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Visioni e politiche del territorio
Per una nuova alleanza tra urbano e rurale
a cura di Paola Bonora
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Consumo di suolo e collasso delle politiche
territoriali
Paola Bonora
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Abstract
This essay analyses urban sprawl as an expression of the post-fordist economic model. It puts
in evidence: the shift of investments from production trade sectors, the financial
and real estate conversion of capital assets and the emptying of development
capacity at the expense of land revenue. The framework of neoliberalism, which
concerns the mutual gain between financial and real estate trade sectors in the
cultural atmosphere of debit emphasis (public and private; big developers as well as
small property owners) and the consumerist reversal in the relationship between
demand and supply for housing, has triggered the crisis which is afflicting the
world.
The landscape representation is that of a scattered town. The overproduction of
buildings and facility sites has engendered ruinous land consumption, landscape
destruction, and a countryside overcome by the ill effects of urbanization:
increasing mobility needs, disease, the atomisation of modern life, an identity
change, concealed and not completely expressed, which is moving towards a
disorienting metropolitan citizenship. These observations are evidenced by the case
of Italy and Bologna’s metropolitan area.
Il processo che ha portato dalla città compatta
alla disseminazione insediativa e alle sue conseguenze di consumo di suolo ed
erosione dei paesaggi rurali, si è avviato ormai da almeno trent’anni. Una fase in
cui la città ha perso i propri connotati originari, i propri margini, si è
polverizzata in campagne sempre più intensamente urbanizzate. I confini -
percettivi, emozionali, comportamentali oltre che funzionali – sono stati annullati
e le determinazioni amministrative che li fissavano sono state travolte da stili di
vita indifferenti ai limiti. Una dispersione che dal punto di vista delle relazioni
umane si è tradotta in atomizzazione del vivere e dell’abitare, con effetti di
desocializzazione e perdita di territorialità, quell’amalgama di beni comuni
impalcati su capitale sociale, cognitivo, insediativo e paesaggistico che
rappresenta il patrimonio collettivo dei sistemi locali.
Un percorso in
cui le ragioni del disagio sociale che hanno indotto la fuga di popolazione
dall’agglomerazione si sono sovrapposte e confuse, in un gioco vicendevole di
concatenazioni, alle ragioni economiche che hanno trasformato l’urbanizzazione in un
settore trainante dell’economia neoliberista – con tutte le conseguenze che a
partire dagli anni finali del primo decennio del 2000 hanno trascinato il mondo
occidentale nella congiuntura negativa che lo sta dilaniando.
Ma la
città attuale è a sua volta figlia di una precedente crisi. E’ il prodotto della
transizione postfordista, del passaggio dalla concentrazione alla dilatazione, dai
sistemi urbani gerarchicamente ordinati alla diffusione reticolare, dai paradigmi
areali a quelli di natura rizomatica. Un processo che si avvia nel corso degli anni
’70, amplifica a partire dagli ’80 e ha portato a quella alluvione insediativa di
cui da tempo si studiano gli effetti territoriali [Bonora 2009a; Bonora e Cervellati
2009b].
Il saggio ripercorre le tappe del processo di urbanizzazione
connettendolo al grande cambiamento che, con la crisi del fordismo, ha portato alla
riconfigurazione, ontologica ed epistemica, degli spazi. La città è specchio della
trasformazione, ne diviene il fulcro culturale e nello stesso tempo il cantiere, il
campo in cui la valorizzazione trasferisce le proprie energie, in un connubio tra
rendita finanziaria e rendita immobiliare dai risultati devastanti sia sotto il
profilo direttamente economico – di cui la crisi attuale è testimonianza – sia sul
versante del patrimonio territoriale, un bene collettivo che la speculazione ha
saccheggiato. I dati su cui il saggio, negli ultimi paragrafi, appoggia le proprie
tesi sono spesso tradotti in rappresentazioni grafiche e cartografiche linkabili e
documentano la fase più recente, quella culminata nell’esplosione della bolla
immobiliare. Si tratta di cartografie non esornative ma essenziali al
discorso.
Una città senza limiti in un mondo sconfinato
Gli anni ’80 sono quelli in cui si accredita il neoliberismo come modello
economico di reazione alla crisi [Harvey 2005]. La risposta che il capitalismo
introduce per contrastare l’erosione dei margini di profitto che il
tardo-fordismo, nella sua veste keynesiana implicitamente sociale e garantista,
aveva favorito. Una reazione che frantuma il ciclo produttivo, lo segmenta,
specializza e distribuisce all’intero globo per cogliere i vantaggi della
delocalizzazione. Si appoggia su quella che venne definita rivoluzione
comunicativa, trae vantaggi dalla illusoria morte della distanza. Abbatte i
confini. E con ciò il concetto stesso di limite e di una spazialità conchiusa,
definita. Uno sconquasso nel mondo reale, che deve riconfigurare per intero il
proprio sistema di relazioni, e nel modo di intendere i nuovi orizzonti. Un
rivolgimento cognitivo che costringe a rivedere alla radice le categorie
interpretative, specie quelle spaziali, demolite a favore di criteri più fluidi,
ambigui, interinfluenti, transcalari, polisemici.
Una dispersione planetaria che non procede a caso, avanza per punti precisi,
per siti in grado di offrirsi come migliori garanti del profitto e della
capacità di accumulazione che nelle aree regolate delle democrazie occidentali,
attente agli equilibri sociali e territoriali, erano intaccati. Siti che non
configurano luoghi e neppure coincidono con Paesi, ma rappresentano i comparti
segmentati di una grande impresa multilocata transnazionale. Isole
extraterritoriali connesse nel dispositivo globale della produzione e del
consenso, selezionate attraverso le lusinghe del consumo. Il cui destino si lega
a competizione, capacità attrattiva, profittabilità [Bonora 2001]. Criteri guida
del marketing territoriale delle aree urbane.
