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Rappresentare la territorialità
a cura di Paola Bonora
Spazi contesi
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Il GIS del mio cortile
Storia e critica del termine NIMBY con analisi spaziale e l'ausilio del GIS
Alessandro Mengozzi
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Sommario
NIMBY è una parola ormai destinata a restare nei dizionari di tutte le lingue, anche in quelli della geografia accademica. L’articolo prende in esame il termine NIMBY, quando e dove nasce, e come entra nel dibattito geografico e delle scienze del territorio. Un termine spesso abusato ma che non cessa di destare interesse (anche da parte del business). L’analisi di un ipotetico caso NIMBY viene affrontata in chiave metodologica confrontando l’osservazione partecipante e l’analisi spaziale GIS. Sia attraverso la prima, sia attraverso la seconda investigazione, sebbene vi siano segni di incidenza della variabile spaziale che fanno pensare ad un caso NIMBY, emergono evidenze molto blande che inducono a cercare spiegazioni più complesse.
Abstract
NIMBY is a word which is going to find a place in dictionaries of all languages, and in
those of academic geography as well. This article reviews the term NIMBY, when and where it came out and how it entered into geographical debate. A term often abused but which does not cease to attract attention (see business sector). A suspected case of NIMBY has been described through participant observation and through GIS spatial analysis. Although from both kinds of investigations some signs of NIMBY spatial effects emerged, evidence is weak and induces to look for more complex explanations.
«Oggi siamo presi dalla “sindrome del cassonetto”. Della gente mi chiama per chiedermi di far spostare il cassonetto dei rifiuti (stradale) che si trova di fronte a casa loro. Gli ho proposto di metterlo in fondo alla loro strada dove c’è un piccolo parcheggio. No! È troppo lontano! Lo vogliono abbastanza vicino ma non davanti a casa loro, lo vogliono davanti alla casa dei loro vicini».
«Erano i primi anni del nuovo millennio, nelle città, anche nella mia, si organizzavano i Social Forum. Mentre stavo per entrare nella sala in
cui si teneva un incontro, erano le prime serate del maggio 2003, l’aria era tiepida e mi
fermai per un po’ fuori, davanti all’ingresso, scambiando qualche saluto con amici. Nella
sala c’erano un po’ tutti gli attivisti: ambientalisti, associazioni terzomondiste, verdi,
rifondazione, alcuni sindacati. Si avvicinano un signore e una signora, non confondibili
con i frequentatori del movimento anti-globalista, presentandosi come “siamo del comitato
contro la tangenziale” e spiegano il loro problema: “abitiamo proprio di fianco al
tracciato, non siamo contro alla tangenziale ma non dovrebbero farla passare in un’area
così densamente costruita, dovrebbero farla più lontano, in campagna, dove ci sono poche
case” - e perché? “Perché così l’inquinamento e il rumore colpiranno meno persone e ne
moriranno di meno... invece così...” - gli risposi solo - nonostante continuassero ad
argomentare - che avevano poche probabilità di guadagnare alleati lì dentro. Quel comitato
appena nato non si è mai presentato pubblicamente e la tangenziale, già progettata molto
tempo prima e con il contributo delle associazioni ambientaliste, è stata realizzata senza
nessun conflitto»
Genesi e definizione dell’acronimo NIMBY
L’acronimo NIMBY (not in my backyard = non nel mio cortile/giardino), dal gergo del settore
ambientale, si è diffuso all’ambito accademico delle scienze sociali e nel linguaggio
mediatico, fino a diventare parola di significato comune. La sua inscindibilità dalla
dimensione spaziale le assegna un primato geografico particolare. La questione del NIMBY
entra a pieno titolo nello studio dei conflitti localizzati territoriali [Brunet et al.
1993], in particolare quelli ambientali [Turco e Faggi 1999], che costituiscono uno dei
principali campi di ricerca nel quale i geografi indagano la geographicalness, ossia il rapporto società e spazio nelle sue modalità di
sviluppo dei processi di territorializzazione: modalità di riconoscimento,
manipolazione e appropriazione strutturale dello spazio, da parte dei gruppi umani. Le
spiegazioni che emergono possono poi aiutare, nel campo operativo della pianificazione e
della gestione del territorio, l’individuazione di possibili soluzioni a controversie che
comportano notevoli costi sociali.
Secondo alcuni, il termine NIMBY è da attribuire a Walter Rodgers dell’American Nuclear Society, ma la fonte scritta più datata - attualmente
conosciuta - lo riporta come un termine gergale utilizzato dai manager delle aziende di
gestione dei rifiuti, che dalla fine degli anni settanta, si adoperano con grande fatica
per realizzare vari tipi di facility, come, nel caso particolare, discariche per rifiuti tossici industriali [Livezey 1980]. Nel Regno Unito si diffonde
negli anni ‘80, grazie al ministro dell’ambiente britannico Nicholas Ridley che lo utilizzò
ripetutamente per appellare quei gruppi di protesta mobilitati contro l’espansione
residenziale nelle campagne britanniche, permessa dal rilassamento della pianificazione,
concesso dallo stesso ministro [Hubbard 2009, 444].
Il termine è diventato di uso comune e si trova nei dizionari di lingua inglese [Oxford] e italiana [Devoto Oli 2009; Zingarelli 2009] oltre che nei dizionari delle scienze geografiche [Johnston 2000, 554; Hubbard 2009, 444] e sociali [McLean 2003]. In essi e nella vastissima letteratura accademica si possono trovare due accezioni del suo significato.
