Come si fa a ricordare, al tempo stesso, un amico e uno studioso, un docente, un animatore culturale intraprendente e vulcanico come Alberto De Bernardi? Qualcuno potrebbe suggerire di mettere tra parentesi l’amicizia, non per ignorarla, ma perché potrebbe rischiare di alterare il giudizio sulla figura pubblica, sullo storico, sull’intellettuale. Ma forse, verrebbe da rispondere, l’amicizia nasceva anche dal suo essere storico, docente, organizzatore di cultura in un certo modo, con caratteristiche, ambizioni, obiettivi e risultati che costituivano un terreno comune. Del resto, se abbiamo potuto essere amici, ma anche colleghi di lavoro e di iniziative pubbliche e private, per oltre cinquant’anni, è stato anche perché l’intreccio tra i due aspetti – l’amicizia e il lavoro in tutti i suoi variegati momenti – è stato troppo stretto per poterlo dividere e separare.
Proprio per questo vorrei iniziare da un ricordo che condivido con altri tre amici (e storici): il seminario storico itinerante che facemmo, ormai diversi anni fa, in barca a vela, attorno alle isole del Tirreno centro-meridionale. In quei giorni, che ricordo tra i più liberi e divertenti, cementammo una lunga amicizia con una sorta di prolungata autocoscienza, ma discutemmo sul nostro ruolo di storici, sulle prospettive della disciplina e della ricerca, sulle strade che ognuno di noi aveva dato e voleva dare all’impegno professionale, un impegno unico e particolare, che abbraccia al tempo stesso ricerca e didattica, divulgazione e intervento nella memoria collettiva. Alberto apparteneva, per formazione, a una delle scuole più importanti e innovative della disciplina storica, quella di Franco Della Peruta, che a Milano era chiaramente egemone delle scuole liberale e cattolica che in ambito accademico avevano sicuramente più numerosi aderenti. Accanto alla storia del movimento operaio, praticata da tutti gli storici di ispirazione marxista più o meno coerente, Della Peruta stava dando vita alla nascita di una corrente italiana di “storia sociale”, che aveva proprio alla Statale di Milano il suo centro di diffusione. Gli studi di Alberto sulla questione agraria dall’Unità al secondo dopoguerra (a partire dalla tesi sul dibattito socialista relativo a essa nell’Italia liberale) sono poi sfociati nel lungo studio sulla pellagra, un esempio di storia sociale fondata ancora prevalentemente sulla documentazione archivistica e su uno sguardo “oggettivo” alle strutture e alle dinamiche sociali, proprio mentre attorno a riviste come Movimento operaio e socialista e Società e storia si iniziava a discutere dell’ingresso della “soggettività” nella storia entrando in contatto più frequente e continuo con le scuole di storia sociale soprattutto inglese e francese.
In modo più accentuato di molti altri della nostra generazione, Alberto ha mantenuto costante un impegno politico, anche se sempre di tipo indiretto, coinvolto nel dibattito politico-culturale più che nella vita di partito, dedicato soprattutto a portare la storia fuori dalle aule universitarie, dentro quelle scolastiche e nell’arena pubblica più generale. Molte volte, nel ricordo di Alberto – e, in passato, nel modo in cui si riassumeva la sua attività – si rammentava soprattutto la fortunata serie di manuali scolastici, quasi fosse diventata quella la sua principale attività. Quell’esperienza è stata senz’altro centrale nella sua vita, perché gli ha permesso di misurarsi con un tipo di attività – a metà strada tra il manager culturale e la riduzione della complessità della storia a una dimensione didattica – che gli ha dato modo di confrontarsi, attraverso lo sguardo e l’atteggiamento degli insegnanti, con interrogativi storiografici diversi, oltre che con un linguaggio decisamente diverso da quello della saggistica storica. Il suo lungo sodalizio con la Bruno Mondadori (cui in maniera molto più ridotta ho collaborato anch’io) ha rappresentato non soltanto una novità e quasi una rivoluzione all’interno della manualistica tradizionale, ma ha impostato un nuovo rapporto col mondo della scuola, soprattutto con le insegnanti (in maggioranza donne, e questo ha certamente favorito uno spazio di collaborazione continuo), con una sorta di loro formazione continua, con il vecchio “aggiornamento” capace di diventare uno scambio di esperienze, una triangolazione tra la ricerca storica più avanzata, le metodologie didattiche più nuove e sofisticate e la concretezza di un mondo della scuola sopraffatto da gerarchie e burocrazie cui solo la buona volontà di una solida e robusta minoranza di docenti ha permesso di sfuggire e bypassare.
