|
|
|
|
Visioni e politiche del territorio
Per una nuova alleanza tra urbano e rurale
a cura di Paola Bonora
|
|
|
Partecipazione, spazi pubblici e processi identitari
La città contemporanea come luogo dello scontro tra poteri globali e identità tenacemente locali
Matilde Callari Galli
|
Abstract
Partecipation, public spaces and identity processes. Contemporary city as the location of the struggle between global power and localistic identity.
According to Castells we live the paradox of politics more and more localistic in a world structured by processes more and more global. It is strong the drive to find the meaning of social relations linking them to a vague nostalgic regret of a mythical past. In the geoblog “percorsi emotivi” this regret of old times directly or undirectly is largely present in most of the catagories in which we have organized and divided the contributes that spontaneously citizens of Bologna leave in it. Urban spaces are the location of conflicts among the identities of the different ethnic and social groups who cross or live in urban territories but they are also the location of continous negotiations among groups or individuals which in public spaces come to know each other, being obliged to exchange daily practices. There is a large consensus about the necessity of reducing the distance between urban space and political spaces of partecipation to citizenship. In the contemporariness there is a deep wish of collective identity: politics should interpret how this becomes a strong recall towards commun itarian life and try to give practical replies that avoid dangerous and useless returns to an imaginary past: this pushes people in elating own genetic roots and own old traditions: both mostly invented. New modalities of partecipation to the political decision have to be proposed and developed so that people can become an active subject of collective life. An example of an urban ethnography shows that knowledge of social perception of people who share the same public space can be a good guide for building practices of better interactions among the many differences who inhabit today urban territories.
Table of Contents
Globale e locale nella città
Connessioni inedite degli spazi urbani
Partecipazione e comunità
Nuove identità
Un esempio di etnografia urbana
Bibliografia
Globale e locale nella città
In realtà credo che abbia ragione Bauman quando afferma che i poteri reali che
plasmano le condizioni in base alle quali agiamo fluiscono nello spazio globale
mentre le nostre istituzioni politiche restano saldamente legate al territorio. La
politica tende ad essere sempre più appassionatamente e coscientemente locale: anche
le questioni con radici e cause globali, entrano nel regno degli interessi politici
attraverso le loro diramazioni e ripercussioni locali. Così l’inquinamento globale
dell’aria o dell’acqua, l’accumulo dei rifiuti e la difficoltà di smaltirli cessano
di essere motivi di aderenza ideologica, di pronunciamenti generali e di
mobilitazioni che anche quando raccolgono adesioni di grandi masse restano a livelli
soprattutto emotivi e si trasformano in reali questioni politiche solo quando il
livello dell’inquinamento atmosferico della mia città mi impedisce di uscire di casa
in alcune ore del giorno o quando una discarica di rifiuti tossici è localizzata nel
territorio della mia provincia. Come ha notato anni fa Castells viviamo il paradosso
di «una politica sempre più locale in un mondo strutturato da processi sempre più
globali». Sempre più si tenta di ritagliare il senso delle relazioni sociali
ancorandole al rimpianto, alla nostalgia vaga ed indeterminata, del proprio passato
se si è in età da avere un passato, di un passato descritto, raccontato se si è
troppo giovani per averne uno [Bauman 2000; Castells 2003].
Tra le attività di “mappe urbane” – una associazione che ha lo scopo di affrontare
lo studio della città contemporanea con un’ottica di riflessione teorica e di
ricerca empirica improntata all’interdisciplinarietà – c’ è l’apertura di un geoblog della città di Bologna, dedicato a
raccogliere sulla mappa elettronica le emozioni che suscitano, in chi abita o
attraversa la città, i suoi luoghi.