Una definizione elementare, di base, neutra, anche riferibile all’acronimo LULU (Locally
Unwanted Land Uses) coniato da Frank Popper [1981], è quella in cui con “fenomeno” NIMBY si
intende una generica opposizione sociale alla localizzazione di un’opera indesiderabile
(LULU) [Shively 2007]; opposizioni che si fanno sempre più intense e diffuse - ma
soprattutto efficaci nel respingere i progetti - a partire dalla fine degli anni settanta
[Popper 1985, 9]. Possiamo aggiungere che se è vero che le proteste contro impianti
tecnologici o particolari facility sono sempre esistite,
con la modernizzazione e il miglioramento delle condizioni di vita, le popolazioni -
apprendendo anche dalle lotte contro ciò che già aveva dimostrato nei fatti di poter
procurare nocività o tragedie - non solo hanno iniziato a mobilitarsi di più ma, anche
grazie all’introduzione di nuove leggi sulla pianificazione e la regolamentazione
ambientale, a mobilitarsi prima che l’opera fosse
realizzata [Mengozzi 2010, 9-10]; è questa anticipazione delle scelte o della loro
esecuzione da parte della gente (del public) che
caratterizza, a mio parere, la politica territoriale della modernità. In questo processo ambivalente, cresce la complessità tecnologica e la magnitudo dei suoi effetti ma anche la complessità sociale, l'organizzazione di movimenti e le richieste di democrazia.
Tuttavia il termine NIMBY, più che con la parola fenomeno, è comunemente accompagnato dalla parola sindrome [Dear e
Taylor 1982; Dear 1992; White e Ashton 1992; Wolch e Dear 1993; Takahashi 1998;
Wynne-Edwards 2003], assecondando, forse involontariamente, il diffuso giudizio negativo di
coloro che considerano la sua diffusione una piaga sociale che blocca lo sviluppo, il
progresso o la realizzazione degli interessi generali per colpa di particolarismi/localismi
irrazionali; questa visione viene giustificata, rilevando che, da parte degli oppositori ad
un progetto, emergono dichiarazioni favorevoli alla necessità dell’opera, ma non la si
accetta nella localizzazione prescelta, che invece dovrebbe avvenire altrove, per varie
ragioni, che dipendono dal tipo di progetto e dal contesto locale.
Sono due le prospettive di giudizio nei confronti dei gruppi che sarebbero affetti dalla
sindrome: 1) la prima è indirizzata ad un tipo di contestazioni sorte contro quelle opere
che hanno un potenziale impatto ambientale e paesaggistico (p.e. inceneritori, impianti eolici, grandi
infrastrutture), generate da atteggiamenti
ambientalisti radicali o conservatori; 2) un secondo tipo di giudizio riguarda le avversioni che sorgono contro
la localizzazione di varie strutture attinenti i servizi sociali (p.e. case d’accoglienza
per il disagio psichico, la tossicodipendenza, i senzatetto, i nomadi, l’HIV, progetti di
lotta alla prostituzione, carceri, progetti di edilizia sociale); similmente a questa tipologia
si possono aggiungere le opposizioni contro strutture attinenti i mercati della devozione
(edifici religiosi), dello svago, del gioco o del sesso (p.e. locali notturni, casinò, sexy
shop, zone a luci rosse). In questo secondo tipo di prospettiva, gli opponenti
rientrerebbero nel profilo dell’individualista egoista, soggetto della classe media,
rappresentante tipico di quel periodo etichettato come Me
Decade, che ha caratterizzato la svolta socio-culturale degli anni ottanta e
dei successivi anni del neoliberismo; un periodo connotato dal retrocedere dei legami di
solidarietà, sopraffatti dall’individualismo di mercato [Dear 1992, 290]. Si tratterebbe
dunque di gruppi di individui che si mobilitano per opporsi alla percepita perdita di
sicurezza, alla minaccia di integrità dell’immagine del proprio vicinato, alla
contaminazione del proprio paesaggio.
Secondo interpretazioni eco-marxiste, il NIMBYsmo sarebbe la risposta al decremento dei
valori delle proprietà e della qualità della vita urbana generate da un problema
industriale di produzione - dunque non da un interesse generale - che non accetta una
ristrutturazione, prendendo in considerazione soluzioni alternative più adeguate ed eque,
perché in tale modo non otterrebbe le stesse altissime quote di profitto [Cox e McCarthy 1982; Lake
1993].
Secondo una prospettiva psicanalitica, l’attivazione è dovuta ad una pulsione di protezione della propria identità dalla diversità dell’altro (l’estraneo, il cattivo, il potenzialmente deviante); infine, secondo un approccio geografico culturale, è il risultato di un mix di fattori di territorializzazione quali: classe, etnia e identità politica, che costituiscono la geografia dell’inclusione/esclusione sociale [Hubbard 2009, 448] o - più esplicitamente - del razzismo (ambientale) [Pulido 2000; Pellow 2002].
Il dibattito sul concetto NIMBY
Wolsink [1994; 1999] fa giustamente notare come il termine NIMBY rimandi alla teoria
economica razionalista e al concetto del free rider, e
alla psicologia dell’attore individuale orientato dal self-interest. Si vogliono i benefici della tecnologia proposta ma non se ne
vogliono pagare i costi, che evidentemente sono percepiti in maniera sproporzionata. La
politica - in tali situazioni - deve affrontare la tipologia di politiche pubbliche, forse
più difficile, quella di tipo “imprenditoriale”, così chiamata da Wilson [1974, rist. 1995,
xviii], dove i costi sono concentrati (nel caso del NIMBY in un’area geografica) e i
benefici sono diluiti e diffusi su un’area più vasta, anche se diversi soggetti ne
beneficiano in proporzione diversa; p.e., le aziende di smaltimento dei rifiuti o i
costruttori dell’impianto di incenerimento, il gruppo di tecnici e dei lavoratori
dell’impianto, otterranno più benefici dei semplici utenti. Tuttavia anche gli utenti
potranno godere di un servizio che toglie loro di mezzo i rifiuti senza
sopportarne le conseguenze ogni giorno, mentre chi vive intorno alla discarica o
all’impianto di incenerimento, si ritrova un paesaggio trasformato e percepito come
minaccioso.
Wolsink [2006] evidenzia come questo sbilanciamento, con la conseguente opposizione della
popolazione locale, rientri perfettamente dentro la logica della teoria dell’homo oeconomicus che difende il proprio interesse, così come si
ritiene normale in una società di mercato [Ib., 87]; la protesta dunque comporterebbe un
costo minore di quello della decisione ventilata o lo potrebbe per lo meno ridurre [O’Hare
1977]. Infatti una delle terapie suggerite, coerenti con
questa teoria, è la compensazione (tramite garanzie sul valore della proprietà,
monetizzazione diretta o attraverso interventi di mitigazione o riqualificazione ambientale), anche
tramite asta, in cui le comunità propongono uno o più siti e le relative richieste di
compensazione [Quah e Tan 1998]. Ma in tempi di scarsità di risorse, o nel caso in cui
nessuna comunità fosse disposta a partecipare, da questa logica competitiva si potrebbe
evolvere facilmente verso un’ideologia neo-conservatrice e tecnocratica [Wolsink 2006, 87]
che, ad esempio, preveda l’uso della forza militare per imporre la localizzazione di LULU.
