Nell’epitome della Historia Romana di Cassio Dione [1] si legge:
Non appena si diffuse la notizia della sorte di Pertinace, alcuni corsero alle proprie abitazioni, altri verso quelle dei soldati e si davano pensiero per la propria salvezza. Avvenne che Sulpiciano, invece, fosse inviato da Pertinace presso i castra praetoria, perché riportasse ordine là, rimase nel luogo e fece in modo di essere designato imperatore [2].
Intercorre l’anno 193 e il brano sopra riportato ci permette di cogliere subito il tema di interesse di questo contributo, dedicato a una figura che agì soprattutto nei retroscena della corte imperiale: Tito Flavio Claudio Sulpiciano.
La narrazione dionea in realtà aveva introdotto il personaggio poco prima rispetto alla parte citata; giacché lo storiografo si era soffermato sul fatto che Pertinace [3] stesso aveva stabilito che il suocero potesse divenire prefetto della città – «πολιαρχεῖν ἔταξε», in quanto del tutto degno – «ἄλλως ἄξιος» di assumere l’incarico [4]. Dione sembra quindi esprimere già un giudizio positivo riguardo a Sulpiciano, ponendo enfasi sulle motivazioni di Pertinace, ovvero sull’assoluta idoneità del suocero.
Tuttavia, nel passo citato in apertura la situazione appare precipitata: Pertinace ha ormai compreso che i pretoriani stanno complottando contro di lui e che Sulpiciano, inviato presso di loro per riportare ordine, era rimasto fra loro allo scopo di acquisire la massima carica. Proprio sugli ultimi due termini usati da Dione è opportuno soffermarsi: «αὐτοκράτωρ ἀποδειχθῇ».
Αὐτοκράτωρ [5] è parola che rimanda a un potere legittimato e Sulpiciano in effetti si candidò ad assumere il titolo di imperatore nei primi mesi dell’anno 193, ma il tentativo di ascesa non riuscì.
Il termine imperator in età scipionica designò il detentore di un potere unicamente militare, acclamato capo dalle milizie a lui subordinate [6], parimenti a quanto poi si poté anche ritrovare nell’espressione tacitiana riferita a Tito [7]: «atto al comando supremo» [8].
Al termine proprio della titolatura imperiale latina “imperator” equivalse nelle iscrizioni e nella maggior parte degli autori greci il corrispondente greco “αὐτοκράτωρ”, che rimase pertinente in prima analisi all’ambito militare, come acclamazione di un generale vittorioso e, come ricordato da Dione stesso e come noto, divenne titolo designante il detentore del potere assoluto fin dall’età di Ottaviano Augusto:
Queste e tutto ciò che raccontai prima nella mia narrazione furono le azioni che Cesare, nell’anno in cui fu console per la quinta volta, compì; ed egli assunse il titolo di αὐτοκράτωρ. Qui non mi riferisco al titolo che acquisì secondo l’antico costume in occasione di vittorie militari […] ma piuttosto al titolo nell’altro uso ovvero il possesso del supremo potere […] [9].
Da quel momento la parola considerata assunse una doppia valenza: titolo di imperatore e al contempo acclamazione del capo delle milizie vittorioso.
Inoltre nell’uso dioneo αὐτοκράτωρ fu nettamente distinto da βασιλεύς, egli impiegò infatti quest’ultimo in senso peggiorativo come detenzione di un potere personale, tirannico; mentre al primo associò un valore positivo, intendendo un’autorità assoluta tuttavia benevola [Freyburger-Galland 1997].
Dunque, secondo quanto ci fu tramandato dall’opera dionea [10], Sulpiciano fu un potenziale ottimo imperatore, tuttavia gli eventi procedettero in modo a lui sfavorevole e più testimonianze concordarono sul fatto che furono i pretoriani a non fidarsi di lui.