In principio era il tardo-fordismo
Una premessa che può sembrare ridondante, lontana dalla questione che in
questa fase ci sta a cuore, ma per ragionare della forma urbana attuale e delle
sue conseguenze sul piano territoriale, dobbiamo partire dal neoliberismo,
capire in quale misura la città diffusa ne sia espressione. Il processo di
cambiamento e il modello di organizzazione spaziale che si è instaurato hanno
infatti matrice nella crisi del fordismo. Le logiche che guidano la
trasformazione, pur riferite a scale e insiemi territoriali diversi, sono le
medesime. La città fordista che va in crisi si adegua agli impulsi che stanno
cambiando concezione e strutturazione del mondo. Si deforma, dilata, frantuma,
si specializza e ghettizza, divora spazio, segmenta la società, atomizza la
socialità. Città e segmenti di città che entrano in competizione tra di
loro.
Un cambiamento che sta racchiuso in seno alla dicotomia tra sviluppo e
crescita [Magnaghi 2000; Latouche 2008]. Il tardo-fordismo era riuscito a
temperare gli istinti animali del capitalismo attraverso una serie di misure che
avevano regolato le intemperanze del boom postbellico, le anomalie e disparità
territoriali che aveva generato e che mal si conciliavano con una società
moderna. Controllate attraverso una concezione dello sviluppo che prevedeva
migliore equilibro tra le parti in gioco. Un imbrigliamento del laissez fair che accredita l’idea keynesiana di uno
stato impegnato nel favorire i consumi e, visto esaurito il ciclo delle
esportazioni, stimolare la domanda interna. Una manovra che introduce una serie
di ammortizzatori e tutele per le aree e i gruppi sociali meno favoriti
attraverso un impianto di regole e strumenti di cui lo stato si fa protagonista
e garante.
Si tratta della fase che in seguito in ambito urbanistico, quando queste
convinzioni verranno ripudiate, è stata bollata come pianismo e deprecata come
vincolistica. Un periodo che ha invece consentito importanti momenti di governo
del territorio e prodotto risultati di rilievo nella salvaguardia dei centri
storici e dei beni culturali e paesaggistici. Una concezione dello sviluppo che
arriva a produrre una migliore e meno iniqua distribuzione dei redditi e del
benessere. I successi delle economie distrettuali, filiazione delle garanzie del
welfare-state di quegli anni e del capitalismo sociale di mercato, ne sono
testimonianza. Situazioni in cui il termine concorrenza, che nessuno peraltro
disconosceva, non è il privilegiato, ma a cui si preferiscono reciprocità,
fiducia, spirito di cooperazione. In un clima di collaborazione sociale che vede
la crescita come acquisizione collettiva, in cui la statualità esercita ruolo
compensativo, di mediazione delle contrapposizioni e delle
conflittualità.
Il modello urbano della fase keynesiana tardo-fordista riscopre i piccoli e
medi centri dell’industrializzazione diffusa e della socialità. Ne rivaluta il
ruolo funzionale all’interno di sistemi territoriali policentrici e ne
riqualifica il patrimonio storico come principio di memoria e appartenenza. Le
cento città della Terza Italia si riaffacciano nello scenario come contraltare
al gigantismo e all’anomia della città-fabbrica, all’esasperazione della
concentrazione localizzativa, alle diseconomie e alle tensioni – sociali e
ambientali – che aveva scatenato.
Ma si avvia in questo modo anche quel movimento centrifugo che per gradi dalla
ricentralizzazione decentrata porta all’esplosione delle città, allo sprawl [Indovina et al. 2005; Gibelli e Salzano
2006]. Un pulviscolo insediativo che fagocita le campagne e segna il passaggio
da un’idea di sviluppo temperato da regole sociali e territoriali agli impulsi
deregolati di una crescita che non vuole condizionamenti.
L’ideologia della crescita che la nuova veste del liberismo porta sulla scena,
esaspera il quadro e trasforma gli agenti economici e i soggetti sociali in
competitori [Harvey 1998]. Demolisce le appartenenze sociali come retaggio di un
tempo storico tramontato e affida alla rivalità, tra individui e tra territori,
la responsabilità di accrescimenti che si vogliono accelerati e repentini, con
tutte le asprezze, le opacità e gli effetti diversificanti che ne sono derivati.
Una visuale economica pronta a sacrificare i principi di equità, salvaguardia,
compensazione in nome dell’efficienza del mercato, che pretende scaturisca dalla
sua incontrollata espressione. Libera dalle regole e dai controlli e dunque
dagli obblighi collettivi e dall’universalità delle fruizioni.
Si avvia in questo modo il ribaltamento di ruoli tra pubblico e privato, a
partire da una concezione della transcalarità delle relazioni che ha in
sottofondo insofferenza normativa e arriva a negare il ruolo della statualità
intesa come vincolo allo spontaneo esprimersi del gioco economico.
Privatizzazione e negoziazione si trasformano negli strumenti per aggirare gli
argini regolativi e di compensazione istituzionale. Libertà e concorrenza
economica restano unici arbitri del destino dei sistemi territoriali.
Un’ideologia che riproduce, a scala planetaria e dunque meno percepibile tanto
più nella confusione a-ideologica di questi anni, quelle contrapposizioni e
disparità che il keynesismo aveva cercato di mediare. Territori fortemente
diversificati, imbrigliati in una competizione che li dissangua e ha prodotto
società frantumate ed egoiste, chiuse in se stesse – uno dei tanti paradossi del
mondo globalizzato [Sassen 2008].