La visualizzazione e l’inserimento dei contributi – siano essi scritti o
fotografici o audio, o audio visivi, o musicali – è organizzato attraverso sei
categorie semanticamente aperte: “cosa ricordi”, “come siamo”, “come vorremmo”,
“cos’hai scoperto”, “cosa ami”, “cosa temi”. Una parentesi: i materiali vengono
depositati spontaneamente nella rete e ignoto è il sesso, l’età, la nazionalità, il
livello d’istruzione, l’occupazione e il reddito. Non hanno dunque alcun valore
sociologico, non sappiamo neanche se risiedano a Bologna, se vi siano nati o vi
siano giunti da poco ma sappiamo quali siano i sentimenti che la frequentazione
della città suscita in loro. In un certo senso sappiamo sul flusso dei pensieri che
scorre tra le strade, le piazze o i portici della città, molto di più di quanto ci
dicano tante nostre ricerche sociologiche o antropologiche, tante indagini
statistico-demografiche, tante iniziative di urbanistica partecipata.
C’è un tratto che accomuna gran parte dei contributi: tutti i diversi “ombrelli”
in cui abbiamo incanalato i diversi post, sono percorsi da un tono nostalgico, da un
profondo rimpianto del passato: un passato presente oltre che nei contributi che
sono stati inviati sotto l’“ombrello” di “cosa ricordi” anche in altri, anche in
quelli che descrivono un presente colmo di indifferenza e di degrado. Viviamo – è
stato detto – in un’epoca che sembra colma di nostalgia: nostalgia di un passato che
viene facilmente mitizzato, nostalgia di tradizioni che spesso non reggono alla
prova né dell’indagine etnologica né di quella storica, una nostalgia che nasconde
in realtà la difficoltà ad affrontare le incertezze provocate dai nuovi rapporti che
la città impone tra gruppi un tempo isolati e poco noti, da una mobilità sociale
dagli andamenti nuovi e che sembrano non seguire le regole stabilite dalle scienze
sociali, da una economia che con i suoi andamenti espone molti a rovesci sino a
qualche anno fa non previsti: una difficoltà, in breve, a vivere il presente e a
sognare il futuro.
Così “cosa ricordi” è la categoria che raccoglie il maggior numero di interventi,
a dimostrazione di quanto la nostalgia della “Bologna che fu” sia forte e diffusa,
oggi, tra la cittadinanza.
Molti disegnano il paesaggio della propria infanzia, altri hanno per oggetto
determinate aree del centro storico bolognese che negli ultimi anni, agli occhi di
molti cittadini, hanno perso il loro fascino e la loro bellezza; usano lo stesso
tono nostalgico sguardi che attraversano le generazioni ricordando paesaggi
cittadini o locali pubblici o centri di aggregazioni scomparsi, altri post appartenenti alla categoria di “cosa hai scoperto”
legano i luoghi ad eventi della seconda guerra mondiale o della lotta
partigiana.
Ritengo che anche questa sensazione di rimpianto, diffusa in luoghi, oggetti,
monumenti, azioni, unendosi alla tendenza a vivere i grandi temi della realtà
contemporanea solo quando si inverano in situazioni minute e locali, contribuisca a
far sì che le città siano divenute – come vuole ancora Bauman – discariche locali
per problemi generati su scala globale. E grande è la fatica di amministratori, di
pianificatori del territorio che cercano di risolvere sul piano locale problemi
generati altrove, da forze lontane che investono la sfera globale.
Dal ricco materiale raccolto nel geoblog voglio
estrarre un altro dato che mi sembra abbia attinenza con i temi del nostro convegno.
La grandissima maggioranza dei post sceglie come
luogo su cui “appuntare” le sue riflessioni il centro della città, quell’area
delimitata un tempo dalle mura e oggi dai viali. Pochi frequentatori del blog considerano luogo privilegiato per le loro
riflessioni i quartieri che circondano il centro storico, quei quartieri che
accolgono la grande maggioranza dei residenti bolognesi, quei quartieri che hanno
dietro di loro una decennale storia di iniziazione politica, di realtà
amministrativa, di attivazione culturale. In un certo senso possiamo ritenere che il
centro storico sia considerato il rifugio simbolico ed emotivo di fronte ad una
periferia che è cresciuta, nonostante le eccezioni lodevoli ma poco coordinate, con
troppa casualità, con troppa cementificazione, con scarsa attenzione al valore
estetico degli insediamenti. E questa periferia sempre più invadente incalza la
campagna, impedisce uno scambio tra territorio urbano e ruralità continuo e diffuso:
desiderio, questo scambio, che testimonia la sua presenza con l’assiduità con cui si
raggiungono, nei momenti liberi, i borghi e i paesi che circondano Bologna, con la
crescita nelle campagne limitrofe di “seconde case” acquistate o affittate, con il
successo della coltivazione, individuale o di gruppo, degli orti che con fatica sono
stati difesi nell’area urbana o periurbana dalla speculazione edilizia [Bonora e
Cervellati 2009].