Procediamo quindi con ordine cronologico e cerchiamo di ricostruirne la scarna biografia grazie alle fonti pervenuteci. Nulla si può dire con certezza riguardo alla sua origine, tuttavia i dati forniti dagli Acta Fratrum Arvalium, attestati da quattro tavole marmoree rinvenute in Roma, delle quali una frammentaria e abbondantemente discussa, tutte databili a un periodo compreso tra il 170 e il 200, ci restituirono il formulario onomastico completo: Titus Flavius Claudius Sulpicianus [11].
In particolare il secondo gentilizio Claudius, documentato anche in un brevissimo brano tratto dagli Scriptores Historiae Augustae riportante «Claudium Sulpicianum» [12], dà adito a possibili ipotesi sulla provenienza del personaggio in questione.
Appare discutibile l’appartenenza alla famiglia dei Flavii Sulpiciani della città di Hieraptyna (od. Ierapetra) di Creta, i cui membri a noi noti portarono Lucius come praenomen e presentarono elementi greci nel formulario [13].
Inoltre, come già segnalato negli studi di Alföldy [1968, 142] e Pflaum [1966, 54], non conosciamo attestazioni del secondo gentilizio Claudius in riferimento ad abitanti dell’isola di Creta, anche uno spoglio dei maggiori cataloghi epigrafici digitali conferma tale assenza [14].
La presenza del nomen Claudius non è comunque sottovalutabile, giacché autorizza a sostenere se non proprio un’origine, quasi con certezza, una provenienza orientale.
Uno studio recente riguardo alle élite senatorie del secolo III elenca diciotto gentes documentabili, fra le quali troviamo anche i Claudii, individuando come principali aree di diffusione del gentilizio le antiche province di Syria, in particolare dalla città di Antiocheia ad Orontem (od. Antakya, in Turchia) e di Galatia [Mennen 2011, 65, 95-99].
Dalle fonti scritte apprendiamo in seguito che la figlia di Sulpiciano, Flavia Tiziana [15], divenne moglie di Publio Elvio Pertinace, imperatore dal gennaio al marzo del 193 [16].
Dall’unione dei due nacque un figlio, omonimo dell’imperatore, ed è possibile che Sulpiciano abbia fatto tutto il possibile per divenire imperatore nei momenti di tensione con i pretoriani descritti all’inizio, proprio per favorire una continuità al potere della famiglia di Pertinace; nella narrazione dell’evento realizzata da Erodiano è in effetti fatto rapido, ma non insignificante, cenno alla parentela.
Analizziamo, sempre attraverso le poche testimonianze disponibili, il cursus honorum di Tito Flavio Claudio Sulpiciano precedente al 193, allo scopo di comprendere meglio il contesto entro il quale agì.
Una delle epigrafi romane già ricordate, datata tra il 170 e il 176, indicò che Sulpiciano si presentò al collegio dei Fratres Arvales in questi termini «adfuerunt in collegio T(itus) Fl(avius) Sulpicianu[s,---]» [17], una seconda risalente al 183 aggiunse la sua nomina a flamen [18] e infine un protocollo arvale del 185/186 lo definì promagister [19], ovvero facente funzione di capo del collegio.
Il collegio degli Arvales, istituito probabilmente fin dal secolo V a.C., fu ripristinato in epoca augustea allo scopo di venerare la dea Dia per assicurare la prosperità del raccolto nelle campagne. I requisiti per essere ammessi al collegio furono, secondo gli studi più accreditati, l’importanza politica e la parentela con un membro degli Arvales [Paladino 1988, 44; Scheid 1975]; entrando più nel dettaglio si rileva che nella maggior parte dei casi gli appartenenti del collegio ricoprirono il proconsolato in Africa o Asia e furono quindi membri dell’alta aristocrazia romana.
Non va trascurato il legame tra il contesto religioso degli Arvales, vincolato al mondo agricolo, e le milizie; fin dall’età repubblicana i soldati romani prima ancora di militare nell’esercito furono nella maggioranza contadini, ben disposti dunque a venerare forze divine a protezione della terra [Herz 2015] [20].
Sulpiciano ottenne le più alte cariche del collegio, flamen, promagister e forse anche magister suffectus; non conosciamo quali fossero i requisiti richiesti per ambire a tali dignità per lacune delle fonti, tuttavia sappiamo che soprattutto il titolo di magister/promagister furono ruoli di assoluto prestigio, a volte ricoperti dagli stessi imperatori, in genere all’inizio del regno o in periodi di particolare rilevanza politica.