Nelle altalene della giostra finanziaria
Mercatismo incontrollato e alleanza perversa tra finanziarizzazione e
immobiliarismo, ha prodotto la crisi in cui il mondo occidentale si sta
dibattendo. Poco più di un trentennio dal tramonto del fordismo e dalla svolta
neoliberista in cui siamo riusciti a depredare i patrimoni territoriali ricevuti
in eredità. L’urbanizzazione disordinata e vorace è la proiezione territoriale
della libertà economica senza freni eretta a dogma [Bonora 2009a; 2009b]. Della
deregolazione che ne è stata strumento e della ricerca compulsiva di facili
ricavi [Berdini 2008; Zanfi 2008] che ha rinunciato alla qualità e vivibilità
del territorio per privilegiare la rendita immobiliare e il consumo di
suolo.
Un processo di deterritorializzazione e desocializzazione [Choay 2008] che ha
alla base il dispositivo scatenante dei consumi [Bauman 2008] e la
trasformazione del territorio in bene di mercato. L’orientamento al marketing
diventa filosofia d’azione. Una prospettiva che esce dal mondo imprenditoriale e
si fa ontologia. Deputata a creare nuovi bisogni, effimeri desideri, eccentrici
sogni. Il consumismo saprà rispondere, attraverso la sua macchina polisemica, ai
gusti, alle mode, alla smania dello shopping che un’accorta strategia
comunicativa avrà nel frattempo alimentato [Codeluppi 2002]. Il culto
individualista dell’appropriazione di oggetti e simboli di status è il clima
culturale nel cui seno il mercato gioca le proprie carte, trasferendo alle
manifestazioni esteriori, dalle vestimentarie alle abitative, l’espressione di
personalità altrimenti prive di riferimenti culturali o memoriali [Bordieu 1994;
De Certeau 2001]. Il consumo – di merci, di suolo, di paesaggi, di socialità, di
abitazioni – la cifra della postmodernità.
La città si traveste, diventa vetrina di un modello di urbanizzazione che
passa attraverso le immagini e la rappresentazione simbolica della propria
capacità di competizione. L’attrattività diventa l’imperativo di politiche di
marketing che poco si curano della strutturazione geografica degli insiemi
territoriali e puntano a generare visioni edulcorate in cui non c’è spazio per
le contraddizioni e frammentazioni che connotano invece i sistemi insediativi –
e che ora esplodono nella crisi. Una città che si fa spettacolo, si fa merce e
si esibisce come tale [Codeluppi 2000; Ilardi 2004; Bottini 2005; Amendola
2006]. Che ingloba le campagne, travolge i paesaggi rurali e dove non li
cementifica, li piega a mera dimensione scenografica. Una logica mercantile che
dagli scaffali degli showroom si travasa nel corpo urbano e nella natura stessa
della città, la cui ragion d’essere non sono più i cittadini ma i consumatori.
Un processo di urbanizzazione che sottende un cambiamento radicale rispetto
all’organizzazione territoriale della modernità fordista, l’etica, le regole, le
finalità sociali, la filosofia che ne stava alla base.
La città si adatta, affida al consumo non solo funzioni e fisionomia, ma la
propria essenza. Assume fisionomia di shoppingmall, natura di palcoscenico
spettacolare capace di attrarre investimenti e city
users. La merce si fa ragione urbanistica, si impossessa
dell’immaginario e soggioga la città e le esistenze alla seduzione di simboli
tanto più fittizi quanto più verosimili. I cittadini scompaiono dal panorama e
dalle preoccupazioni e contano solo come consumatori, come bacini di utenza,
segmenti merceologici di cui infiammare desideri da assecondare. L’esempio
riportato nella fig. 1 illustra la totale
colonizzazione di una delle strade principali del centro storico di Bologna da
parte delle catene internazionali in franchising. Espressione della
deterritorializzazione che le attività commerciali a marchio globale operano
nelle vie dedicate allo shopping.
Le politiche urbane, dimentiche della missione sociale, elaborano narrazioni
accattivanti tese a mettere in valore l’ostentazione, siano oggetti, eventi,
manufatti architettonici, insediamenti residenziali o anche solo un clima,
un’atmosfera. I temi dell’identità strapazzati e piegati a retorica evocativa
[Bonora 2006].
Il marketing territoriale, a ricalco di quello commerciale, affina le proprie
armi e si mette all’opera, trasferendo alla città e al territorio assiomi
mercantili, ogni prerogativa urbana assoggettata agli imperativi
dell’attrattività. Si enfatizzano così il credito e gli ambiti della
privatizzazione – dell’istruzione e della sanità, della raccolta dei rifiuti e
dell’erogazione di energia e acqua, dell’assistenza sociale e in generale dei
servizi di pubblica utilità. Il diritto alla città rinnegato come costo
improduttivo perché incapace di valorizzazione. Il concetto stesso di spazio
pubblico viene trasferito a contesti privati [Torres 1999]. L’idea di vita
pubblica diventa desueta, si perde il significato di relazioni sociali che non
siano legate ai momenti del consumo, entro i suoi contenitori. Si perdono in
questo modo i legami che avevano arricchito i sistemi locali e sulla cui forza
aggregante si sostanziava la territorialità. Un marketing accorto e raffinato
che annusa, cattura, enfatizza sensibilità, umori culturali, mode. Che si
appropria anche del disagio ambientale e lo trasforma in merce, ogni prodotto
reclamizzato con attributi ecologici, di sostenibilità, di cultura e tradizione,
dagli alimenti ai detersivi, dalle automobili ai modelli abitativi.
