribalta sul palcoscenico del mondo di un uomo di natali non prestigiosi e di recenti, e opportunistiche, fortune.

L’opera è incompleta e suddivisa in 88 capitoli, nei quali si alternano resoconti degli eventi contemporanei a riflessioni personali, racconti e aneddoti, in un caleidoscopio di generi che permette di considerare l’opera etimologicamente una satira. Un racconto, dunque, il cui continuum temporale è di frequente interrotto da digressioni, talvolta lapidarie, talaltre ampie a tal punto da risultare vere e proprie novelle. Oltre agli incisi con valore didascalico e critico, in due momenti l’autore “lascia” Firenze per dedicarsi monograficamente a due excursus: il primo, assai esteso (capp. 37-48), è tutto incentrato sugli scontri fazionari a Bologna, tra i Bentivoglio e i Canetoli (che chiama Canneti) culminati con l’assassinio di Annibale Bentivoglio; il secondo, più breve (cap. 62), porta invece il lettore a Genova, ove si svolsero le vicende che portarono all’imprigionamento di Tommaso Fregoso poi liberato dal nipote Giano. In realtà, i temi di attualità politica sovralocale sono disseminati in tutti i capitoli di taglio storico-cronachistico: al malgoverno del reggimento fiorentino nella gestione dei cittadini (e dei loro beni) e della cosa pubblica di Firenze, infatti, fanno da contraltare le vicende più scottanti che, direttamente o meno, interessavano la repubblica nello scacchiere peninsulare.

I protagonisti, i “grandi Stati” che poi sarebbero confluiti nella Lega italica, sono tutti presenti nelle pagine di Cavalcanti e agiscono nel gioco convulso che chiuse le vicende della prima metà del secolo XV, in un sistema di «cause e concause» che «identificano i legami esistenti tra processi che si svolgono in maniera parallela», con una procedura che ricorda quella poi portata ai massimi livelli da Machiavelli (p. 20), che di Cavalcanti fu lettore.

Alle notazioni cronachistiche, si è detto, Cavalcanti interpone novelle, racconti e aneddoti, che hanno per protagonisti sia personaggi dell’antichità classica, sia uomini e donne contemporanei, storici o di invenzione. Capirossi analizza puntualmente questi intermezzi letterari, offrendone l’interpretazione e mettendone in luce i modelli letterari: nel loro insieme, essi servono all’autore a rendere più pregnante, vivificata, la sua posizione nei confronti dei governanti – e delle élite in genere - dei suoi giorni, fiorentini ma non solo: banchieri rapaci incuranti della giustizia, assassini bestiali e senza onore, contadini sprovveduti e creduloni, traditori, ingrati, lussuriosi… la galleria dei vizi e delle abiezioni è sostanzialmente completa e disegna una contemporaneità che, per contrasto, richiama un’età dell’oro – moralmente, eticamente e politicamente – che coincide, è ovvio, coi tempi in cui le antiche famiglie di cui Cavalcanti si fa portavoce rivestivano una posizione di prestigio e di guida della civitas.

Cavalcanti, dal canto suo, si presenta come un novello Boezio: entrambi ingiustamente condannati, entrambi umiliati dal carcere, entrambi capaci di convogliare la propria ingiusta vicenda biografica nella consolazione dell’opera intellettuale, che si fa però anche smascheramento dell’immoralità dei potenti.

La Nuova Opera presenta uno sguardo fortemente orientato dalle vicende biografiche del suo autore: lo sguardo, senza dubbio, di un “tradizionalista” scavalcato dal mutamento di classe dirigente, umiliato e risentito, che non cerca però di celarsi dietro a una presunta obiettività, né di riscattare la propria posizione, ma che persegue la propria finalità “di denuncia” mobilitando diversi registri letterari e retorici.

È lo sguardo, se si vuole, di un “perdente”, di un uomo che si trovò dalla parte “sbagliata” dei travolgenti mutamenti che interessarono Firenze e la penisola italiana negli anni al centro della narrazione, e che a quella parte volle restare ancorato, lanciando un grido certo parziale, ma che non può essere considerato unicamente come la voce di un singolo: seppur con un forte approccio autobiografico, la “storia” di Cavalcanti dà voce alle possibili preoccupazioni, ai giudizi negativi, alle esclusioni e ai contrasti rispetto all’emergente regime mediceo e, in qualche modo, dei tempi contemporanei.

L’accurato e ricco apparato critico, linguistico, letterario e storico approntato da Capirossi rende possibile la lettura – come talvolta accade – della storia scritta non dai vincitori.