Connessioni inedite degli spazi urbani
Da tempo molte ricerche svolte sul territorio urbano dimostrano che tutte le città
del mondo esibiscono spazi privilegiati connessi con altri spazi pregiati tanto su
scala urbana che su quella nazionale e internazionale e persino globale. Tuttavia
spesso questi spazi sono localmente disconnessi da luoghi e persone fisicamente
vicine e sono invece contigui a spazi occupati da persone socialmente ed
economicamente distanti. Anche se gli abitanti dei luoghi privilegiati hanno molte
possibilità per cercare di ignorare le contiguità troppo difformi e pericolose per
la loro serenità e per la loro sicurezza, e possono rifugiarsi nei luoghi “globali”
per il loro lavoro, non possono tuttavia ignorare i luoghi in cui si svolge la loro
vita: essi sono obbligati come i poveri e gli esclusi a cercare la propria identità
nello spazio fisico dei loro vissuti, è nel luogo che si forma l’esperienza umana
delle relazioni, è nei luoghi che si sperimentano opposizioni, condivisioni,
negoziazioni con le molte differenze che in questi luoghi in un modo o nell’altro
convivono [Abéles 2001].
Sarebbe un grave errore posizionare gli aspetti “globali” e quelli “locali” della
vita contemporanea e delle sue pratiche politiche in due spazi diversi che
comunicano tra loro solo marginalmente e occasionalmente. Le modellizzazioni, spesso
eleganti e accattivanti, che descrivono in termini così antinomici la vita urbana e
i suoi aspri conflitti non si adattano alla realtà e non danno alcun aiuto né agli
operatori né agli abitanti delle città contemporanee. Anche se si rivolge a domini
completamente diversi da quello strettamente urbano, è l’errore compiuto dallo
schema teorico proposto da Samuel Huntington che presupponeva civiltà coese pronte a
confliggere unitariamente mentre nella realtà i blocchi unitari di queste civiltà
non esistono ma sono attraversati da gruppi che sotto certi aspetti sono più simili
agli abitanti di blocchi lontani e a certi livelli contrapposti che non a quelli con
cui condividono per residenza e per nascita lo stesso territorio [Callari Galli,
Londei e Soncini Fratta 2005].
La posizione che porta nell’analisi non solo i conflitti ma individua ed analizza
anche le inevitabili mediazioni, aderisce all’ipotesi formulata da Stuart Hall
[2006] di una democrazia radicale o agonistica: in essa le differenze disseminate
nello spazio sociale non possono essere pensate al di fuori di una lotta continua
tra diversi progetti egemonici, al di fuori dunque di un processo continuo di
dominio e di resistenza; al tempo stesso tuttavia, essa non può essere pensata
neanche al di fuori di continue negoziazioni e contrattazioni tra le diverse
identità, in un processo continuo ma faticoso di reciproco riconoscimento.