Anche la campagna entra nel grande circuito merceologico. Come raffigurazione
bucolica di un mondo immaginario di serenità, verde, ritrovata familiarità,
approdo sicuro. Il rifiuto culturale della congestione urbana che ha decretato
il depopolamento delle città, si traduce nel messaggio commerciale che ha
venduto ai cittadini in fuga schiere di villette e malfatti palazzoni di
periferia. Un’edificazione sterminata che ha scelto residenze, centri
commerciali e capannoni come meccanismo di speculazione e ha divorato suoli e
paesaggi, travolto la socialità.
La crisi economica ha messo a nudo gli effetti nefasti di tale forsennata
immobiliarizzazione e della dislocazione delle risorse dalla produzione alla
rendita (improduttiva per sua natura, come spiega Salzano, 2009). Gli effetti
congiunti della sovrapproduzione edilizia e dell’uso sconsiderato del debito
hanno scatenato, a partire dagli Stati Uniti, una congiuntura che ha intaccato
l’economia mondiale. Una valanga che continua a ingigantire. La libera
espressione del mercato rivela il proprio volto distruttivo sulle economie
mentre la negazione di regole di pianificazione produce effetti nefasti nel
territorio.
Una svolta che si è consumata contraddicendo i principi basilari dell’economia
e ha fondato il mercato immobiliare sull’offerta e non più sulle aspettative di
domanda. Anche il bene casa scivolato nella categoria dei beni di consumo. Ma
gli edifici hanno un ciclo di vita più lungo degli oggetti del consumismo mentre
la logica imprenditoriale cerca il reinvestimento continuo in ulteriori
costruzioni. Il mondo occidentale si è così ritrovato con una quantità di
edifici ben superiore al fabbisogno ed è scoppiata la contraddizione tra
un’offerta sovradimensionata e una domanda satura [Bonora 2009a, 2009b].
Il toro non corre più (ma intanto si è divorato la campagna)
Come porci dunque oggi di fronte ad una situazione fortemente compromessa dal
punto di vista territoriale, come pensare alla città e al territorio oltre la
crisi? Il quadro non è incoraggiante ed esige un ripensamento profondo,
radicale, dei modi di intendere urbanità e sviluppo.
Finché il mattone ‘tirava’ l’immobiliarizzazione del territorio è proseguita a
ritmi serrati. Tra 1999 e 2007 la crescita del valore aggiunto in costruzioni è
del +24,0% il doppio di quello totale dell’economia italiana (+12,2%); vicino
alle intermediazioni monetarie e finanziarie +20,2%; entrambi ben lontani
dall’andamento dei settori produttivi: agricoltura -6,5%, industria +2,8%,
servizi +9,7%, commercio +14,8%. Le aziende di costruzione passano da 590.000
(nel 2000) a quasi 776.000 (nel 2007), con un incremento del 31,6%. Le
immobiliari da 151.000 a quasi 250.000 con un incremento del 59,2% (dati Cresme
2008).
Tra 1998 e 2007 gli investimenti in costruzioni aumentano in Italia del 29,4%,
un andamento percentuale più che doppio rispetto al PIL (dati Ance 2008). Una
percentuale che avvicina l’Italia alla media europea (+25,3%) mentre altri paesi
nello stesso arco di tempo conoscono incrementi degli investimenti immobiliari
elevatissimi, tra cui spiccano l’Irlanda con +82,2%, la Spagna con +73,4%, la
Grecia con +69,9%, paesi che, non a caso, negli anni successivi sono entrati in
una crisi sistemica molto pesante. Risalta in controtendenza il dato della
Germania, che da anni sta conducendo una battaglia contro il consumo di suolo e
che nell’arco di tempo che stiamo considerando, ha ridotto i propri investimenti
immobiliari del -12,8%; torneremo più avanti sulla politica del territorio
tedesca.
Da vent’anni a questa parte, con accentuazione nell’ultimo decennio, le
costruzioni si sono trasformate da bene d’uso a bene speculativo, utilizzate
come asset a pegno di castelli finanziari dai grandi gruppi di affari, come
rifugio sicuro dai piccoli investitori privati. Un campo, secondo queste
logiche, da dilatare all’infinito. Una dinamica che tra 1996 e 2010 è stata di
grande effervescenza: i prezzi degli immobili sono aumentati del 63%, le
compravendite del 64%, scrive Cresme [2011]. Tra ’95 e ’10, riporta ancora
Cresme, l’immobiliare è stato l’investimento più lucrativo: mentre azioni e
titoli di stato si accontentavano di rendimenti del 2,8% e del 4,4% annui, gli
immobili residenziali rendevano l’8,1% nelle medie città e il 9,3% nelle grandi
aree metropolitane. Rendimenti superiori persino all’oro, che nello stesso arco
di tempo si è fermato all’8%.
La crisi non è arrivata all’improvviso, ha mandato diversi segnali a livello
internazionale. Il Giappone è quello che per primo ha conosciuto una deflazione
che tra ’91 e ’06 ha travolto il valore degli immobili, calati del 68%. Negli
Stati Uniti la crisi delle costruzioni manda prime avvisaglie nel ’97 anche se
il collasso si avrà solo dieci anni più avanti in concomitanza con l’esplosione
della bolla finanziaria, con cali tra il 30 e il 50% dei valori. In Europa
scoppia in conseguenza di quella statunitense tra 2007 e 2008, con cali
repentini delle compravendite e dei valori. In Italia arriva solo a ridosso
della fine del decennio con cali più moderati ma che in ogni modo tra ’06 e ’10
arrivano al -26,2% delle compravendite e al -17,2% dei prezzi (medie nazionali
fortemente diversificate sotto il profilo geografico e nel rapporto tra centri e
periferie).