Wolsink nota come un atteggiamento individuale NIMBY esista, ma ne ridimensiona la portata, concludendo tuttavia che non è un termine adatto all’uso accademico o professionale, perché troppo impreciso e dispregiativo e condiziona - se usato pigramente e superficialmente - le politiche pubbliche in direzione sempre più autocratica, come si è tentato di fare nei Paesi Bassi. Così suggerisce di farlo rientrare, come oggetto di analisi decostruzionista del linguaggio, dentro lo studio stesso dei casi di conflittualità [Wolsink 2006, 89-90]. Lo studio dei conflitti locali nell’ambito dei processi di territorializzazione dovrebbe dunque investigare empiricamente i motivi della mobilitazione, i linguaggi utilizzati, e poi eventualmente dimostrare un tipo di opposizione come NIMBY, non usarlo come modello.
Nel suo studio sulle opposizioni alle turbine eoliche di grandi dimensioni, egli rileva come in genere l’idea astratta dell’energia prodotta dal vento riscuota popolarità, come rilevato dai sondaggi, ma non sia lo stesso per gli impianti da realizzare [Wolsink 2000, 50], come confermato anche recentemente da Smith e Klick [2008], mettendo a punto un sondaggio più approfondito sulla questione.
Wolsink [2000] propone uno schema, applicabile anche ad altri casi, in cui distingue
quattro reazioni oppositive [57]: a) atteggiamento positivo nei confronti della politica
(incenerimento, energia eolica, eccetera) ma opposizione alla costruzione dell’impianto nel
proprio quartiere; questa combinazione di atteggiamento-comportamento riflette un caso di
NIMBY quasi perfetto; b) opposizione alla costruzione nel proprio quartiere perché respinge
la politica in generale; questa combinazione viene anche chiamata NIABY (not in
any backyard = in nessun cortile) che fornisce argomenti di preoccupazione di
impatto generali o generalizzabili ad ogni contesto geografico simile; c) un atteggiamento
positivo iniziale verso la politica che diventa negativo in seguito alle discussioni che
nascono attorno all’intenzione di mettere in atto la politica; d) una resistenza generata
dal fatto che particolari politiche (o progetti) sono considerate errate, non per un
rigetto degli obiettivi o della tecnologia nel suo complesso ma delle condizioni in cui si
è sviluppato il processo decisionale, il progetto e la scelta del sito, soprattutto quando
non sono state valutate altre possibili alternative.
L’opposizione del tipo NIMBY - in effetti non è molto presente nella vasta letteratura
passata in rassegna da Wolsink [2006, 87-89]. Semmai è rilevabile attraverso survey sugli atteggiamenti individuali, ma non di gruppo;
atteggiamenti sfuggenti che difficilmente emergono ed entrano nel dibattito pubblico.
Inoltre il termine NIMBY per Wolsink non è idoneo oltre che alle infrastrutture
tecnologiche, nemmeno quando applicato per descrivere - dando per scontata la loro natura
egoistica - le opposizioni alle strutture dei servizi sociali. E fa notare come, per
esempio l’infittirsi dei nuovi centri di detenzione, pensiamo a quelli per immigrati
irregolari o a nuove strutture per il disagio psichico che sembrano ritornare manicomi,
siano tema di dibattito politico e non possano essere ridotti a scelta arbitraria come
spesso avviene [Wolsink 2006, 88].
Con un ragionamento vicino alle critiche di Wolsink, Wexler fa notare come il concetto NIMBY
riproduca la dicotomia centro/periferia, dove il centro rappresenta l’interesse collettivo
e la periferia quello particolare (parochial), mentre
sarebbe ovvio constatare come anche il centro si comporti in modo strategico-localista
quando agisce su scale internazionali. Per correggere questa prospettiva si dovrebbe
adottare una logica policentrica, reticolare, perché esistono diversi centri di interesse e
potere che agiscono per conto di diverse comunità (residenziali, politiche, aziendali), a
loro volta agenti in una rete di coalizioni, su più scale [Wexler 1995, 96-97].
Nonostante le critiche, per Hubbard [2006] il concetto mantiene una sua validità soprattutto
per le questioni relative all’esclusione sociale, anche perché non ritiene che il valore di
un concetto coincida con la sua validazione empirica; dopotutto la geografia umana è piena
di concetti fuzzy (come spazio, luogo, regione,
paesaggio, identità, città, campagna) che tuttavia non riescono ad essere sostituiti con
efficacia da neologismi, senza incorrere in simili problemi [Ib., 92]. Hubbard non rinuncia
a tenere aperto il concetto perché, come rilevato anche da Dear [1992, 290], i gruppi NIMBY
usano spesso argomentazioni sofisticate, retoriche che esprimono preoccupazioni per il
benessere dell’altro, elaborate partendo dal punto di vista dell’intruso. Possono ad
esempio, citare le mancate opportunità o carenze di servizi - come il trasporto pubblico o
i giardini pubblici - che il proprio quartiere non può offrire a sufficienza ad un paziente
di un centro di salute mentale. Così chi si mobilita contro un inceneritore enfatizzerà le
questioni che possono interessare tutti i cittadini, sull’impatto esteso delle polveri e
della diossina nell’aria e nella catena alimentare, la sempre possibile provenienza da
altri territori di rifiuti non previsti e non conformi, la non economicità della scelta e
l’aumento delle bollette per ripagare un investimento che ostacolerà anziché promuovere lo
sviluppo di una filiera efficiente del riciclaggio. Dunque le argomentazioni non-NIMBY o
NIABY prodotte potrebbero derivare da un comportamento strategico ovvero da reazioni
parzialmente inconsce, come nel caso dell’esclusione sociale [Rose 2004; Hubbard 2009,
448].