Sicuramente sul finire del secolo II le modalità di composizione e organizzazione del collegio mutarono, in considerazione anche delle trasformazioni avvenute entro il Senato, sempre più aperto anche ai provinciali. Lo dimostra un caso utile anche a questa relazione: gli Acta ci hanno trasmesso la cooptazione del neo-imperatore Pertinace nel 193 e, contestualmente, la sua aggregazione al collegio soltanto in seguito alla necessità di completare il numero fisso dei membri del collegio: «[in pronao aedis Concordiae ad coopt]andu[m] Imp(eratorem) Ca[esarem P(ublium) Helviu]m Pertinacem [Aug(ustum), trib(unicia) pot(estate), co(n)s(ulem)] II, p(ontificem) [m(aximum), p(atrem) p(atriae), frat]ṛes A[rvales co]nvenerunt» [21].
Pertinace entrò a far parte degli Arvales quando il suocero Sulpiciano ne era già parte da almeno un ventennio. Certamente il legame tra i due uomini coinvolse ampiamente la sfera familiare e pubblica; l’uno supportò molto la carriera dell’altro, come pare di cogliere in alcuni frammenti dionei.
Negli stessi anni in cui fu membro degli Arvales, Sulpiciano ricoprì anche la carica di consul suffectus, probabilmente tra il 172 e il 176, durante l’impero di Marco Aurelio (166-180) [Alföldy 1977, 198; Halfmann 1979, 187; Lambrechts 1936, 157; Migliorati 2011, 267]. Lo ricordò Erodiano che lo presentò una prima volta come «ανὴρ τῶν ὑπατευκότων» [22].
Probabilmente prima della nomina a promagister del collegio arvale, quindi subito prima del 185/186, Sulpiciano fu proconsole in Asia [23], mentre fu regnante Commodo (181-192), imperatore che sembrò mostrare poca attenzione sia per le province orientali sia, soprattutto, per il pagamento degli eserciti stanziati lungo tale limes. Commodo ricercò il consenso principalmente tra la plebe di Roma e i pretoriani, che con lui tornarono a essere molto coinvolti nella politica imperiale; fu abbastanza immediato immaginarsi quanto Sulpiciano potesse mostrarsi insofferente nei confronti di un regime centrale in declino.
Un’iscrizione funeraria milesia, iscritta in un blocco marmoreo grigio, dall’aspetto di tabula ansata, datata tra il 175 e il 192, oggi conservata presso il museo Basmahane di Izmir [24], attestò il proconsolato di Sulpiciano [Herrmann 1980, 96].
Il protagonista di questo scritto fu menzionato nell’ultima riga dell’epigrafe, preceduto dall’indicazione della carica: ἀνθύπατος ovvero proconsole: «Περὶ τούτων ἔνγραφον ἀπόκειται εἰς | τὸ ἀρχεῖον ἐπὶ στεφανηφόρου Ἰουλίας τῆς Φιλέρω- | τος <μ>ηνὸς Ληναιῶνος κε’, ἐπὶ ἀνθυπάτου | Φλ(αβίου) Σουλπικιανοῦ μη(νὸς) Ληναιῶνος ι’» [25].
Tuttavia non è da Oriente che provennero altre informazioni riguardo la carriera di Sulpiciano, ma si è costretti a ritornare a Roma, alle narrazioni di Cassio Dione ed Erodiano che narrarono la fine dell’impero di Pertinace.
Nell’ultimo decennio del secolo II le condizioni economiche dell’Impero non furono certo le migliori: i conflitti lungo le frontiere a nord e a est, oltre alle conseguenze dovute all’epidemia definita “peste Antonina” protrattasi tra il 165 e il 185 circa, indebolirono notevolmente la struttura imperiale, giacché lo spopolamento decrementò drasticamente la produzione globale e quindi la possibilità di mantenere un Impero con costi ingenti di gestione [Lo Cascio 2012].