Trasportato sul piano della progettazione della vita urbana questo implica mettere
in relazione di grande intimità due aspetti spesso tenuti separati quando non in
opposizione l’uno all’altro: lo spazio urbano degli edifici e delle funzioni e lo
spazio politico della cittadinanza e della partecipazione. Colmare questo spazio
anche se appare indispensabile è tuttavia assai difficile per molte e svariate
cause: distanze disciplinari, esigenze diverse quando non opposte che animano le due
“politiche”, quelle degli spazi e delle loro funzioni e quelle della cittadinanza,
attori che rispecchiano interessi spesso conflittuali nell’uno e nell’altro campo,
linguaggi da tempo – forse da sempre – che hanno scarsa consuetudine a dialogare e a
confrontarsi
Partecipazione e comunità
Tutte le forme di partecipazione si prestano oggi ad essere sottoposte ad aspre
critiche e comunque incontrano grandi difficoltà a soddisfare la necessità del
coinvolgimento attivo di ampi gruppi di cittadini. Jacques Donzelot [2003] ha
mostrato in modo chiaro come il discorso della partecipazione possa tradursi in
pratiche svuotate di ogni significato laddove la chiamata “a partecipare” diventi
soprattutto una occasione per convalidare decisioni già prese o semplice strumento
di legittimazione del consenso politico. E ancora, le esperienze riportate da Luigi
Bobbio [2007] mostrano chiaramente come il successo delle pratiche partecipative
dipenda soprattutto dalla capacità e dalla disponibilità delle amministrazioni di
mettersi autenticamente in gioco. Laddove questo – per timore di esporsi, per
incapacità a progettare un percorso adeguato, per paura di perdere il consenso – non
avvenga i processi partecipativi si trasformano in pratiche inutili da cui non
emerge alcuna opportunità di apprendimento e di cambiamento.
Mi sembra di poter dire che anche in questo caso l’opposizione tra globale e
locale funzioni da lente di ingrandimento per inquadrare il fenomeno. Da un lato
assistiamo ad un coinvolgimento sempre più ampio per numero di persone e per
quantità di temi affrontati che cerca il rapporto al livello “globale” della rete,
dall’altro una predisposizione a praticare coinvolgimento e partecipazione attiva
attraverso una aderenza esclusiva a quelle che si ritengono essere le proprie
radici, con una identificazione del proprio gruppo fatta attraverso storie e
tradizioni spesso più supposte che reali [Bauman 2001, 2008].
La comunità oggi se da un lato sembra una realtà indispensabile per ancorare al
luogo desideri, progetti, azioni condivise, dall’altro nasconde le insidie di una
volontà di ripiegamento su se stessa, di una aderenza ad una identità totalizzante
che rifiuta ogni confronto, ogni distacco dalle tradizioni del passato, vere o
“inventate” che siano.
La visione della differenza come eredità storica ricevuta dal gruppo come nucleo
così autentico e radicato da determinare la sua visione del mondo, il senso della
vita collettiva e individuale, produce un relativismo culturale radicale che finisce
con il chiudere il gruppo in un totale isolamento, che rende intraducibili i suoi
stili di vita. In questa prospettiva il multiculturalismo della nostra epoca è
spesso considerato un coacervo di differenze, immobili, immodificabili e quindi
destinate a scontrarsi tra loro. Ed oggi il mondo culturale e quindi politico è
invaso dalla tendenza a reificare le differenze: tutte le tradizioni, le “nostre” e
le “loro”, tutti i modelli culturali, i “nostri” e i “loro”, tutte le identità, le
“nostre” e le “loro”. Da qui scaturisce l’inevitabile pronostico degli “scontri tra
civiltà”.
L’essenzialismo culturale, alla base di molte visioni politiche dell’Italia
contemporanea, costituisce una nuova forma di “razzismo”, più pericolosa del
razzismo che mettendo a suo fondamento l’esistenza della razza consente di smontarlo
su basi scientifiche e storiche. Il nuovo razzismo postulato dall’essenzialismo
culturale è più subdolo in quanto si basa sull’appartenenza ad una cultura dai
caratteri vaghi, così generici da non poter essere valutati nella loro concretezza,
basati più che altro su stereotipi, pregiudizi e infondati luoghi comuni [Callari
Galli 2005].
L’essenzialismo culturale inoltre è causa di un flusso di pensiero che ha fatto
entrare (o rientrare) nell’agenda politica di tutta Europa il tema dell’etnicità.