Effettivamente il nodo epistemologico di questo dibattito tra Maarten Wolsink e Phil Hubbard
non è nuovo e riproduce la classica querelle tra
costruttivisti e realisti. Altre elaborazioni hanno cercato di superare la questione, ad
esempio l’ANT (Actor-Network Theory) di Bruno Latour [2005], Michel Callon e John Law. Con
la sua cartografia delle controversie, l’ANT ha spiegato come attori e attanti, soggetti e cose, siano parti di una rete, non siano
propriamente “padroni a casa loro” e agiscano sulla base di stimoli e reazioni in un flusso
dinamico di eventi e comunicazioni. Non c’è una ragione e un torto, un investimento
valoriale esplicito in tale teoria, come invece appare dalle posizioni di Wolsink e
Hubbard. Semmai abbiamo vincenti e perdenti, inaspettati cambi di schieramento, reti di
alleanze efficaci capaci di conquistare con i propri argomenti ‘giustificatori’ il consenso
[La Vaque-Manty 2002], la mobilitazione o l’inerzia (se può essere utile), di altri attori
chiave in un processo di cambiamento sociale, come un processo decisionale pubblico. Come
hanno mostrato alcuni studi sulla governance dei rifiuti e i conflitti sulla localizzazione
degli inceneritori [Walsh et al. 1997; Davies 2005; 2008; Mengozzi 2008] le argomentazioni
e le alleanze che si creano sono determinanti per conquistare consensi e influenzare le
decisioni. Le comunicazioni sono determinate da dirigenti d’impresa, politici, leader di
associazioni e comitati, esperti e contro-esperti, dirigenti di media, mobilitati su
distanze e scale organizzative più ampie di quelle meramente locali (comunali o regionali).
Le posizioni espresse da autorità e attori non sono il risultato diretto di una fotografia
degli atteggiamenti sulla percezione del rischio o sul consenso rilevato da un sondaggio
effettuato sui residenti del territorio, ma, procedono per dinamiche complesse e cambiano
con il tempo, con il confronto [Pellizzoni 2011; Futrell 2003] e nello spazio.
Tali conflitti sono fortemente alimentati quando tra le varie autorità locali (enti
politici territoriali) e tecniche (enti funzionali portatori di expertise: AUSL, ARPA, Autorità di Bacino, ecc.), sui cui pareri si produce
la decisione, non c’è intesa. Altro impulso è dovuto alla mobilitazione progressiva di
individui (portatori di contro-expertise) che spesso non
abitano nell’area più prossima al sito in questione, anche se è vero che molti di essi
hanno abitato o abitano in contesti dove hanno vissuto situazioni simili e si sono
impegnati continuativamente (anche se non professionalmente) proprio in seguito ad
un’esperienza di conflitto politico dello stesso tipo.
Coloro che non si inseriscono in questa rete-attore, non usano gli argomenti
accettati dalle cornici tematiche del dibattito, non conoscono le norme giuridiche e
politiche, non padroneggiano un minimo di tecniche della comunicazione pubblica, non fanno
breccia in errori e contraddizioni procedurali o politiche dei decisori, non riusciranno
mai a superare lo stadio della giovinezza del conflitto [Dear 1992, 290] e si
disperderanno.
Per concludere, consiglio di non abusare del termine NIMBY come suggerisce Wolsink ma non mi preoccuperei troppo dell’uso che ne viene fatto. Qualcuno ha cercato di promuovere l’atteggiamento contrario, quello YIMBY - “yes” - o PIMBY - “please” - “in my backyard”, qualcuno ha iniziato anche ad esserne fiero e questo ne smonta la drammaticità. Infine, credo che la debolezza di alcuni argomenti, mossi da entrambi gli schieramenti, stia proprio nel far leva eccessivamente sull’interesse generale, caricando le proposte o le alternative di eccessivi riferimenti valoriali facilmente vulnerabili. Queste posizioni possono deprimersi quando si mostra che ogni opzione implica sempre in qualche misura la violazione di qualche valore economico, ambientale o sociale, per deprimersi del tutto quando si mostra, come spesso avviene, che le modalità con cui vengono prese tali scelte ledono spesso valori politici come la libertà d’espressione, l’equità distributiva, l’uguaglianza o la decisione pubblica ben argomentata [La Vaque-Manty 2002, 107] oppure rifuggono, per eccessiva etica della convinzione, il ricorso alla ricerca partecipativa o a strumenti di partecipazione democratica diretta, partecipativa o deliberativa.
I fattori che possono generare un conflitto di localizzazione sono oggetto di studio da tempo negli USA. Il campo attira diversi interessi ed ha generato - soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in Italia - un settore di consulenza specifico.
Il profilo dei soggetti che si dichiarano contrari o si mobilitano in grassroots (in Italia si direbbe in comitati) contro una
qualche localizzazione, cambia in base alla questione e al contesto geografico. Ad esempio,
nel caso di strutture per il disagio psichico, una survey effettuata nel 1989
dipingeva il profilo tipo del nymbista come
un maschio, bianco, colto, ricco, sposato, residente in una grande città o nei suoi
sobborghi, proprietario dell’abitazione. Un’indagine più recente ha mostrato come solo alcune di quelle caratteristiche possano essere
confermate, rilevando come un atteggiamento nimby-minded non sia significativamente correlato positivamente al genere o al reddito o alla presenza
di figli piccoli, ma al basso titolo di studio, al numero di anni di residenza e alla
frequentazione degli incontri pubblici organizzati dal proponente, con una probabilità
doppia di manifestare un atteggiamento NIMBY rispetto a chi non li ha frequentati. Secondo
l’autrice - così come sono organizzati comunemente - i public
forum anche se frequentati prevalentemente da soggetti NIMBY, cioè da
soggetti non favorevoli a priori al progetto proposto, non sarebbero efficaci nel far loro cambiare
convinzione [Jimenez 2002, 48-50]. Anzi, come sostengono alcuni [Futrell 2003], ritengo che
frequentare gli incontri pubblici così come sono generalmente organizzati dai proponenti,
stimoli l’atteggiamento NIMBY anche in chi si era avvicinato semplicemente per informarsi.