Può dunque risultare credibile quanto raccontato dalle fonti riguardo alla promessa di Commodo di un donativo alle milizie che infine non fu corrisposto prima della sua morte; la Historia Augusta. Vita Pertinaci riferì che fu chiesto a Pertinace di pagarlo, ma quest’ultimo, impossibilitato a soddisfare la richiesta, bandì un’asta con i beni e gli schiavi di Commodo: «Auctionem rerum Commodi habuit, ita ut et pueros et concubinas vendi iuberet […]» [26].
Nonostante ciò, pare che ai soldati non fu mai interamente corrisposta la somma dovuta; è necessario pertanto ritornare alla situazione precipitosa narrata in Dione, con la quale si è iniziato: Pertinace fu ucciso e l’impero fu “messo all’asta”.
Potrebbe risultare proficuo soffermarsi sull’intera descrizione dionea e su quanto riportato da Erodiano, riportiamo dunque in primis uno stralcio tratto dalla lunga narrazione redatta dal primo dei due autori:
Allora invero avvenne un fatto vergognoso e indegno di Roma; come infatti in una piazza di mercato venne venduto all’asta la città e il suo governo. E li vendevano coloro che avevano ucciso l’imperatore, e sarebbero stati acquirenti Sulpiciano e Giuliano che cercavano di superarsi l’un l’altro, l’uno dall’interno e l’altro dall’esterno. E giunsero in breve ad offrire fino a cinquemila dracme [27] per ogni soldato e poiché qualcuno avrebbe detto a Giuliano «Sulpiciano promette tanto, tu cosa prometti in più?» e a Sulpiciano «Giuliano promette tanto, tu quanto prometti oltre?». E Sulpiciano avrebbe anche vinto essendo all’interno ed essendo prefetto della città e giacché per primo aveva promesso cinquemila, se Giuliano non l’avesse superato per non poco, ma con milleduecento e cinquanta dracme, e gridando a gran voce e indicando con le mani. Catturati dalla sua esagerata offerta e nel contempo temendo che Sulpiciano avesse intenzione di vendicare Pertinace, cosa che Giuliano aveva insinuato, accolsero lui e lo designarono imperatore [28].
Fu diversa la versione fornita da Erodiano:
Allo stesso momento anche Sulpiciano, anch’egli consolare, che era divenuto prefetto della città (ed era padre della moglie di Pertinace), era giunto con l’intento di comprare il titolo. Ma i soldati non lo lasciarono avvicinare poiché temevano che a causa della parentela con Pertinace, non ci fosse qualche insidia nel rivendicare quell’omicidio. E dopo aver calato una scala fecero salire Giuliano sulle mura […] [29].
L’esito finale è identico, divenne imperatore l’aristocratico milanese Didio Giuliano [30] per volontà dei pretoriani, cambia profondamente tuttavia la focalizzazione. In Dione l’accento è posto sulla qualifica posseduta da Sulpiciano, che avrebbe dovuto garantire vantaggio, contrapposta al fattore economico, che invero ribaltò il pronostico.
Sembra emergere quindi dalla narrazione dionea una componente di giudizio morale, a sottolineatura di un mondo in declino nel quale prevalse il soldo sulla virtù politica.
Erodiano si sofferma invece sul dato prosopografico, infatti non trascura di menzionare la parentela fra Pertinace e Sulpiciano, anzi ritiene che fu proprio questa la causa principale della decisione negativa dei militari. Sulpiciano esce immediatamente di scena e rimane, come tema centrale della narrazione di Erodiano, l’offerta di Giuliano che, comunque, non fu descritta con pari dettaglio quantitativo dallo storico, nessuna cifra precisa venne indicata e il narratore si limita a concludere che Giuliano non pagò mai quanto pattuito [31].
Può essere che il brano dioneo, in quanto tramandatoci dal monaco bizantino del secolo XI, Giovanni Xifilino [32], faccia difetto nella piena comprensione e conseguente descrizione della reale prospettiva militare, aspetto che invece Erodiano sembra cogliere a pieno, preannunciando l’evoluzione delle milizie in età severiana.