Per quanto le etnie, alla prova etnologica e storica ci appaiano pure invenzioni,
dobbiamo guardare con lucidità a questo ritorno: senza dubbio l’etnicità è un
elemento di conservazione, una falsa identità che alza steccati insormontabili,
esclude ogni forma di mediazione su valori e comportamenti, conduce alla lacerazione
sociale; tuttavia in un esame delle forze culturali oggi in campo dopo aver svelato
le “invenzioni strumentali” di tradizioni e di etnie, siamo chiamati a individuare a
quale bisogno questa passione per l’etnicità corrisponda dato che si sta
trasformando in uno spazio di lotta per l’inclusione e l’esclusione di gruppi sempre
più ampi. Con la vastità e la rapidità con cui conquista consensi, essa indica il
bisogno per gli individui di punti di radicamento che possano fornir loro un qualche
“senso” di luogo e di posizione nel mondo. I radicamenti possono stabilirsi in
rapporto a comunità, a località ma anche a linguaggi, a religioni, a culture
particolari: ed essi sono importanti perché sono in grado di fornire ancoraggi di
fronte a processi imprevedibili e sconosciuti, quali la globalizzazione, lo
“spaesamento” derivante dalle migrazioni, l’eccesso di informazioni, il
cosmopolitismo, la trans nazionalità [Appiah 2006].
La politica se vuole eliminare il distacco tra le sue pratiche e i bisogni e i
desideri che animano gli abitanti della città, non può trascurare questa necessità
di identità; nell’assumerla tuttavia deve dimostrare con le sue pratiche che oggi
non esistono identità uniche ma i gruppi e gli individui vivono nel corso della loro
vita, spesso contemporaneamente, più identità; ed esse oltre che molteplici sono
variegate, dinamiche, mobili nei loro processi. Così come è importante individuare
il capitale culturale di un territorio, del territorio che si elegge come proprio,
ma non per ancorarsi e rinchiudersi in esso ma per collegarlo ai nuovi obiettivi di
una società complessa, a rischio e globale [Callari Galli 2004].
La stratificazione e la disomogeneità di una collettività urbana, esposta a
nomadismi periodici e a continui pendolarismi, frammentata nella sua mobilità, con
una dinamica spesso dipendente da fenomeni lontani e imprevedibili pone la necessità
di inventare forme nuove di partecipazione che attraverso vecchi e nuovi linguaggi
siano il risultato di un coinvolgimento dinamico e di autonoma attivazione,
scaturito dal contesto e dall’identità del luogo ma capace di guardare oltre, di
aprirsi ad una società ampia, costituita da molteplici comunità in dialogo tra loro
[Colombo e Semi 2007].
Molte le forme di comunità che oggi il vivere urbano genera: la comunità di un
quartiere, la comunità virtuale di un social blog, la comunità di un gruppo di
lavoratori che operano per rispondere ad esigenze comuni – economiche, culturali o
sociali che siano – indicano tutte che l’identità del mondo contemporaneo è una
identità generata da appartenenze multiple: è a queste identità, a queste
appartenenze che si deve rivolgere chi intenda costruire percorsi di partecipazione
attiva concretamente collegati con le realtà territoriali. E forse in questi
percorsi, gestendo i processi di formazione delle identità, può essere cercata una
modalità per colmare la distanza tra spazio urbano e spazio politico.
Non si tratta solo di sviluppare le riflessioni teoriche sul rapporto tra Ville e Citè ma muovendo da queste
applicare agli spazi pubblici della nostra città ricerche empiriche, progettare e
svolgere forme di intervento per approfondire i legami con i “luoghi” che i diversi
gruppi cittadini abitano e attraversano nella loro quotidianità, avanzare proposte
per nuove forme di partecipazione alla loro gestione, individuare l’emergere di
nuove forme di povertà e di esclusione sociale in fasce sociali che per i loro
progetti di vita erano lontane, sino a qualche anno fa, da questo rischio, fare
emergere questo “rischio” portandolo alla consapevolezza e alla responsabilità di
tutti i gruppi che popolano il contesto urbano. Nella città i gruppi che sul luogo
del lavoro, nelle aderenze ai diversi partiti politici, nelle transazioni
finanziarie si comportano spesso come gruppi nemici, ostili, si incontrano come
singoli esseri umani, si osservano vivere in strade limitrofe o nelle stesse piazze,
negoziano più o meno dolorosamente le regole del vivere comune, si abituano alla
reciproca presenza.