Nel caso di localizzazioni, fonti di potenziale rischio ambientale (impianti energetici, fabbriche, inceneritori, discariche), il genere (femminile) e l’aver figli, sono stati indicati come fattori accentuanti la percezione di pericolo [Van Liere e Dunlap 1980; Hamilton 1985]. Uno studio sull’opposizione agli inceneritori negli Stati Uniti orientali, compara le caratteristiche dei nimbysti di 5 comunità che sono riuscite a respingere la localizzazione e 3 comunità che invece non sono riuscite ad evitarla [Walsh et al. 1997]. Lo studio ridimensiona la rilevanza delle variabili demografiche e non nota significative influenze delle variabili di status socio-economico, etnico e religioso, tra le comunità che hanno avuto successo e quelle dove gli impianti di incenerimento sono stati realizzati [59-60]. Le differenze significative invece riguardavano più le argomentazioni impiegate nel confronto comunicativo, il tipo di rete sociale e le azioni messe in atto [Ib.].
Su un caso definito da Lober di perfetto NIMBY, relativo alla localizzazione di un centro di
selezione per il riciclaggio dei rifiuti, in una cittadina del Connecticut [Lober 1995a],
è stato rilevato come il genere femminile mostri una maggiore simpatia e supporto per i
centri di riciclaggio [503] e le persone sopra i 45 anni partecipino più facilmente ai public meeting [504], tuttavia le variabili
demografiche hanno dimostrato una relativamente bassa influenza sugli atteggiamenti e i
comportamenti orientati all’azione di contrasto o di supporto alla realizzazione del
progetto [507]. Secondo Lober [1994; 1995a] i fattori chiave che spiegano il fenomeno
NIMBY sono la distanza della propria residenza dal sito dell’opera, la percezione di
fiducia nelle autorità e nelle organizzazioni coinvolte dalla decisione, la percezione di
correttezza del processo decisionale, la percezione di equità distributiva, dei costi e dei
benefici generati dal progetto e la percezione della necessità dell’opera [Ib. 1994, 35;
1995, 500-502].
Lober [1994; 1995a; 1995b], basandosi sulla definizione economicistica di O’Hare [1977], usa
il modello NIMBY per misurare e studiare il rapporto tra conflitto e spazio, tra
atteggiamenti e comportamenti, per valutarne la consistenza così da predire l’intensità e
le modalità di eventuali opposizioni [1994; 1995a], per elaborare indicazioni di policy e degli strumenti di pianificazione GIS [1995b] in grado
di assistere il processo decisionale nella scelta della localizzazione migliore per una
data infrastruttura. L’impiego di questo approccio però, nello stesso Lober [1994; 1995a],
non esclude la considerazione di variabili che hanno dimostrato una maggiore valenza: la
percezione di fiducia nelle autorità e negli attori coinvolti e nel processo decisionale e
la percezione dell’equità distributiva dei costi e dei benefici. Inoltre la predisposizione
di geodatabase cartografici e analisi GIS di assistenza al decision-making, non ha impedito di far notare come la loro logica incontri
grossi limiti - riproducendo un approccio DAD (Decide, Announce,
Defend) [Lober 1995b, 491] - se i criteri e il peso delle variabili che
incorporano i valori ambientali (geomorfologia, clima), economici (uso del suolo e
proprietà immobiliari), socio-culturali (patrimonio storico, identitario, paesaggistico) e
demografici (densità abitativa, reddito, etnia) vengono stabiliti senza un collegamento con
un processo partecipativo dal quale tali fattori assumono i valori risultanti da un
confronto dialogico-agonistico tra autorità politiche e tecniche (agenzie ambientali,
sanitarie, sociali, culturali), attori portatori di interessi organizzati diversi e
cittadini o campioni di cittadini.
Analisi GIS di un presunto fenomeno NIMBY - obiettivi dello studio e presentazione del caso
Il primo obiettivo dell’analisi spaziale qui esposta è verificare se sia possibile - nel
caso indagato dell'inceneritore di Forlì - parlare di effetto NIMBY e in che misura, utilizzando degli indicatori
quantitativi anziché metodologie qualitative. Riassumendo abbiamo detto, richiamando la querelle tra costruttivisti e realisti, che:
-
Il NIMBY puro è molto raro e comunque sarebbe poco efficace e di breve durata [Wolsink].
-
Si può intendere il NIMBY come un modello comportamentale [Hubbard; Lober]. Non si
tratta di un fenomeno socio-politico evidente ma abbiamo a che fare più propriamente
con un fatto psicologico-comportamentale che sta dietro le comunicazioni di facciata
dei vari attori. Perciò deve essere desunto da altri segnali, non quelli più
immediatamente consapevoli, ma sempre forniti da entrambi gli schieramenti, sia di
chi si oppone, sia di chi lo suscita, provocando reazioni strategiche a comunicazioni
pubbliche di etichettamento, labelling o
stigmatizzazione, per affermare propri interessi particolari a scapito di altri
interessi particolari. Perciò se il fenomeno si manifesta secondo una configurazione
concentrica o policentrica può essere un modo geografico di verificare la consistenza
delle diverse prospettive sulla sua esistenza.
Il secondo obiettivo è cercare qualche interpretazione relativa alla spazialità del fenomeno, desunta dall’analisi, dal curriculum e dalle modalità organizzative dei presunti gruppi NIMBY sotto osservazione.
Con metodi qualitativi il caso del conflitto (2003-2008) sul PPGR (Piano Provinciale Gestione Rifiuti) della Provincia di Forlì-Cesena e la costruzione del nuovo termovalorizzatore di rifiuti urbani di Forlì, di proprietà della SpA Hera, è già stato da me indagato e descritto dettagliatamente [Mengozzi 2008, 160-210].
