Tra le persone che in quel lontano 27 marzo 1961 affollavano il bel salone barocco di Palazzo Medici-Riccardi in cui si teneva la seduta solenne del Consiglio provinciale di Firenze per il Centenario dell'Unità d'Italia c'ero anch'io, studentessa di liceo curiosa di sentire che cosa avrebbe detto in proposito quel giovane professore comunista che avevo già visto più volte alle conferenze del fiorentino Circolo di Cultura.
Di quel giorno ricordo più l'atmosfera che i contenuti, salvo il fatto che le parole del trentacinquenne Ragionieri valsero a farmi sentire quello che oggi si potrebbe forse definire, sfidando il rischio della retorica, l'orgoglio della cittadinanza attiva. Appena tre anni dopo, leggendo il testo di quella stessa conferenza in vista di una seduta del seminario universitario dedicata alla discussione del saggio Fine del Risorgimento? apparso pochi mesi prima su «Studi storici» [Ragionieri 1964], mi colpirono il rifiuto intellettuale e civile che essa esprimeva tanto per i «processi sommari» al Risorgimento quanto per le letture provvidenzialistiche di quella fase storica, ma anche le tepide simpatie per i democratici (a parte Cattaneo), l'ammirazione per Cavour («vero vincitore del Risorgimento») e gli apprezzamenti per quei moderati che avevano costituito il nerbo della classe dirigente «costruttrice dello Stato nazionale»: toni e rilievi che echeggiavano da vicino quelli del corso sulle Questioni generali del Risorgimento che avevo appena cominciato a seguire.
Riprendere in mano oggi quelle pagine mi ha fatto riscoprire prima di tutto la straordinaria serietà con cui quel giovane si impegnava a chiarire a sé e ai suoi concittadini l'utilità e l'importanza che poteva avere una riflessione sui cento anni di storia dell'Italia unita per alimentare quella «spinta alla formazione di una nuova tradizione nazionale» di cui gli pareva ci fosse un gran bisogno per affrontare il mare aperto e ignoto che la nave italiana aveva appena cominciato a solcare per effetto delle radicali trasformazioni – economiche e politiche, culturali e mentali – che avevano investito il paese.
Davanti a lui non c'era un pubblico di persone colte: e infatti l'andamento del discorso è piano, ma non per questo meno rigoroso e meno attento a presentare le novità della ricerca storica e a mettere a fuoco lo stato dell'arte, fornendo informazioni, suggerendo zone d'ombra e opportunità di approfondimento, articolando riflessioni e giudizi, conseguenza di un consolidato abito mentale in cui il gusto del ragionamento e del confronto faceva tutt'uno con la volontà di stimolare il pubblico a scoprire le potenzialità argomentative delle conoscenze di cui disponeva, e ad avvertire il bisogno di accrescerle e precisarle.
Se ne ha un esempio nell'attenzione prestata ai molteplici risvolti delle dinamiche di modernizzazione economica, come forse diremmo oggi, che soprattutto a partire dal primo Ottocento e dagli epicentri europei avevano investito la penisola, attivando processi – nell'agricoltura come nel commercio, nell'industria come nella finanza – che aprivano orizzonti e innescavano dinamiche di sviluppo, moltiplicando le opportunità di cambiamento e stimolando l'articolazione della società, ma finendo anche per accentuare «contraddizioni e disuguaglianze», squilibri e marginalità tra le diverse aree della penisola.