La segregazione delle aree residenziali e degli spazi pubblici sottolinea la
presenza del pericolo e dell’aggressività, esclude e cancella ogni possibilità di
condivisione degli spazi pubblici.
Studiosi di aree disciplinari diverse da tempo auspicano l’elaborazione di nuove
mappe urbane e l’individuazione di nuovi punti di riferimento per ipotizzare una
cartografia cognitiva che permetta al soggetto urbano una nuova e accresciuta
consapevolezza della sua posizione nel sistema globale: un telaio di reti, di carte
territoriali che sappia leggere le crisi di senso, i “buchi neri” presenti nel
tessuto sociale delle metropoli occidentali, al fine di orientare interventi che
conducano il disordine metropolitano verso un progetto urbanistico e sociale
alternativo a quello tradizionale [Jameson 1989; Bauman 2000; Callari Galli 2004].
Ma le nuove geografie urbane rimangono difficili da rappresentare e richiedono, per
rimanere nella metafora, una cartografia complessa: costringono studiosi ed
operatori ad abbandonare il punto di vista unico, dominante, nel quale invece si
colloca spesso l’osservatore; costringono ad introdurre nelle elaborazioni la
dimensione simbolica dell’appartenenza a un territorio [De Certau 1974; Augé 1993;
Appadurai 2001; Herzfeld 2003]: o almeno a considerare le forme in cui i soggetti
individuali, i cittadini, producono o riproducono questa appartenenza, elaborandola
attraverso esperienze e pratiche quotidiane [De Certau 2001; Dal Lago e Quadrelli
2003; Callari Galli 2009]. In ogni modo le nuove geografie urbane risultano sempre
più implosive e non è ulteriormente possibile ignorare che il dialogo tra locale e
globale, se esaminato in uno spazio urbano, è spesso generatore di conflitto.
Un esempio di etnografia urbana
Gli spazi pubblici, a Bologna come nelle altre città, costituiscono il luogo
privilegiato delle pratiche multiculturali: lo spazio urbano è lo spazio della
differenza, della mobilità e della variabilità; nello spazio urbano l’alterità viene
percepita come una presenza continua e la differenza è un elemento costitutivo della
vita della città. Ma questo spazio è anche il luogo su cui si scatena la lotta tra
chi vuole identificare nel suo uso un segno della possibilità di incontro tra le
molte differenze che vivono in esso e tra chi invece lo sceglie come prova
dell’impossibilità della convivenza, ne esalta il degrado, ne dilata la pericolosità
che si riverbera sulla città tutta.
E’ questo il caso, a Bologna di Piazza Verdi: collocata al centro dei quartieri
universitari, negli ultimi decenni ha rappresentato, simbolicamente, i momenti più
significativi del rapporto tra università e città, tra studenti e cittadini
bolognesi.
Dalla fine degli anni sessanta sino al marzo del ’77 intorno ad essa ruotavano
molte iniziative culturali: improvvisazioni teatrali, spettacoli di mimi e clown,
mostre di espressioni artistiche di avanguardia trovavano nei suoi spazi armoniosi,
ornati dai due monoliti istoriati che lo scultore Pomodoro aveva donato alla più
antica Università del mondo occidentale, una cornice adatta a sottolineare la loro
importanza quali voci della libera espressione studentesca.
Durante una agitata manifestazione per la quale il Rettore dell’Università aveva
richiesto l’intervento della polizia, a poche centinaia di metri da Piazza Verdi, fu
ucciso Francesco Lo Russo, studente della facoltà di Medicina e Chirurgia e
militante di Lotta Continua. Quel drammatico pomeriggio trasforma immediatamente e
vorrei aggiungere, per sempre, l’atmosfera della piazza e di Bologna tutta. Ed
oggi Piazza Verdi viene vista – e non solo a Bologna – come l’epicentro del degrado
cittadino, il luogo dove vivono insieme, si mescolano divenendo simili e
indistinguibili, cittadini residenti da anni nel quartiere, studenti, “punkabestia”,
ladruncoli, pericolose bande di spacciatori, “senza fissa dimora”, immigrati
illegali, tossicodipendenti, alcolisti. A questa situazione le amministrazioni che
si sono susseguite sia al governo della città sia a quello dell’Università, le
autorità dirette responsabili dell’ordine pubblico, sembrano rispondere con ritardi,
lentezze, soprattutto impotenza di fronte alle richieste dei numerosi Comitati che i
residenti hanno costituito con lo scopo di contrastare un degrado che rende insicure
ed agitate le loro vite [Callari Galli 2007].