Non si trattava di un caso NIMBY puro. Le posizioni degli oppositori possono rientrare nei tipi - indicati da Wolsink (cfr. sopra) - NIABY (b) e in quei tipi (d) di controversie nate perché si contestano le procedure e/o le opzioni adottate come non corrette o non ottimali al contesto geografico-politico complessivo e locale. Un parte degli oppositori conduceva una campagna per la strategia Rifiuti Zero (un modello di gestione che non prevede l’incenerimento ma solo un minimo di discariche). Un’altra parte degli oppositori proponeva un piano ribaltato che partisse dalla riorganizzazione della raccolta (adottando il porta a porta come indicato anche dal primo gruppo), poi in un secondo momento, visti i risultati, si sarebbe passati a definire e dimensionare le discariche ed eventualmente un impianto per combustibile da rifiuti da destinare a incenerimento, ma con un impianto più piccolo e con tecnologia di combustione diversa da quella prevista dal proponente. Altri attori, come una delegazione di medici, l’associazione dei proprietari di immobili e i sindacati, seppur con modalità più defilate, si sono schierati apertamente nella fase di maturità del conflitto, successivamente sono sopraggiunte altre sigle e altri gruppi. Al culmine della fase matura quasi tutti gli attori che si erano mobilitati hanno firmato documenti congiunti sotto l’ombrello di un coordinamento chiamato Tavolo delle Associazioni. La fase infantile della protesta è partita da un gruppo dissidente del comitato di quartiere di Coriano (dove è localizzata la zona industriale in cui si trova il sito) che poi prenderà le redini del comitato stesso. Contemporaneamente si è affiancata al comitato di quartiere un’associazione chiamata Clan-Destinocon base nel quartiere confinante di Borgo Sisa. Le azioni messe in campo sono state varie e numerose: incontri pubblici, presenza massiccia sui media locali (ma anche qualche apparizione sui nazionali), manifestazioni di piazza, scioperi della fame, conferenze con molti esperti (tra i quali il docente di biologia ed ex-europarlamentare verde Gianni Tamino, l’esperto di rifiuti Paul Connett, e l’oncologa Patrizia Gentilini), petizioni (16.000 firme), ricorsi al tribunale amministrativo e penale. Sono stati organizzati spettacoli di grande attrazione che hanno visto come protagonisti Beppe Grillo, Dario Fo e altri personaggi più o meno celebri. Ad alimentare fortemente la controversia hanno contribuito posizioni non allineate delle autorità locali, in particolare: Ausl, Assessori all’Ambiente del Comune di Forlì e della Provincia, Presidente della Circoscrizione, sul cui territorio si trovano gli impianti; membri di comitati scientifici afferenti ad una ricerca epidemiologica realizzata di proposito a Forlì da Ausl e Comune, la comunità dei medici e l’ordine professionale degli stessi.
Nonostante il forte movimento contrario, il nuovo inceneritore è stato realizzato ed
avviato nel luglio 2008, grazie alla tenuta delle amministrazioni locali ed alla coesa maggioranza del
partito dominante. Il fatto che fosse stata scelta una zona industriale e la presenza di impianti
dello stesso tipo nel sito, hanno limitato l’acuirsi dello scontro; idem la revisione della
decisione iniziale, che non prevedeva la rimozione dell’impianto da 60 mila esistente e la
sua sostituzione con un impianto ridotto rispetto le previsioni iniziali, a 120 mila
tonnellate annue. La protesta sebbene forte, è rimasta sul piano comunicativo, e portata
avanti da gruppi pur sempre limitati in numero, senza sfociare in forti movimenti di
comunità, che, come in un caso precedente relativo ad una centrale a turbogas nel 2002, si
erano dimostrati sufficienti ad arrestare il processo decisionale.
Nei primi mesi del 2009 il Clan-Destino darà vita ad una lista civica chiamata
Destinazione Forlì che alle amministrative del maggio 2009 riuscirà
con 3.071 voti (4,4%) a conquistare un seggio in consiglio comunale. Prima ancora però, il
movimento creato dalle proteste anti-inceneritore aveva contribuito, assieme ad altri
fattori contingenti (tra i quali la costituzione del PD e altre vicende giudiziarie sempre
legate allo smaltimento dei rifiuti), a creare diversi malumori nelle fila del partito
dominante (DS/PD). Alle primarie del PD del dicembre 2008 infatti un nuovo candidato,
estraneo al mondo politico locale, vince sul sindaco uscente e vincerà le elezioni
amministrative al ballottaggio. Sia nel programma del centrosinistra (in cui sono presenti
i Verdi e Sinistra Ecologista) che in quello della lista di centrodestra, si parlerà di
potenziamento radicale della raccolta differenziata con l’introduzione della raccolta porta
a porta; ci saranno anche polemiche sul ‘furto di idee’ ai danni della Lista Destinazione
Forlì, proprio per questo motivo.
Ai fini degli obiettivi dello studio, al voto elettorale assegnato alla candidata a
sindaco della lista Destinazione Forlì (d’ora in poi DF) sono stati associati (come
presunzione approssimativa): un atteggiamento di alta percezione del rischio nei confronti
dell’inceneritore ed alla contrarietà alla realizzazione dell’impianto, forte sfiducia nei
confronti delle cariche politiche e tecniche in carica e nelle modalità di condotta del
processo decisionale, fiducia nel comitato Clan-Destino e nelle associazioni ambientaliste
tradizionali (WWF), scarsa fiducia nelle capacità di rinnovamento del sistema di potere,
bassa percezione del bisogno dell’impianto di incenerimento (anche se ormai realizzato) e
percezione di ingiustizia ambientale nella distribuzione dei fattori inquinanti.
Ho tradotto una serie di dati in rappresentazioni cartografiche a diversa impostazione. Ne
emerge un quadro della distribuzione elettorale del centrodestra, centrosinistra (d’ora in
poi Cdx e Csx) e lista DF. Il Cdx si concentra nelle aree centrali della città,
il Csx si concentra nella periferia
sia urbana che rurale (fa eccezione solo una frazione rurale di nord-ovest), con
un’area di contesa concentrica intermedia, in maniera piuttosto netta. La distribuzione
della lista DF è distesa in maniera più omogenea su tutto il territorio
con una leggera tendenza verso la zona nord-est, dove si trovano gli inceneritori
e le zone industriali più grandi (Coriano e Villa Selva). La distribuzione del voto tra Cdx
e Csx è chiaramente correlato alle aree ecologiche della città individuate tramite analisi
con dati censuari 2001 (titolo di studio, professioni, stranieri residenti) e indagine
qualitativa;
una correlazione storica che mostra quanto siano ancora sedimentate le
stratificazioni sociali di classe/ceto e come si ripercuotono in maniera piuttosto evidente
sul comportamento elettorale. Mentre per la lista DF si nota una possibile tendenza NIMBY
verso la sorgente dei LULU.