La vitalità dei convegni, dei corsi di formazione, delle scuole di aggiornamento organizzati da De Bernardi o che hanno visto una sua presenza significativa, credo abbiano significato per centinaia e centinaia di insegnanti uno spazio di novità e di spinta, di apprendimento e di sollecitazione che si sono poi diffusi e moltiplicati grazie anche ad altri soggetti e organismi che si sono mossi in autonomia. Di questa esperienza non voglio ricordare qualche singolo episodio – anche se alcuni sono stati memorabili – ma lo strumento che ne è poi diventato, in qualche modo, il collante e il moltiplicatore, la rivista I viaggi di Erodoto. Per quasi quindici anni, tra il 1987 e il 2001, la rivista diretta da Alberto ha rappresentato un unicum, capace di presentare saggi e dossier storiografici innovativi ma sempre orientati alla loro fruibilità nel mondo della scuola e dell’università, a una metodologia didattica capace di far diventare la storia un punto di riferimento per connettere lo studio del passato agli interrogativi del presente.
I primi anni Novanta, segnati dal crollo del comunismo e dalla fine della Guerra fredda, hanno rappresentato un momento di svolta significativo nella vita di Alberto, su molti piani. Di questa era parte l’accelerazione dell’impegno con la Bruno Mondadori e il suo diventare sempre più punto di riferimento per il coinvolgimento di numerosi insegnanti in un lavoro che non era solo di “aggiornamento” storiografico, ma di confronto con le grandi tematiche delle guerre, dei genocidi, dei totalitarismi, che riuscivano forse per la prima volta a essere affrontati in termini comparativi prima nel mondo della scuola che in quello della ricerca universitaria. Anche di questo parlammo – con Alberto, ma anche ovviamente con Roberto Gulli – nei giorni di capodanno del 1992 che trascorremmo insieme nella foresta di Białowieża, al confine tra Polonia e Bielorussia, in un memorabile e divertente viaggio durante il quale potemmo osservare la permanenza degli ultimi retaggi del mondo comunista in una società che cercava rapidamente di dimenticare quell’esperienza e avvicinarsi sempre più all’Europa. Proprio in quegli anni Alberto pubblicava i risultati delle sue prime ricerche sul fascismo, un campo di studi per lui nuovo, analizzato dapprima attraverso le politiche sociali del regime ed entrando successivamente all’interno di una riflessione più globale sui caratteri nuovi e di successo di quella «dittatura moderna» (come chiamò un suo importante studio di un decennio dopo) inventata in Italia. Nello studiare il fascismo De Bernardi si mosse come fece in pratica sempre quando apriva un nuovo campo di ricerca: partire da un momento parziale, da un’ottica particolare, e poi ampliare alla globalità dell’esperienza storica il suo ragionamento, per confrontarsi con la storiografia più avanzata e offrire una lettura del fenomeno storico originale ma anche capace di diventare trasmissione didattica e senso storico pubblico.
È proprio nell’ultimo scorcio del secolo scorso che l’attività multiforme di Alberto si è arricchita della sua presenza costante nella rete degli istituti della Resistenza: prima in quello milanese, poi nell’istituto nazionale e nel Parri dell’Emilia Romagna. Ed è ancora in questa veste che i nostri rapporti si sono intrecciati ancora di più. Di questa lunga e benemerita attività vorrei sottolineare soprattutto due aspetti: la capacità inesauribile di attività, di promozione, di affermare una presenza nuova nell’arena pubblica di questi organismi culturali, per farli uscire dal cono d’ombra in cui spesso si erano rinchiusi; e il coinvolgimento di una nuova generazione di storici, di giovani che spesso incontravano difficoltà nell’inserirsi nel mondo accademico e trovavano in questo modo la possibilità di coniugare la volontà di studio e ricerca con l’impegno a una presenza più forte e significativa della storia – e di una storia capace di rispondere agli interrogativi posti dal presente – nell’arena pubblica, al fine di contrastare luoghi comuni, pregiudizi e stereotipi presenti nella società.
Di quanto un impegno analogo Alberto sia stato in grado di espletare all’interno dell’Università di Bologna, dove ha trascorso la grandissima parte della sua esperienza accademica e didattica, lo potranno raccontare meglio i suoi colleghi e soprattutto i suoi allievi, numerosi e attivi in più ambiti. Vorrei ancora ricordare, per terminare questa breve memoria della figura di Alberto De Bernardi, la collaborazione che avemmo nello scrivere un libro a quattro mani, che venne pubblicato dal Mulino nel 1998 e riedito con una nuova edizione nel 2003: Il Sessantotto. Si trattava di scrivere la storia di un evento fortemente periodizzante, nell’immagine e nella percezione pubblica più che in una riflessione storiografica che non aveva ancora avuto il coraggio di affrontare un tema così vicino nel tempo. A noi sembrava che proprio la fine della Guerra fredda e l’avvento della globalizzazione potessero porre l’evento-Sessantotto in una prospettiva storica finalmente chiara e possibile, come momento di cerniera tra la fine della lunga opera di ricostruzione postbellica dell’Europa e l’inizio di nuovi equilibri – sociali e culturali prima ancora che politici e istituzionali – che avrebbero poi manifestato i primi sintomi di una nuova e incipiente dinamica globale che la fine del comunismo avrebbe accelerato e trasformato. Del Sessantotto esistevano, all’epoca, soprattutto memorie di alcuni suoi protagonisti o opere di carattere più giornalistico e cronachistico che storico, come invece era accaduto in altri paesi e soprattutto nel mondo anglosassone e in Francia. Noi ci dividemmo il compito relativamente a uno sguardo internazionale e uno relativo all’Italia ma discutemmo costantemente ognuno il lavoro dell’altro: in un intreccio di analisi storica ma anche, inevitabilmente, di “amarcord” sulle nostre rispettive e diverse esperienze in quell’anno e in quel periodo, e sulla difficoltà, ma anche la bellezza di una simile sfida, di “fare storia” di un periodo di cui si era stati testimoni e in qualche modo, trattandosi di un evento collettivo, protagonisti. Quella collaborazione, in ogni modo, cementò ancora di più non soltanto la nostra amicizia personale ma anche la collaborazione intellettuale e la condivisione culturale, pur all’interno di posizioni tutt’altro che omogenee e sempre coincidenti.