Nel 2009 abbiamo svolto con il contributo di alcuni dipartimenti universitari e la
collaborazione dell’Istituzione per l’inclusione sociale “don Paolo Serra Zanetti”
una ricerca etnografica che ha avuto l’obiettivo di indagare i processi attraverso i
quali si è prodotta la rappresentazione che identifica piazza Verdi come il simbolo
del degrado della città tutta. Abbiamo così condotto una rilevazione delle
problematiche, dei bisogni e delle aspettative messe in evidenza dalla molteplicità
degli attori sociali che frequentano la piazza e le strade che da lei si dipartono:
abbiamo seguito con le nostre analisi etnografiche le loro pratiche di vita
quotidiana, le rispettive modalità di fruizione del luogo, le differenti percezioni
e rappresentazioni della piazza prodotte da questi attori. Al tempo stesso abbiamo
cercato di ricostruire la percezione della sicurezza diffusa tra i cittadini
bolognesi registrando un crescendo continuo verso la convinzione di vivere in una
città degradata e pericolosa; e questo nonostante i molti dati che vedono diminuire
le azioni delinquenziali nel suo territorio. Ma in realtà ciò che turba i nostri
concittadini sono le violazioni delle norme che riguardano l’uso degli spazi
pubblici, dei percorsi che seguono quando vanno a lavorare, a fare acquisti, a
divertirsi.
Molte le risorse convogliate su Piazza Verdi per ridurre o arginare l’impatto dei
fenomeni sociali ma tutti gli sforzi fatti, al di là delle intenzioni, sono stati
scarsamente integrati, sovente con poca comunicazione tra loro, senza una logica di
sistema, spesso senza un reale dialogo tra le diverse istanze presenti nella piazza,
senza riuscire ad orientare un processo di condivisione e di convergenza degli
interventi. Piazza Verdi è un territorio conflittuale, o meglio rappresenta una
scenografia ideale per la produzione di specifici conflitti: non solo contrasti tra
comitati, associazioni, rappresentanti del Quartiere, immigrati, Amministrazione
Comunale ma tra minoranze alle volte costituite anche da sparuti gruppi di individui
– per esempio studenti fuori sede che si aggregano per avanzare proposte e
interventi in nome di una provenienza comune, alcuni “senza fissa dimora” che
rivendicano la loro scelta di una vita in strada, commercianti pachistani contro gli
esercenti vicini.
A nostro parere le azioni – anche le più brillanti, le più generose – raramente si
sono basate sulla conoscenza approfondita dei diversi contesti, non hanno compreso
l’uso temporaneo e transitorio dello spazio di molti suoi frequentatori, non hanno
tenuto in considerazione che il sentimento di insicurezza nei residenti – che tra
l’altro vivono la piazza soprattutto nelle ore notturne perché di giorno lavorano
altrove nasce per l’elevata densità della mobilità e della variabilità della
popolazione che gravita in questo spazio. Soprattutto non sono state mirate verso
ciò che maggiormente affligge e sconforta gli “ordinati cittadini”, senza dubbio
turbati dalle rappresentazioni della povertà e dell’ emarginazione quotidianamente
esibite sulla piazza ma preoccupati soprattutto perché la piazza sembra essere
l’epicentro da cui si diffondono in tutta la città le violazioni delle regole del
vivere comune.