Con l’aiuto di un buffer ho selezionato delle fasce concentriche dal LULU di circa 1-2 Km (vedi le Note metodologiche ) e sono stati creati 11 modelli (vedi risultati in Tabella 1.1,).
Tabella 1.1. Coefficienti di correlazione lineare (r di
Pearson) fra i risultati elettorali della lista Destinazione Forlì, le variabili
spaziali secondo diversi modelli e altre variabili elettorali
Comune di Forlì: Dati cartografici e dati elezioni amministrative 2009 (A. Mengozzi 2011) |
Fasce distanziali modello 1 (fasce da 1 a 5) |
-0,41 |
|
Fasce distanziali modello 2 (fasce da 1 a 6) |
-0,43 |
|
Fasce distanziali modello 3 (fasce da 1 a 6) |
-0,41 |
|
Fasce distanziali modello 4 (fasce da 1 a 5) |
-0,44 |
Figura 1.17
Figura 1.18 |
Fasce distanziali modello 5 (fasce da 1 a 4) |
-0,31 |
|
Fasce distanziali modello 6 (fasce da 1 a 6) |
-0,41 |
|
Fasce non distanziali mod. 1 (1 = zona nord via Emilia; 2 = zona sud via Emilia) |
-0,37 |
Figura 1.21 |
Fasce non distanziali mod. 2 (1 = zona nord ferrovia; 2 = zona sud ferrovia) |
-0,42 |
|
Fasce distanziali modello 6, settore SUD |
-0,45 |
|
Fasce distanz. modello 2, settore SUD OVEST |
-0,41 |
|
Fasce distanz. modello 3, settore OVEST |
-0,28 |
|
|
|
|
Voti centro-sinistra (%) |
-0,09 |
|
Voti centro-destra (%) |
-0,18 |
|
Voti validi (%) |
0,1 |
|
Effettivamente la distribuzione del fenomeno è molto dispersa con una correlazione
inversa medio-bassa (r di Pearson = - 0.44 e - 0.45) nei
modelli che forniscono i risultati più significativi. La linea di tendenza inoltre ha una
bassa inclinazione e il coefficiente di determinazione è molto basso (R2 = 0.14). Più è inclinata più
l’effetto NIMBY è marcato, così si manifesta ad esempio nel caso della localizzazione dei
centri di riciclaggio [Lober 1994, 1995a]. In generale, gli atteggiamenti e i comportamenti
poco intensivi come votare per un comitato o firmare una petizione, tendono a distendersi
più lentamente, mentre i comportamenti intensivi, come militare in un comitato o
partecipare ad una manifestazione di protesta, dovrebbero segnare inclinazioni più brusche
della retta. Una certa tendenza si manifesta. La regressione lineare - come abbiamo visto
però senza sufficiente evidenza - ci dice che il sostegno al DF dovrebbe decrescere di
circa il 6% per ogni fascia (1-2 Km), mano a mano che ci allontaniamo dal LULU. E’ bene
precisare che il sostegno al DF non si traduce nella quantificazione dell’opposizione
all’inceneritore complessiva, questa, almeno negli atteggiamenti è molto più ampia, ma la
distribuzione dovrebbe seguire lo stesso andamento come emerge anche dalle analisi di Lober
[1994]. Risultati coerenti sono emersi anche dai 2 modelli non distanziali, cioè basati
semplicemente sulla divisione in due fasce, divise sull’asse nord-ovest e sud-est da via
Emilia e ferrovia. Il risultato più significativo è stato quello del modello generato
dall’asse della ferrovia (r di Pearson = - 0.42). Questo
dato, nonostante la sua debolezza ci dice che il fenomeno interessa maggiormente la pianura
industrializzata dove sono sorti più LULU (un elettrodotto, una centrale turbogas, due
centrali a biomasse, una fossa smaltimento fanghi) che nel settore sud pedecollinare, dove
la presenza di LULU, è più esigua (aeroporto e una cava di inerti).
Entrambe le zone invece sono interessate dalla grande infrastruttura in
costruzione della tangenziale.
Bisogna notare poi che ci sono sezioni elettorali di picco che non sono quelle più vicine al
LULU.
Non credo si tratti di rimozione psicologica del rischio [Diamond 2005, 443-444]
da parte di chi risiede nell’area della zona industriale a ridosso degli inceneritori. Ci
sono abitazioni molto vicine che rientrano nelle zone confinanti alla sezione elettorale di
localizzazione degli inceneritori: purtroppo le sezioni elettorali non permettono di
svolgere un’analisi a questo livello di dettaglio, ma sarebbe interessante condurre
un’indagine sul campo con interviste nell’area. In seguito è emerso che nelle due sezioni
di picco hanno fatto un’intensa campagna dei militanti molto attivi, con ampi legami; in
un caso il militante era già attivo con Clan-Destino e si è candidato nelle liste,
nel secondo caso, il militante, che non era già militante Clan-Destino,si è aggregato in occasione della campagna elettorale di DF
ma non si è candidato.
Ulteriori ricerche con metodi quantitativi potrebbero essere effettuate su altri comuni
interessati da fenomeni simili, vedi il caso di Bolzano, oppure continuare sullo stesso caso osservando l’evoluzione del voto nelle
successive tornate elettorali. Ad esempio, alle elezioni regionali del 2010, la lista
civica regionale Movimento 5 Stelle ha preso 4.062 voti (6,48%), incrementando quasi di
mille voti e del 2,8% il dato relativo sul risultato locale della lista civica Destinazione
Forlì.
Conclusioni sullo studio di caso
Quali spiegazioni dare a questi risultati? Possono essere tre.
Una prima interpretazione poco sostenibile ci potrebbe dire che né Hubbard né Wolsink hanno pienamente ragione oppure che ce l’hanno entrambi.