Si avvertono ancora, nelle pagine di Ernesto Ragionieri, gli echi del serrato confronto di pochi anni prima fra Emilio Sereni e Rosario Romeo in tema di rapporto fra assetto dell'agricoltura, mercato interno, tempi e modalità dell'industrializzazione. E vale la pena di osservare che nemmeno l'indubbia ammirazione per Sereni spinge mai Ragionieri a parlare del Risorgimento come di una «rivoluzione mancata», espressione cara all'autore del Capitalismo nelle campagne [Sereni 1947] più che a Gramsci, al contrario di quel che si è soliti dire. Gli preme invece ribadire che esso fu una rivoluzione, e più precisamente che esso rappresentò la forma specifica assunta dalla rivoluzione borghese al di qua delle Alpi, e che semmai, viste sia le intrinseche fragilità del coacervo di segmenti sociali riassumibili sotto l'etichetta borghese sia le robuste permanenze della strutturazione cetuale di antico regime, sarebbe meglio parlare di «rivoluzione incompiuta», destinata proprio perché tale a lasciare irrisolti problemi di fondo e di lungo periodo.1
In quella primavera del 1961 – è bene ricordarlo – le conoscenze sulle dinamiche economico-sociali nell'Italia dei primi decenni dell'Ottocento potevano avvalersi della recente quanto preziosa rilettura che di esse aveva fatto il secondo volume della Storia dell'Italia moderna di Giorgio Candeloro [1958]. Non era invece uscito (benché fosse quasi pronto per la stampa) il numero speciale di «Studi storici» sulla rivoluzione industriale, destinato a imprimere una decisa accelerazione agli studi sull'argomento, così come era ancora in preparazione la raccolta degli Scritti di economia di Cavour curata da Francesco Sirugo e comprendente quel saggio su Des Chemins de fer en Italie del 1846 rimasto sin lì ai margini della riflessione storiografica. Ma la questione, in anni segnati per l'Italia dal crollo dell'agricoltura e dai trionfi della grande industria, e per i paesi ex-coloniali dal tentativo di rompere la spirale del sottosviluppo innescando processi di industrializzazione, non poteva non catturare l'interesse di chiunque cercasse di leggere le dinamiche italiane di primo Ottocento all'interno di un contesto segnato a fondo da quella «duplice rivoluzione» che di lì a pochissimo Eric J. Hobsbawm avrebbe tradotto nella celebre immagine dei due crateri di un unico vulcano.
È su questo sfondo che vanno lette, mi pare, le riflessioni di Ragionieri sul centenario, segnate appunto dalla consapevolezza della rilevanza che aveva avuto nella storia d'Italia la nascita di uno Stato le cui dimensioni e i cui riferimenti istituzionali rappresentavano una cesura e una svolta epocale, e che per di più era il frutto di un progetto e di un movimento rivoluzionario: un fatto questo che - a suo parere – oltre a spiegare come mai esso fosse stato (e in qualche misura fosse ancora, attraverso figure di punta come Garibaldi e Mazzini) un punto di riferimento di movimenti di liberazione nazionale di tutto il mondo, aveva «introdotto una dimensione destinata a non essere facilmente eliminata o soppressa, quella dell'unità nazionale avviata per via e per forme rivoluzionarie». Ma consapevolezza della rilevanza storica del Risorgimento e riaffermazione del carattere rivoluzionario dei suoi esiti non significava affatto, per Ragionieri, sottovalutazione della problematicità dei risultati raggiunti dai moderati filosabaudi grazie alla geniale quanto spregiudicata iniziativa di Cavour, che aveva rubato «l'idea di Roma a Mazzini, a Garibaldi e al Partito d'azione»: una decisione che fece di lui l'«erede testamentario della rivoluzione» (come scrive Ragionieri legando l'Engels della prefazione del 1895 a Le lotte di classe in Francia di Karl Marx al Gramsci ammiratore e rielaboratore del canone della «rivoluzione passiva» di Vincenzo Cuoco), ma che non poteva non comportare un radicale depauperamento delle idee e dei programmi del movimento democratico.
Del resto, ad attirare l'attenzione di Ragionieri, in quegli anni, erano proprio le molteplici ricadute della vittoria di quella «oligarchia fondata su una ristretta base rappresentativa» che aveva modellato a fondo le istituzioni e le tradizioni dello Stato unitario e messo a tacere i conati di democrazia sociale presenti in molti dei suoi promotori. Era al valore e al prezzo dell'egemonia moderata che Ragionieri pensava sia quando scriveva del sistema prefettizio e delle leggi di unificazione amministrativa2 o dei provincialismi e delle chiusure che avevano connotato l'azione delle classi dirigenti, soprattutto a livello periferico, sia quando si interrogava sui “caratteri originali” del socialismo italiano fin de siècle, impregnato di eredità democratico-risorgimentali tanto sul piano della permeabilità geografica e delle reti associative quanto delle esperienze, dei miti e delle idealità di militanti e dirigenti della prima ora.3 Ed è significativo delle tensioni analitiche e concettuali che animavano il suo ininterrotto dialogo col Risorgimento e con il frutto di esso (quell'Italia unita che ai suoi occhi non era solo Stato e nazione, ma una “comunità di popolo” in progress) il fatto che per un verso egli sottolineasse la sua insoddisfazione per quanti continuavano a leggere il presente con lenti annebbiate dalla glorificazione acritica del Risorgimento e dei suoi esiti, preoccupati di disegnare un cammino lineare (con parentesi), una «ininterrotta continuità» fra i due capi – il 1861 e il 1961 – dell'Italia unita, e per l'altro fosse consapevole del ruolo decisivo di quell'imprinting iniziale, di quel “codice genetico” che tornava a balzare in primo piano in tutti i momenti più intensi e drammatici della vita nazionale. Tanto consapevole da chiudere la sua conferenza con la bellissima pagina di Piero Calamandrei in cui gli articoli più significativi della Costituzione repubblicana venivano collegati alle «voci familiari, auguste e venerande» di alcuni grandi del Risorgimento - da Mazzini a Garibaldi, da Cavour a Cattaneo - e, quasi senza soluzione di continuità, dell'antifascismo militante: Piero Gobetti, Carlo Rosselli, Antonio Gramsci..., fino a «quelle dei fratelli caduti nelle ultime battaglie della Resistenza, secondo Risorgimento d'Italia».