Piazza Verdi – ma anche le altre piazze, i giardini, le palestre pubbliche, i
campi sportivi potrebbero e dovrebbero essere occasioni per riflettere sulla
storia del territorio cui appartengono ma anche sulle differenze che essi
esibiscono, sul meticciato che essi con le loro frequentazioni miste generano:
potrebbero così divenire luoghi di mediazioni, di negoziazioni tra le diversità
contrastando le tendenze a canalizzare lotte e proteste solo verso la soddisfazione
del bisogno individuale di controllare il proprio spazio e il proprio tempo di vita;
potrebbero divenire luoghi di interventi che evidenzino la necessità di trovare
nuovi modelli di convivenza per utilizzare e allo stesso tempo per rendere
produttive le differenze, per dissolverle in molteplici obiettivi comuni, sempre più
necessari per rompere isolamenti e ostilità.
Abéles M. 2001, Politica gioco di spazi, Roma: Meltemi.
Appadurai A. 2001, Modernità in polvere, Roma:
Meltemi (ed. orig. 1996).
Appiah K. 2006, Cosmopolitismo, Roma-Bari:
Laterza.
Augé M. 1993, Nonluoghi, Milano:
Elèuthera.
- 1997, Storie del presente. Per un’antropologia dei mondi contemporanei,
Milano: Il Saggiatore (ed. orig. 1994).
Bauman Z. 2000, La solitudine del cittadino globale, Milano:
Feltrinelli (ed. orig. 1999).
- 2001, Voglia di comunità, Bari: Laterza (ed.
orig. 2000).
- 2008, L’arte della vita, Roma-Bari: Laterza.
Bobbio L. 2007 (cur.), Amministrare con i cittadini. Viaggio tra le pratiche di partecipazione in Italia, Soveria Mannelli: Rubbettino.
Bonora P. e Cervellati P.L. 2009 (cur.), Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliarista, Reggio Emilia: Diabasis.
Callari Galli M. 2004, Cittadinanze lacerate,
«Gomorra», 7.
- 2005, Antropologia senza confini, Palermo:
Sellerio.
- 2007 (cur.), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Rimini:
Guaraldi.
- e Scandurra G. 2009, Stranieri a casa. Contesti urbani, processi migratori e giovani migranti, Rimini:
Guaraldi.
Callari Galli M., Londei D. e Soncini Fratta A. 2005 (cur.), Il meticciato culturale. Luogo di creazione di nuove identità o di conflitto?, Bologna: CLUEB.
Castells M. 2003, Il potere dell’identità, Milano: Egea (ed.
orig. 1997).
Colombo E. e Semi G. 2007 (cur.), Multiculturalismo quotidiano, Milano: Angeli.
Dal Lago A. e Quadrelli E. 2003, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Milano:
Feltrinelli.
De Certau M. 1974, La culture su pluriel, Paris: Uge.
- 2001, L’invenzione del quotidiano, Roma:
Edizioni Lavoro (ed. orig. 1990).
Donzelot J. et al. 2003, Faire societé, Paris:
Seuil.
Escobar R. 2010, Casa o piazza? Le dimensioni dello spazio pubblico, «Il
Mulino», 451.
Friedman J. 2005, La quotidianità del sistema globale, Milano: B.
Mondadori.
Giuliani F. e Scandurra G. 2006, Quo vadis, Bologna?,
«Metronomie»”, 32/33.
Hall S. 2006, Il soggetto e la differenza, Roma:
Meltemi.
Harvey D. 1998, L’esperienza urbana, Milano: Il
Saggiatore (ed. orig. 1989).
Herzfeld M. 2003, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, Napoli: L’Ancora del mediterraneo (ed.
orig. 1997).
Jameson F. 1989, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo,
Milano: Garzanti (ed. orig. 1989).
Knox P. L. e Taylor P. 1995, World Cities in a World System, Cambridge,
Cambridge: University Press.
Peter Smith M. 2001, Transnational Urbanism: locating Globalization,
Oxford: Blackwell.
Sennett R. 1999, Usi del disordine. Identità personale e vita nella metropoli, Genova:
Costa & Nolan (ed. orig. 1996).
-
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
DOI 10.1473/quadterr02
Storicamente 2012
Published: January 13th 2012
|
|
Notes
|
|
|
|
|