In realtà forse la soluzione migliore è utilizzare i dati forniti da entrambi e concentrarsi sulla figura di Sulpiciano come su uno fra gli ultimi spettatori di una svolta determinante: in quanto aristocratico pienamente inserito nella società imperiale, attento al rapporto tra Senato e princeps, si trovò ad accettare una contesa proposta dall’esercito per la sostituzione del princeps e tuttavia non poté ribattere nulla a un’affermazione temporanea dell’uomo nuovo, sostenuto soltanto dalla ragione della forza militare bisognosa di nuove risorse economiche.
I fatti accaduti a Roma non passarono inosservati, come è noto, le legioni sul limes in Britannia, Syria e Pannonia elessero i propri principes e alla fine il vittorioso Settimio Severo, proclamato imperatore soltanto tre mesi dopo, raggiunse Roma. Dopo aver convinto il Senato a confermare l’elezione, radunò le coorti pretorie e prima di sostituirle con le proprie legioni pannoniche, pronunciò un discorso simile a quanto ci riferì la narrazione dionea. Anche Tito Flavio Claudio Sulpiciano fu coinvolto:
Mentre recitava un’orazione al Senato […] passò a difendere la memoria di Commodo, rimproverando il Senato, perché ingiustamente lo aveva colpito con la damnatio memoriae, e molti di loro vivevano assai più turpemente […]. Dopo aver recitato questa orazione assolse trentacinque di coloro che erano accusati di aver compreso i piani di Albino, e di essi si servì come se fossero scevri di qualunque colpa (erano fra i più influenti nel Senato); tuttavia condannò a morte ventinove persone, fra i quali si enumerò anche Sulpiciano, il suocero di Pertinace [33].
Alföldy studiò a fondo il brano dioneo e scrisse che nel 197 Sulpiciano fu fatto uccidere da Settimio Severo, insieme ad altri, in quanto seguace di Clodio Albino, contendente di Severo nell’acquisizione del titolo imperiale, giacché simultaneamente proclamato imperatore dalle truppe di cui fu al comando in Britannia nei mesi cruciali dell’anno 193 [34] [Alföldy 1970, 1-11].
Forse esistono anche altre motivazioni, in primis il desiderio del neo-imperatore di ridimensionare il potere del Senato [Letta 2014, 127-142], ma soprattutto la volontà di eliminare eventuali sostenitori della cultura tradizionale, autorevoli membri nel contesto di potere religioso e capaci di influire attraverso l’autorità politica e religiosa anche sul potere militare. Sulpiciano nella sua posizione di senatore e detentore delle più alte cariche del collegio arvale diviene un caso emblematico.
Fra gli epurati del 197 fu incluso anche il magister degli Arvales del 193, Quinto Clodio Rufino [35].
Concludo quindi con l’enunciazione di questa tesi, che potrebbe suggerire una pista di indagine per future ricerche, ovvero comprendere a pieno quanto la commistione di poteri tradizionali culturali, religiosi e militari possa aver determinato svolte significative nella politica dei funzionari di corte in ombra e degli imperatori stessi.
* Ringrazio il prof. Paolo Cesaretti (Univ. Bergamo) per la lettura preventiva dell’abstract e per i consigli nella preparazione della relazione e nella successiva revisione di questo scritto. Per l’aiuto nella traduzione delle fonti greche citate ringrazio in particolare la prof.ssa Edi Minguzzi (Univ. Statale Milano). Ogni eventuale errore rimasto va ascritto all'Autrice.
Bibliografia
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Note
1. Il monaco Giovanni Xifilino, a seguito di una richiesta dell’imperatore Michele Duca (1071-1078), realizzò un’epitome dei libri 36-80 della Historia Romana di Dione (estesi sul periodo tra il 68 a.C. e il 229 d.C.). Xifilino scelse di epitomare soltanto questi libri della vasta opera dionea probabilmente non perché fossero irreperibili quelli precedenti, ma poiché erano lacunosi e di scarso interesse per i suoi contemporanei. Per la trasmissione dell’opera di Dione in epoca bizantina, tematica sempre al centro delle attenzioni degli studiosi: Mazzucchi 1979, 94-139; Forcina 1987, 73-75.