La convinzione che le coordinate del presente avessero ben poco a che fare con quelle del Risorgimento, insomma, non valeva né ad anestetizzarne i motivi e gli esiti, né a consegnarlo a un passato definitivamente “altro”.
Davvero, per fare solo qualche esempio, il modo in cui esso si era concluso e l'egemonia moderata sulla nascita e sul consolidamento del nuovo Regno non avevano nulla a che fare con le ricorrenti tentazioni autoritarie che avevano accompagnato quel processo, con il malfunzionamento delle istituzioni rappresentative – e in primis del parlamento – o, ancora, con la gelosa custodia del potere in poche mani che la classe dirigente aveva condiviso con i notabilati delle mille periferie italiane? Davvero, soprattutto, quei tratti costitutivi non avevano nulla a che fare con il fatto che proprio l'Italia avesse dato i natali al fascismo, «formicolante caleidoscopio nel quale erano destinati a consumarsi «gli antichi elementi costitutivi della nazione italiana» e a gettarsi «per antitesi le premesse di quelli nuovi»? Le incertezze segnalate dall'interrogativo del titolo scelto per il saggio dedicato a tracciare un primo bilancio (non solo storiografico) del centenario (Fine del Risorgimento?) sono, nelle considerazioni del 1961, ancora più marcate, e più dubbiosa la risposta, nonostante il desiderio di liberarsi dalle scorie di uno storicisimo asfittico, tanto proclive alle minute distinzioni quanto incapace di prendere atto dei grandi mutamenti di paradigma.
È strano – pensavo nel rileggere queste pagine – come esse diano per scontata, per ovvia, una categoria oggi sotto attacco come quella di "nazione" (non un cenno a che cosa siano
quei «caratteri nuovi» della «nazione italiana» che il fascismo e la guerra fascista avrebbero generato, sia pure «per antitesi»), e di quanto le convinzioni e i dubbi che le percorrono
sottotraccia rinviino invece alla stagione della Resistenza che rigenerò al calor rosso parole e nozioni che il rullo compressore del fascismo sembrava aver stritolato per sempre, come scrivevano
già in lettere e diari del periodo di guerra non pochi antifascisti e partigiani, e come avrebbe esemplarmente ricordato anni dopo Natalia Ginzburg:
Le strade e le piazze delle città, teatro un tempo della nostra noia di adolescenti e oggetto del nostro altezzoso disprezzo, diventarono i luoghi che era necessario difendere. Le parole “patria” e “Italia”, che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché sempre accompagnate dall'aggettivo “fascista”, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d'un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D'un tratto alle nostre orecchie risultarono vere. Eravamo là per difendere la patria e la patria erano quelle strade e quelle piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava. Una verità così semplice e così ovvia ci parve strana perché eravamo cresciuti con la convinzione che noi non avevamo patria e che eravamo venuti a nascere, per nostra disgrazia, in un punto gonfio di vuoto. E ancor più strano ci sembrava il fatto che, per amore di tutti quegli sconosciuti che passavano, e di un futuro ignoto ma di cui scorgevamo in distanza, fra privazioni e devastazioni, la solidità e lo splendore, ognuno era pronto a perdere se stesso e la propria vita [Ginsburg 1984].