Nonostante questi tempestivi quanto evidenti segnali di chiusura di un ciclo,
in Italia si continua a ritenere l’immobiliare un fattore propulsivo e dunque a
costruire. Con persuasa convinzione del governo e febbrile accondiscendenza dei
comuni, che sugli oneri di urbanizzazione contano per le spese correnti e
fingono di non accorgersi che stanno dilapidando il patrimonio
territoriale.
I più accreditati centri di ricerca specialistica sul settore, Cresme e
Nomisma, da anni segnalano inascoltati la saturazione del mercato e
l’esaurimento del ciclo. Una situazione che pesa non solo sul versante
territoriale e paesistico, ma in senso strutturale, economico: Nomisma stima che
almeno il 10% dello stock immobiliare sia invenduto; Sunia-GCIL ipotizza 800mila
abitazioni invendute a livello nazionale. Contabilità aleatorie e imprecise,
problema di cui si parla poco e malvolentieri, nessuno vuole ammettere la
sovrapproduzione, potrebbe scatenarsi il crollo del mercato. Le famiglie
italiane, sinora buone risparmiatrici, sono l’unico argine contro il
deprezzamento, attendono momenti migliori per vendere – fino a che riusciranno a
permetterselo.
Nel frattempo in ogni modo aumentano i cittadini che si sono indebitati per
acquistare o cambiare abitazione e non riescono a onorare i mutui. Adusbef
denuncia per il 2010 un aumento dei pignoramenti di abitazioni per mancato
pagamento del mutuo del 31,3% per un ammontare di circa 150.000 abitazioni, una
città di medie dimensioni che è passata in mano alle banche. Dal 2008, inizio
della crisi, al 2010 l’aumento è stato del 70%. Banca d’Italia, ma il dato è
relativo al 2007 quando la crisi si sta appena mostrando, dichiara che il 5%
delle famiglie che hanno contratto mutuo è insolvente.
Anche il versante imprenditoriale sta scontando l’euforia degli anni passati:
dal 2007 al 2010 il settore delle costruzioni (edilizia e indotto) ha perso 67
miliardi di euro di produzione, pari ad una diminuzione del 17,3% in valori
reali; nello stesso periodo l’edilizia residenziale ha registrato una
diminuzione del proprio fatturato pari al 38% (dati Cresme). Ance lamenta
250.000 posti di lavoro in meno tra 2008 e 2010 (e ovviamente si riferisce agli
addetti ufficiali; non mi risultano stime sulle perdite di lavoro irregolare
nelle piccole e piccolissime imprese edili, ma possiamo arguire siano le prime e
anch’esse corpose).
La corsa frenetica si è scontrata con la realtà, ora bisogna raccogliere i
cocci della società e tentare di ricucire i brandelli di territorio.
Bolla immobiliare e consumo di territorio
La deregolazione che di fatto, nonostante le retoriche politically correct, si è esercitata nei territori ha ucciso
l’idea della gestione pianificata e del controllo del territorio. Il problema
del consumo di suolo, di cui finalmente si affaccia consapevolezza – dopo anni
di proteste civili e denunce intellettuali – è diventato indicatore sintetico
dell’insieme dei fenomeni scatenati dal processo di urbanizzazione: del
disordine distributivo, della colonizzazione della campagna, della distruzione
dei paesaggi, della sovrapproduzione edilizia. Un fenomeno che coinvolge non
solo l’Italia, ma che da noi ha assunto dimensioni particolarmente allarmanti,
tanto più in presenza di politiche nazionali che continuano a ritenere il
‘mattone’ fattore di crescita (i Piani Casa, ad esempio, sono successivi allo
scoppio della bolla immobiliare americana e alla crisi legata ai mutui sub-prime). Non a caso in Italia la quantificazione
del consumo di suolo non è affidata ad alcun organismo nazionale e le iniziative
in questa direzione sono frutto di singole regioni, gruppi di ricerca (in
particolare vedi Osservatorio
nazionale sui consumi di suoli) e associazioni civili (in
particolare vedi stop al consumo di territorio). Sicché risulta impossibile
tracciare una mappa che copra l’intero territorio e ci si deve accontentare di
spezzoni di indagini relativi in massima parte all’Italia Centro-Settentrionale.
Nella fig. 2 la rappresentazione più verosimile
della nebulosa insediativa settentrionale, prodotta da un Tavolo interregionale,
in cui spicca per intensità di occupazione di suolo la padanìa lombardo-veneta
(verosimile poiché si tratta di un puzzle cartografico costruito sulla base di
carte diverse).
Anche le regioni di antica tradizione pianificatoria sono cadute nell’inganno
immobiliare. L’Emilia-Romagna nel decennio tra 1994 e 2003 ha incrementato il
territorio urbanizzato quasi del 52% (fig. 3) e
benché nel quinquennio successivo abbia ridimensionato in maniera decisa gli
accrescimenti (+8,1%), presenta un’occupazione del suolo ingombrante (fig. 4) che a partire dal 1976 ha visto quasi il
raddoppio delle aree artificializzate (+92%). Un pulviscolo insediativo che il
Piano territoriale regionale ipotizza di riportare a sistema (fig. 5), progetto seducente ma tutt’altro che agevole
nel marasma urbanistico attuale. Quando la popolazione si è ormai dispersa nelle
campagne (fig. 6 e fig. 7) e più che tutto di fronte
a previsioni urbanistiche che, indifferenti alla saturazione del mercato,
progettano ulteriori alluvioni immobiliari (fig. 8 e fig. 9).