2. Dio Cass. 73, 11,1: «Διαγγελλομένου δὲ τοῦ κατὰ τὸν Περτίνακα πάθους οἱ μὲν ἐς τὰς οἰκίας ἔτρεχον οἱ δὲ ἐς τὰς τῶν στρατιωτῶν καὶ τῆς ἑαυτῶν ἀσφαλείας πρόνοιαν ἐποιοῦντο. Σουλπικιανὸς δὲ (ἔτυχε γὰρ παρὰ τοῦ Περτίνακος ἀποσταλεὶς ἐς τὸ στρατόπεδον, ἵνα τὰ ἐκεῖ καταστήσηται) ἔμεινέ τε ἐν αὐτῷ καὶ ἔπραττεν ὅπως ἂν αὐτοκράτωρ ἀποδειχθῇ». Dove non diversamente indicato nel testo è sempre riportata la mia traduzione in italiano.
3. Prosopographia Imperii Romani (PIR2), IV, s.v. “73. Publius Helvius Pertinax Augustus”, 63-7: imperatore dal 1 gennaio 193 al 28 marzo 193.
4. Dio Cass. 73, 7,1: «Τὸν μὲν οὖν πενθερὸν αὑτοῦ ὁ Περτίναξ τὸν Σουλπικιανὸν τὸν Φλάουιον πολιαρχεῖν ἔταξε, καὶ ἄλλως ἄξιος ὄντα τούτου τυχεῖν […]».
5. Αὐτοκράτωρ è termine che designa un’acquisizione di potere legittimata dagli eventi (Freyburger-Galland 1997, 59), infatti κράτος fu già attestato in Omero nel significato di “potere”, “dominazione” (Hom. Il. II, 118, Od. I, 359), con Erodoto acquisì anche la valenza di “potere politico” (Hdt. I, 129,3, III, 69,2, III, 81,3).
6. Grazie a segnalazione del prof. Giovanni Brizzi (Univ. Bologna), durante il dibattito successivo alla relazione orale in occasione del workshop, ho ripreso la questione dell’uso e confronto del termine imperator / αὐτοκράτωρ in epoca scipionica, del quale lo stesso Scipione l’Africano sarebbe stato insignito. Riferimenti dettagliati riguardo alla questione si possono trovare anche in Pinzone 2010, 97-98 che riepiloga inoltre tutta la maggiore bibliografia in merito, con particolare attenzione alla figura del grande condottiero citato (2010, 97-98, nn. 38, 44).
7. Prosopographia Imperii Romani (PIR2), III, s.v. “399. Titus Flavius Vespasianus Augustus”, 184 s.: imperatore dal 69 al 79.
8. Tac. Hist. II, 77: «Tuae domui triumphale nomen, duo iuvenes, capax iam imperii alter et primis militiae annis apud Germanicos quoque exercitus clarus». L’uso tacitiano dell’espressione capax imperii è stato richiamato in un contributo di Migliorati 2011, 267 in riferimento alla carriera di Sulpiciano per mettere in evidenza l’idoneità al comando del senatore, riscontrabile soltanto in un processo analogico nell’espressione dionea ἄλλως ἄξιος – “del tutto degno”. Certo bisogna considerare che nell’occorrenza dionea appena citata lo storiografo si riferiva al fatto che Sulpiciano fosse del tutto degno ad assumere la massima carica prefettizia, non ancora la massima carica assoluta.
9. Dio Cass. 52, 41,3.4: «Ταῦτά τε ὁ Καῖσαρ, καὶ ὅσα ἄνω μοι τοῦ λόγου εἴρηται, ἔπραξεν ἐν τῷ ἔτει ἐκείνῳ ἐν ᾧ τὸ πέμπτον ὑπάτευσε, καὶ τὴν τοῦ αὐτοκράτορος ἐπίκλησιν ἐπέθετο. λέγω δὲ οὐ τὴν ἐπὶ ταῖς νίκαις κατὰ τὸ ἀρχαῖον διδομένην τισίν […] ἀλλὰ τὴν ἑτέραν τὴν τὸ κράτος διασημαίνουσαν […]».