Impossibile non pensare che quei luoghi e quelle persone erano, appunto, la nazione, e che chiunque avesse vissuto, da attore o da spettatore, momenti di così intensa solidarietà di fronte allo sfacelo dell'Italia difficilmente poteva guardare con diffidenza, e tanto meno con estraneità, a un concetto di cui magari riconosceva le aporie, ma di cui avvertiva anche le irrinunciabili profondità culturali e le straordinarie potenzialità civiche, magari nel segno di quegli eroi risorgimentali per i quali città, nazione, Europa, mondo, non solo non erano dimensioni contrapposte, ma segnalavano appartenenze la cui interazione non poteva che innescare circuiti virtuosi.
Questo accadeva cinquant'anni fa, in quella che a molti sembrava configurarsi come l'alba di un mondo nuovo e migliore. E oggi?
Reference List
Cadeloro G. 1958, Storia dell'Italia moderna. 2: Dalla Restaurazione alla Rivoluzione nazionale (1815-1846), Milano: Feltrinelli.
Cavour C. 1962, Scritti di economia 1835-1850, edited by Francesco Sirugo, Milano: Feltrinelli.
Detti T., Gozzini G. (eds.) 2001, Uno sguardo in periferia. Ernesto Ragionieri e la storia locale, in Id. 2001, Ernesto Ragionieri e la storiografia del dopoguerra, Milano: FrancoAngeli.
Ginzburg N. 1984, Prefazione, in Falaschi G (ed.) 1984, La letteratura partigiana in Italia 1943-1945, Roma: Editori Riuniti, 8-9.
Hobsbawm E. J. 1962, The Age of Revolution: Europe, 1789-1848, London: Weidenfeld and Nicolson [Trad. It.: 1963, Le rivoluzioni borghesi (1789-1848), Milano: Il Saggiatore].
Istituto Gramsci (ed.) 1962, Problemi dell'unità d'Italia: atti del 2. Convegno di studi gramsciani tenuto a Roma nei giorni 19-21 marzo 1960, Roma: Editori riuniti.
Ragionieri E. 1963, Mazzinianesimo, Garibaldinismo e origini del Socialismo in Toscana, «Rassegna storica toscana», 10 (1963): 143-158.
Ragionieri E. 1964, Fine del "Risorgimento"? Alcune considerazioni sul centenario dell'Unità d'Italia, «Studi storici», 1 (1964), 3-40. [Reprinted in Ragionieri E. 1979, Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Roma: Editori Riuniti, 21-60; and in Masella L. 1979, Passato e presente nel dibattito storiografico, Bari: De Donato, 1979, 116-38.]
Ragionieri E. 1965, Prefazione, in Guida alla mostra: Mostra storica dell'unificazione amministrativa italiana, 1865-1965: Firenze, Palazzo Pitti, 10 ottobre-30 novembre 1965, Firenze : Tipografia nazionale.
Sereni E. 1947, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino: Einaudi.
Zazzara G. 2007, La nuovissima storia. Genesi della storia contemporanea nell'Italia del secondo dopoguerra, PhD diss., Università di Venezia.
Il documento:
Ernesto Ragionieri, L'unita d'Italia. Discorso celebrativo tenuto nella seduta solenne del Consiglio provinciale di Firenze il 27 marzo 1961 nella Sala di Luca Giordano di Palazzo Riccardi, Firenze: Tip.Giuntina, 1962.Note
1 Per quanto l'interesse di Ernesto Ragionieri per il nesso fra Risorgimento e storia dell'Italia unita non sia al centro di nessun saggio, numerose sono le osservazioni sull'argomento [Detti, Gozzini 2001], [Zazzara 2007].
2 Già nel 1960 era intervenuto al convegno sui Problemi dell'Unità d'Italia [Istituto Gramsci (ed.) 1962] parlando del binomio Politica e amministrazione nello Stato unitario, più volte rivisitato negli anni successivi, fino alla organizzazione, a Firenze, della Mostra storica dell'unificazione amministrativa italiana e del relativo catalogo, di cui scrisse anche la prefazione [Ragionieri 1965].
3 Ne è un esempio il saggio su Mazzinianesimo, garibaldinismo e origini del socialismo in Toscana [Ragionieri 1963] che del resto si muove in una prospettiva largamente condivisa dagli studi di quegli anni, sollecitati dal 70° anniversario della fondazione del Partito socialista italiano.