Dopo anni di trend più che positivi in cui la bolla speculativa ha continuato
a gonfiarsi (fig. 10), a partire dal 2007 e con
maggiore evidenza dal 2008, la crisi del settore comincia a manifestarsi. I
valori immobiliari si raffreddano, con cali più sensibili nelle periferie
urbanizzate (fig. 11), ma segnali ben
percepibili anche all’interno delle città (fig. 12). Salta la relazione tra domanda e offerta. Nonostante il
relativo aumento del numero di famiglie, dovuto in prevalenza a regolarizzazioni
di immigrati peraltro già insediati, il rapporto tra i due incrementi – del
numero di famiglie e del numero di abitazioni – è sempre a favore di queste
ultime (fig. 13)
Dopo la crisi dell’idea di pianificazione, la deregolazione neoliberista porta
al governo degli affari, del potere economico. Non contano volontà e interessi
collettivi ma il peso, la forza di pressione/persuasione del denaro (lecito e
non) in un connubio strumentale alla rendita finanziaria e immobiliare; il
settore immobiliare strategia privilegiata della politica economica, sia a
livello nazionale che sul piano locale, dove la debolezza dei trasferimenti
erode la capacità di spesa e l’insensibilità degli amministratori, ebbri di
protagonismo liberista, si intreccia a interessi poco limpidi. Un’urbanizzazione
che si dilata nelle campagne per omogeneizzare la rendita oltre i limiti della
città compatta eliminando la cesura tra città e campagna.
Ogni anno nei comuni di pianura della provincia di Bologna, ad esempio, si
costruiscono mediamente circa 2.500 nuovi alloggi (di cui circa 700 nel comune
capoluogo). Dai PSC approvati negli anni recenti o in corso di elaborazione
emerge, per la sola pianura bolognese, che la previsione di nuove abitazioni è
di circa 60.000 unità, di cui solo 22.000 derivano da residui non realizzati dei
vecchi PRG (il 36%), gli altri 38.000 alloggi sono previsti dai nuovi piani.
Agli attuali ritmi di assorbimento del mercato edilizio si tratta di previsioni
che impegnano i prossimi 25 anni del territorio e delle sue comunità. Meno del
15% di queste previsioni derivano da interventi di riqualificazione urbana
mentre per l’85% sono alloggi che investono aree agricole non
urbanizzate.
A queste previsioni residenziali vanno aggiunte quelle per aree produttive.
Considerando solo le aree produttive principali è possibile stimare che le nuove
previsioni contenute nei PSC coinvolgano quasi 800 ettari di suolo oggi
agricolo.
Se questo è il quadro che emerge da un contesto che si è sempre reputato
virtuoso e che certamente non rappresenta il peggio di ciò che sta accadendo in
Italia, in assenza di dati puntuali su altre situazioni ma solo alla luce delle
risultanze impressionistiche riprodotte nella fig. 2 che abbiamo visto in precedenza, possiamo presagire conseguenze
di artificializzazione dei suoli di entità non sostenibili.
Tra il dire e il fare: la crisi della decisionalità
La crisi della decisionalità politica che emerge a livello locale oscilla tra
consapevolezza dei problemi, retorica delle dichiarazioni programmatiche e
perdurante legittimazione degli interessi immobiliari. In un contesto in cui
manca un approccio al governo del territorio, alla dimensione vasta, complessa,
articolata, trasversale, concatenata, di sistema interrelato e interinfluente.
Vengono così trascurati la portata sociale della gestione e del controllo delle
trasformazioni territoriali e i diritti dei cittadini presenti e futuri ad una
migliore qualità della vita e dell’abitare. Nonostante annose direttive UE e
accordi internazionali, in alcune regioni manca la prospettiva della
sostenibilità, dove è dichiarata rimane nei fatti artificio retorico.
In assenza di un impalco nazionale di principi che aggiorni la visuale a
quadri ambientali ed economici profondamente mutati (la legge urbanistica
vigente rimonta al 1942, ben altri problemi e prospettive) e indirizzi il
governo del territorio, il decentramento delle competenze in materia urbanistica
e territoriale ha prodotto una estrema difformità degli strumenti di
pianificazione, di impostazione, oltre che denominazione, diversissima. Che
oscillano tra indicazioni di carattere generale strutturale e strategico, fino a
prescrizioni di minuzia tecnica, talmente numerosi e difformi che non sempre
sono chiare le reciproche relazioni e gerarchie, i campi e le procedure di
applicazione. Dall’altra, quando assumono dimensione metaprogettuale, si
traducono in esercizi stilistici, colte narrazioni, dispositivi comunicazionali
e di consenso, belli, raffinati, accattivanti ma pure operazioni di
marketing.
Fermando l’attenzione alle leggi regionali [Camera dei Deputati 2008], si
constata una radicale difformità di visioni, filosofie, progetti, che non trova
ragioni nella sola diversità delle condizioni geografiche e mette in luce
modelli interpretativi opposti e dunque opposti indirizzi. Spesso risultano
diverse anche le attribuzioni delle funzioni tra gli enti territoriali, il che
non semplifica il funzionamento di una macchina amministrativa già
rugginosa.