10. Cfr. supra, n. 2.
11. CIL VI, 2099, 2100, 31712, 32383b.
12. SHA. Vita Severi XIII, 3.
13. Prosopographia Imperii Romani (PIR2), III, s.v. “374. Lucius Flavius Sulpicianus Dorio, 375. Lucius Flavius Sulpicianus Dorio Polymnis”, 173 s.
14. Vedasi Epigraphik-Datenbank Clauss-Slaby; Epigraphic Database Heidelberg.
15. Prosopographia Imperii Romani (PIR2), III, s.v. “444. Flavia Titiana”, 193.
16. Dio Cass. 73, 7,1.2; SHA. Vita Pertinaci 5,4, 13,7.
17. CIL VI, 32383b.
18. CIL VI, 2099: «[…] et Fl(avium) Sulpicianum flaminem | nominaverun[t]».
19. CIL VI, 2100: «per promag(istrum) Fl(avium) Sulpicianum fratr(es) Ar[val(es) […]».
20. In un dialogo con la glottologa, prof.ssa Edi Minguzzi, abbiamo riflettuto sull’associazione del termine stesso, Arvales, al latino agrestis e non è mancato il ricordo al motto ancora usato nell’Italia del secolo scorso, secondo cui “è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”, esso stesso recupero della tradizione classica.
21. CIL VI, 2102.
22. Herod. II 6,8.
23. Ulteriore elemento che fa propendere per un’origine orientale del personaggio, in virtù del fatto che molto spesso i proconsoli di Asia furono scelti fra individui originari da quei territori, in quanto più esperti delle condizioni socio-ambientali.
24. SEG XXX 1349 (Miletos 516; PH252615). Riporto una mia traduzione: «Si erige il sepolcro di Flavia Hygia, lei vivente, e dei suoi eredi, nel quale sarà possibile che siano deposti […] colui che seppellisce qui corrisponderà 2500 denari al fisco imperiale e 2500 al sacrissimo consiglio milesio e sarà perseguibile per l’accusa di violazione dei sepolcri. In merito a ciò è registrato un contratto scritto sotto la responsabilità della sacerdotessa Iulia di Fileroto nel giorno 25 del mese Leneo e nel giorno 10 essendo in carica il proconsole Flavio Sulpiciano».
25. In età imperiale il titolo di proconsole designò il governatore di una provincia senatoria con facoltà anche di comando sulle forze militari presenti, tuttavia nell’iscrizione riportata si menziona Sulpiciano unicamente in qualità di governatore.
26. SHA. Vita Pertinaci VII, 8.
27. Cifra corrispondente a ventimila sesterzi. Peraltro ventimila sesterzi è somma pari anche alla cifra conseguibile dai pretoriani in cinque anni di stipendio intero, come indicato in Watson 2000, 400.
28. Dio Cass. 73, 11,3-6.
29. Herod. II, 6, 8.9.
30. Prosopographia Imperii Romani (PIR2), III, s.v. “77. Marcus Didius Severus Iulianus”, 16-9: imperatore dal 28 marzo al 1 giugno 193. Una scheda biografica relativa a questo imperatore è stata realizzata anche per una prosopografia sulla quale la scrivente sta attualmente lavorando, dal titolo Prosopografia romana tra le due partes Imperii (98-604). Un contributo alla storia dei rapporti fra Transpadana e Oriens, in corso di pubblicazione presso la collana «Munera» di Edipuglia.
31. Herod. II, 7,1.
32. Cfr. supra, n. 2; RE IX A/2, s.v. “Xiphilinos”, coll. 2132-2134.
33. Dio Cass. 75, 8,1-4.
34. Prosopographia Imperii Romani (PIR2), II, s.v. “1186. D. Clodius Septimius Albinus Caesar”, 280-283.
35. Id., s.v. “1182. Quintus Clodius Rufinus”, 279 s.