È tuttavia alla sua pienezza di umanità che devo, credo, la nostra amicizia e la nostra lunga collaborazione. Alberto aveva una forza, una vitalità, un entusiasmo, una voglia di fare, di partecipare che ho visto in poche persone, e che lo spingevano a impegnarsi in occasioni molteplici, in progetti continui, in sforzi incessanti di cambiare, rinnovare, l’ambiente culturale e politico in cui viveva e operava. A questo si aggiungeva il carattere travolgente e frastornante dei suoi racconti nei momenti conviviali, racconti personali (le sue origini valdesi) e politici (il gruppo Gramsci, l’abbandono dell’estremismo, il Pci, il migliorismo, il riformismo), culturali e accademici, che mettevano in risalto la totale irregolarità rispetto ai canoni accademici consolidati, la pratica – mai in pubblico però – di un politically incorrect con cui sferzava le tendenze più pericolose o ridicole che rovinavano la possibilità di una seria proposta riformatrice, rimasta un desiderio minoritario e ricorrentemente fallito, ma incessantemente perseguito perché l’unico, al tempo stesso, razionale e con una forte dose di umanità.
Quella sua incrollabile visione politica degli ultimi anni ha fatto sì, a volte, che gli venisse automaticamente sovrapposta agli studi e all’iniziativa culturale da chi non la condivideva, e che per questo pensava, però, potesse inficiare il suo lavoro di storico e di organizzatore culturale. L’ultima battaglia che abbiamo combattuto insieme, e che si è conclusa sfortunatamente con una sconfitta (non credo nostra, o non solo nostra, ma dell’intera possibilità di dare una svolta positiva al ruolo pubblico della storia) è stata quella relativa al progetto di un museo sul fascismo a Predappio, voluto dall’allora sindaco Giorgio Frassineti e di cui fummo i sostenitori e progettisti “scientifici”. I ritardi del progetto, dovuti anche in parte ai furibondi e continui attacchi provenienti dalla destra e da gran parte della sinistra, arroccata a una visione pubblica del fascismo incentrata soltanto sulle manifestazioni e dichiarazioni di antifascismo, per cui potevano andare bene monumenti e memoriali (antifascisti), ma non un museo che sarebbe stato «necessariamente» e «inevitabilmente» neutrale o favorevole al fascismo, si sono poi incontrati con le contraddizioni e debolezze politiche locali nella scelta del candidato sindaco che doveva proseguire la meritoria opera decennale di Frassineti, favorendo la vittoria, per la prima volta dal dopoguerra, della destra (come avvenne, per verità storica, in tante altre parti d’Italia tradizionalmente di sinistra). Di quella battaglia rimase, in Alberto come in me, la tristezza per avere sciupato una preziosa occasione che veniva presentata per portare in pubblico una visione del fascismo che avrebbe potuto orientare soprattutto i giovani e i giovanissimi, aiutando i docenti ad affrontare lo studio e la conoscenza di quel periodo senza i timori di contrasti politici e ideologici interni alle scuole. Un’occasione che spero qualcuno di quei lontani detrattori e accusatori comprenda proprio oggi come sia stata davvero sprecata e sia stata foriera di un arretramento impensabile sul terreno della public history.
Tutti coloro che hanno conosciuto Alberto, come amici, colleghi, allievi, hanno di lui un ricordo particolare e lamentano adesso la mancanza di qualcosa che lui era capace di dare. Per me è la gioia non solo della vita ma della discussione attorno alla storia, che tracimava inevitabilmente anche nella politica. Una cifra che appartiene forse con maggior forza alla nostra generazione e alla sua esperienza e che Alberto ha riassunto spesso nei modi più incisivi e chiari. La sua memoria, proprio per questo, rimane con noi e ci aiuta nel nostro lavoro.
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