Una ridda di strumenti, indicazioni, prescrizioni sulla cui attuazione
peraltro nessun organismo svolge monitoraggio e controllo. Sicché anche una
regione come l’Emilia, nel passato paladina della pianificazione e attenta
custode dei patrimoni territoriali, vive una stagione di forti contraddizioni
tra ciò che dichiara e ciò che in effetti realizza. Benché si sia dotata di una
legge di “Disciplina generale sulla tutela e l'uso del territorio” che dal 2000
prescrive di «prevedere il consumo di nuovo territorio solo quando non
sussistano alternative derivanti dalla sostituzione dei tessuti insediativi
esistenti ovvero dalla loro riorganizzazione e riqualificazione» [Legge
Regionale 20/2000, art. 2, comma 2, lettera f].
Norma aggiornata nel 2009 per attribuire ai Piani Territoriali di
Coordinamento Provinciale il compito di definire
«i bilanci delle risorse territoriali e ambientali, i criteri e le soglie del
loro uso, stabilendo per tutto il territorio provinciale le condizioni e i
limiti al consumo di territorio non urbanizzato, nell'osservanza del principio
generale di cui all'articolo 2, comma 2, lettera f, nonché i requisiti di
sostenibilità territoriale e ambientale delle previsioni urbanistiche comunali
che comportano rilevanti effetti che esulano dai confini amministrativi di
ciascun ente» [Legge Regionale 6/2009 art. art. 26, comma 2, lettera e].
Principi di tutela di cui il legislatore regionale è dunque consapevole da un
decennio e ribadisce assegnando funzione di coordinamento e di indirizzo alle
provincie. Se, per esempio, esaminiamo il PTCP della provincia di Bologna,
approvato nel 2004, troviamo indicazioni precise sulla necessità di «minimizzare
il consumo di suolo e gli impatti ambientali», «contenere il consumo di
territorio, riducendo al minimo l’ulteriore occupazione di suolo non urbano per
funzioni urbane» [Norme, art. 10.1, p. 203]. La Relazione contiene un’analisi
lucida della situazione: «Il territorio urbanizzato continua a crescere...se si
considera che si tratta di una crescita a popolazione costante, il trend risulta
elevato...». E la constatazione che «anche il territorio pianificato … continua
a crescere in forma diffusiva ...». Propone dunque di «concertare una motivata
gradualità dell’effettiva entrata sul mercato della disponibilità di aree
previste dai PRG» e un «ragionevole decentramento per centri che eviti i rischi
e i costi ambientali ed economici della dispersione incontrollata (...). Un
modello di assetto del territorio che punta a ridurre il consumo di suolo» [cap.
B1, pp. 147-152].
Non si può dunque affermare che in questo caso non vi sia consapevolezza dei
problemi. E tuttavia i risultati sono quelli illustrati nel paragrafo
precedente. Confermati da un intervento contenuto nel Dossier 125/2011 di
“Urbanistica” sul consumo di suolo in cui si legge che «dobbiamo ammettere che
la politica relativa all’uso prioritario di aree dismesse e alla
riqualificazione urbana, presente in tutti i Piani Provinciali e Comunali e in
quasi tutte le leggi, risulta nei fatti inefficace» e si suggerisce «la messa a
punto di strumenti economici e fiscali per completare quelli della
pianificazione urbanistica e territoriale» [Delpiano et al. 2011, 37]. Un
dossier che mette a confronto numerosi Ptcp e da cui emerge un quadro generale
di buone intenzioni e un panorama di idee interessanti (anche se la scelta delle
aree in esame ha per certo giocato in questa direzione), ma anche la
constatazione di risultati assai deludenti.
Dunque non sono le buone idee (dove ci sono) che fanno pianificazione se non
c’è controllo sull’operato degli enti attuatori e strumenti non solo di
indirizzo ma accompagnati da leve di carattere economico e fiscale. Ma più in
generale se non si rafforza l’azione locale riordinando e riformando l’intero
impalco normativo e strumentale della politica nazionale di governo del
territorio.
Stato di emergenza: urge una politica di governo del territorio
L’assenza di una normativa generale non è che il riflesso della mancanza, a
monte, della sensibilità culturale in grado di cogliere lo stato di emergenza in
cui il territorio versa, la percezione della complessità delle concatenazioni
ecologiche, antropogeografiche, paesaggistiche di cui i sistemi urbani sono
perno.
A differenza di quanto è accaduto negli altri paesi europei, l’Italia presenta
un grave ritardo. Nonostante direttive europee da tempo raccomandino di produrre
forme di insediamento urbano attente ai rischi ambientali, di migliorare le
condizioni ecologiche e applicare il principio di precauzione, di sviluppare
incentivi per incoraggiare il riuso delle aree dismesse contrastando il consumo
di nuove aree, di definire livelli minimi di densità residenziale per limitare
la dispersione, di valutare le conseguenze del processo di urbanizzazione sul
cambiamento climatico, di impostare la progettazione urbana alla scala dei
sistemi urbani integrando livelli e compiti dell’amministrazione pubblica, di
garantire ai cittadini il diritto di partecipare alle scelte.
La Germania, ad esempio, ha cominciato a discutere di invertire la rotta
rispetto al consumo di suolo a metà degli anni ’80, fissando una serie di
paletti giuridici e regolamentari oltre che una serie di metodi e strumenti di
monitoraggio e valutazione. Una sensibilità ai temi ambientali e alle cause
degli squilibri ecologici che rientra in un patrimonio culturale condiviso dagli
schieramenti politici e dunque ha potuto tradursi in un quadro normativo che
negli anni si è andato consolidando fino al varo nel ’98 di una legge per la
tutela dei suoli che si fonda sul proposito di «slegare in modo duraturo lo
sviluppo economico dall’occupazione di suolo» [Frisch 2005]. Benché anche in
Germania i risultati operativi non siano del tutto soddisfacenti [Lenski 2005] e
l’obiettivo di abbassare il consumo di suolo a 30 ettari al giorno (rispetto ai
129 iniziali) da raggiungere entro il 2020, tappa intermedia per la crescita
zero entro il 2050, sia lungi dall’essere raggiunto, si è quantomeno avviato un
processo di responsabilizzazione e contenimento.