Una seconda, vicina ad Hubbard e Lober, ci può dire che l’effetto esiste ma nel caso degli
inceneritori il cortile è molto ampio e potrebbe giungere a toccare i confini di un’area
piuttosto grande come l’intero territorio comunale. In questo caso il NIMBY perderebbe di
consistenza. Ma questo proposito si può aggiungere che nel 2006 si è attivato anche a
Cesena un movimento simile (MIZ -
Movimento Impatto Zero) - legato a Grillo – che ha condotto una lunga campagna proprio per
introdurre un sistema di raccolta differenziata spinta. Anche a Cesena poi è nata una lista
civica “5 stelle -Beppe Grillo” che con il 4,1% (2.393 voti) ha conquistato un seggio in
consiglio comunale. Riporto questo dato perché Cesena condivide con Forlì il Piano
Provinciale di Gestione Rifiuti (PPGR) ma è priva di impianti di incenerimento, mentre
ospita da tempo un'importante discarica e un sito di compostaggio. Sempre dal 2006, il
comune confinante di Forlimpopoli, aveva già avviato il metodo di raccolta ‘porta a porta’,
nonostante l’assenza sul proprio territorio di impianti di smaltimento.
Una terza spiegazione, più in linea con la ANT (Actor-Network
Theory), potrebbe essere che se i comportamenti più intensivi come militare
nel comitato, organizzare eventi e azioni, si riducono progressivamente allontanandosi
dalla fonte LULU, allora si può presumere che le reti relazionali legate al luogo di
residenza dei militanti, orientate questa volta alla competizione elettorale, dunque più
legate al contesto di vicinato, possono aver influenzato un po’ di più le persone meno
inclini al confronto politico che si trovavano ad essi, e alle loro sedi, vicine fisicamente.
La morfologia fisica della città, assi di traffico e aree coltivate, barriere
fisiche e visive (ferrovia, boschi ed edifici) possono alterare la distribuzione della
percezione. La forma delle sezioni elettorali non aiuta questo tipo di analisi. Però è
evidente che la configurazione della dinamica, così dispersa come abbiamo già notato, è
poco coerente con il modello spaziale concentrico. L’insorgere di altri LULU, già
menzionati, hanno favorito collegamenti e alleanze con altre
persone o gruppi, prefigurando nel Clan-Destino una sorta di serial NIMBY, cioè un gruppo di attivisti specializzato nella conduzione di battaglie
su singole questioni territoriali che supporta altri gruppi locali, continuativamente.
Secondo la teoria economicistica, i maggiori costi dell’azione (compreso il networking) li sostengono quelli più colpiti dal rischio
(quelli più vicini sono quelli che si attivano di più) poi un comitato serial NIMBY come Clan-Destino e altre associazioni
tradizionali mettono a disposizione risorse specialistiche e mirate, capitalizzate
dall’esperienza acquisita nelle varie campagne condotte. Possiamo considerare questo
effetto come una risposta socio-biologica locale, un impulso di difesa, ma l’impulso non è
sufficiente per ottenere efficacia e riconoscimento nell’arena politica; in quel teatro
servono risorse culturali in grado di far breccia sulle ruotine quotidiane e i privilegi
acquisiti di chi non percepisce certi pericoli. Così si spiega la deformazione del modello
e come il Clan-Destino è, di volta in volta, riuscito ad allargare la scala della posta in
gioco per diventare più influente. Dal borgo rurale ai quartieri urbani e al territorio
comunale e provinciale e regionale. Senza trascurare il dibattito nazionale e le
apparizioni sui media televisivi sia locali che nazionali (anche sul programma televisivo
Exit su La7), oltre ovviamente ad un ampio uso di internet. Questo passaggio però non è
avvenuto spostandosi dalla issue, ideologizzandola, ma
iperpoliticizzando le questioni tecnico-scientifiche [Pellizzoni 2011, 26-27], enfatizzando
rischi e valori, come la salute, legati a questioni tecnologiche o organizzative puntali e
contemporaneamente mantenendo sempre alta attenzione sul luogo, sull’ambiente fisico e
antropico, ciò che circonda la propria casa e gli affetti più prossimi.
Il curriculum di Clan-Destino, da NIMBY a serial NIMBY a
lista civica, segna un percorso di imprenditoria sociale, di successo, in cui sono stati
reclutati attivisti di quartiere in varie aree, in tutto il territorio comunale e non solo
(ricordiamo che le leader provengono tutte dalle frazioni di confine di un altro comune e
di un altra provincia, quella di Ravenna), esperti locali, esperti di fama,
uomini di spettacolo, politici, e sono state influenzate le opinioni di vari esponenti e
militanti di parti avverse.
Può dunque apparire logico che un percorso di questo tipo evolva in lista civica perché
l’ampliamento della scala e della posta necessitano di maggiori risorse di quelle
recuperate solo attraverso il volontariato e le donazioni e l’investimento, necessita di
contropartite di potere più sostanziose e legittimate, ottenibili con la rappresentanza
politica; ciò è comunque coerente con la loro retorica propensa sempre ad alzare la scala
della posta in gioco, che si manifesta anche nel discorso sulle risorse economiche da
assegnare al sistema politico. La linea della corrente grillina, alla quale la lista
appartiene, richiede proprie forme retoriche e forse anche operative di rigorosa sobrietà
critica a cui devono attenersi i propri eletti. Bisogna dire che l’efficienza comunicativa
che ha messo a punto il Clan-Destino, così come il social
networking via web sostenuto tanto dai grillini, surclassano il dispendioso
marketing propagandistico tradizionale dei partiti, e questo può essere un ulteriore
fattore di successo nell’arena politica. Meno chiaro in questi fenomeni è il tentativo,
forse non del tutto maturo e non del tutto compreso, di depoliticizzare la politica
(facendo uso della retorica sulle competenze tecniche che non hanno carattere ideologico e
rimandano ad un solo tipo di scelta o di buon senso) e le derive autocratiche che talvolta
si profilano nel loro discorso e nelle loro forme comunicative, anch’esso etichettato con
un nuovo termine più italico ma altrettanto interessante per questo campo di studi, la
cosiddetta anti-politica.
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DOI 10.1473/quadterr01
Storicamente 2011
Published: December 8th 2011
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