In Italia perdura invece un’idea distorta di sviluppo, associata alla rendita
e alla crescita edilizia, insensibile al destino delle generazioni future e alla
salvaguardia dei patrimoni territoriali. Con il rigetto della pianificazione si
è abbandonata anche l’idea di governare lo sviluppo. Mentre proprio dal modello
di sviluppo economico, a partire da quello locale e dal ruolo che i sistemi
urbani esercitano nell’organizzazione dei fattori territoriali, deve partire la
riflessione sulla riforma delle politiche urbane.
La pianificazione del territorio è un atto politico che coinvolge l’interesse
collettivo dell’insieme dei cittadini e delle generazioni future, non può
soggiacere agli impulsi del mercato e ai ricatti dei gruppi di pressione
economici. Implica responsabilità morale e civile, equità, rispetto delle
volontà sociali, lungimiranza. In Italia urge una svolta etica, di giustizia
territoriale contro la dissipazione dei patrimoni comuni e le disparità sociali
ed economiche prodotte dal neoliberismo. Va costruita consapevolezza della
territorialità bio ed eco sistemica come patrimonio comune da preservare e
manutenere. La tutela dell’ambiente e dell’ecosistema debbono diventare
presupposti di fondo. Tutela che deve essere preventiva, di precauzione, e non a
posteriori dei danni come sempre avviene nel nostro paese, per evitare che
patrimoni ambientali e culturali vengano irreversibilmente danneggiati. Che
recuperi la sapienza preindustriale della manutenzione e non abbandoni i
territori all’incuria e al disfacimento in disastri che ben poco hanno di
naturale. Va perciò riconosciuta la trasversalità dei sistemi territoriali e
promosso il coordinamento delle normative settoriali, per una cultura di governo
del territorio consapevole della dimensione complessa, articolata, concatenata,
di sistema interrelato e interinfluente di scala sovralocale, uscendo dalla
logica urbanistica di scala comunale.
La cittadinanza metropolitana come visione strategica
La città deve recuperare la propria dimensione pubblica, privilegiando i
cittadini, sia quelli accentrati che coloro che hanno preferito disperdersi
nelle campagne, hanno abbandonato il corpo compatto dal punto di vista
residenziale ma continuano a frequentarlo quotidianamente. Per i quali il nucleo
rimane riferimento funzionale, emozionale, di vita, cultura, loisir e si
considerano ‘cittadini metropolitani’. Vivono una condizione schizofrenica tra
il se’ anomico in periferia e il se’ sociale dentro la vita urbana, con
risultati di desocializzazione in entrambe le situazioni (villettopoli e
palazzoni dormitorio da un canto, disappartenenza urbana dall’altra).
Bisogna dunque trovare soluzioni urbanistiche al nuovo significato e alle
nuove pratiche di cittadinanza, ovvero politiche del territorio coerenti alla
‘cittadinanza metropolitana’. Si è lasciata germinare l’area vasta senza
pianificare una conforme distribuzione delle funzioni e dei sistemi di
trasporto, con risultati di mobilità infinita, alti costi di gestione dei
servizi essenziali, carenze nelle prestazioni di prossimità alle famiglie,
effetti di disgregazione morfologica, insediativa, funzionale, sociale,
estetica. E’ opportuno ridare ordine a questo caos, applicare logiche di
densificazione per creare centri aggregativi sociali e funzionali, luoghi del vivere e dell’abitare aggrumati
attorno a nuclei identitari dotati di buona riconoscibilità nei quali sia
possibile innescare processi di ri-socializzazione e riqualificazione.
Compattare la polverizzazione attorno a nuclei di funzioni a capacità attrattiva
intermedia in grado di spezzare le
gravitazioni unidirezionali sulla città-madre e privilegiare i cittadini, i loro
bisogni e desideri. Integrare pieni e vuoti, costruito e spazio rurale,
restaurare i paesaggi. Rivalutare la cultura e la memoria della campagna, oggi
pura scenografia per i transiti automobilistici, ridarle dignità autentica.
Abolire la cesura tra città e non-città creando parchi agricoli, parchi
fluviali, recuperare aree abbandonate a favore di nuove forme di agricoltura
specializzata di prossimità. Avviare interventi di mitigazione estetica delle
brutture costituite dai capannoni (tante volte inutilizzati) e dai centri
commerciali e le loro infrastrutture.
Urge riconfigurare la dispersione e fermare l’occupazione di territorio
agricolo riutilizzando e riqualificando gli spazi già occupati. Condizionare le
proposte di nuove occupazioni di suolo a puntuali e veritiere analisi dei costi
economici e sociali. Prevedere misure economiche per il recupero del patrimonio
esistente e misure fiscali di incentivazione/disincentivazione, di scambio e
compensazione intercomunale dei diritti di occupazione di suolo.
In questi anni di ubriacatura neoliberista si sono negati il diritto alla
città e la portata sociale della pianificazione. Di fronte alle emergenze del
nostro tempo (ambientali, energetiche, climatiche, geologiche, idrauliche e
idriche, manutentive, alimentari, umanitarie, etc.) la complessità territoriale
deve diventare visione strategica e la cittadinanza metropolitana la sfera delle
pratiche di governo.
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DOI 10.1473/quadterr02
Storicamente 2012
Published: January 13th 2012
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